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Alice Pt. 3 (Rivisto e corretto)
Avevo trascorso una notte agitata, piena di sogni che avevano per protagonista Alice.
Io e lei che ci raccontavamo delle nostre vite su quella scalinata, il senso di magica nuvola calda che ci avvolgeva.
Poi a un certo punto è apparsa quella stronza di Taro Cap, aveva le sembianze di un'arpia spennata, brutta e cattiva come la fame.
Incazzata nera perché io e la sua amica stavamo a parlare insieme senza cagarla.
Nel sogno virato a incubo, mi aveva gracchiato contro con una voce da corvo:
- Butto maschio di merda! Tu Alice la devi lasciar stare, lei è mia. Se provi ad avvicinarti ti stacco la palle con un colpo di becco.
Eravamo terrorizzati: io e Alice fuggivamo mano nella mano per il cortile dell'Accademia cercando un posto dove nasconderci, mentre lei ci volava sulle teste con le sue gradi ali nere ripetendo: - Ti stacco le palle e me le mangio.
Mi ero svegliato prima che suonasse la sveglia, sudato e tremante di terrore.
Dalle otto di mattina avevo atteso l’arrivo di Giulio alla fermata del bus, dove avevamo fissato l’appuntamento.
Mi aveva fatto aspettare con un freddo cane per quasi quaranta minuti.
Ti spaccava le ossa, il freddo, quella mattina.
Era fine novembre, la luce cruda scorticava la superficie delle cose e i pensieri dei passanti assorti nella loro fretta.
Scie candide di fiato ne seguivano i passi, fluide come sogni scaduti nel primo mattino.
Un traffico rapido di veicoli sfilava sull’asfalto candido di brina della via Sacchi; al loro passaggio, folate di aria gelida colpivano come schiaffi.
Non c’era riparo in quella fermata del tram a ridosso del muro della stazione.
Di fronte, due palazzi gemelli interrompevano una sequenza di colonne grigie di smog che avevano brunito il colore originario del travertino.
In quello spazio tra due colonnati si apriva la prospettiva della stretta via del mercato San Secondo, nella quale mercanti di svariate merci e verdurai freddolosi si apprestavano tra le esigue bancarelle, in attesa dei riluttanti clienti della giornata.
Dal vecchio muro alle mie spalle giungevano i rumori operosi della ferrovia.
La stazione di Porta Nuova stava cento metri più avanti: in lontananza si vedevano il giallo dei taxi scaricare clienti con le loro valigie e la loro premura.
Alla fermata del tram, con me, c’erano due ragazze del quartiere, una coppia di anziani e un quarantenne impettito in un cappotto scuro, con una borsa da impiegato nella mano guantata.
Forse un contabile di qualche studio di commercialista del centro, portava un goffo paraorecchie a fascia elastica di un rosso sgargiante.
Io, invece, tenevo orecchie e testa scoperte; solo i capelli, che mi toccavano le spalle, mi ornavano fieramente il capo.
Infatti, non le sentivo più: il freddo le aveva totalmente anestetizzate. Se mi avessero mozzato la testa con un colpo netto, non avrei fatto una piega.
Non me ne sarei neppure accorto, né sarebbe uscita una sola goccia di sangue.
Fanculo a Giulio, che non arrivava.
Stavo assiderando da mezz’ora e di lui non si vedeva traccia.
Una delle due ragazze, quella bruna alta, col maxi cappotto nero e una borsa a tracolla con disegni etnici, la conoscevo: frequentava il mio stesso liceo, ma era di un anno avanti a me.
La chiamavano “Cavalla”, forse per l’altezza o per quel modo indolente che aveva nel camminare. Aveva gambe lunghe e magre che si immergevano in stivali alti fino alle cosce, con tacchi smisurati.
Nascondeva un viso non brutto sotto un trucco pesante che le dava un’aria sprezzante e volgare; a guardarla, con quel bistro in eccesso e il rossetto viola sulle labbra, faceva pensare a una battona.
Portava una mini scamosciata color prugna scuro, di quelle a portafoglio che lasciavano sempre in vista una porzione di coscia, e vestiva collant colorati da 40 denari: era quasi una divisa, per lei, quell’abbigliamento.
Pareva vivere perennemente in una sua campana di vetro silenziosa, separata dal mondo, con lo sguardo svagato di chi non mette a fuoco. Forse era il suo modo di proteggersi dentro, lasciando il mondo ad agitarsi fuori.
Dicevano fosse così per gli acidi che si era calata, che le avevano cotto il cervello, facendole girare la mente a regime ridotto.
Molti le stavano dietro per via di quell’aria equivoca e svitata, che induceva a pensare che la mollasse facile, o forse perché facile lo era davvero e si lasciava fare quando era cotta di fumo o impasticcata.
Io con lei non ci avevo mai provato: mi ispirava poco, forse per quell’aria così stranita o forse perché mi dava una sensazione di sudicio.
Per questo mio disinteresse, mi salutava a stento, quando si ricordava di farlo. Infatti, quella mattina, la memoria le faceva difetto e non aveva accennato a uno straccio di saluto, nemmeno per sbaglio.
“Stronza!” avevo pensato.
Giravano storie su di lei e la sua igiene intima: dicevano che si lavasse poco.
Un mio compagno di classe, una volta, se l’era portata in soffitta.
Dopo, raccontava che, quando si era tolta le mutandine, l’olezzo di figa rancida aveva ammorbato l’aria della stanza.
Lui, pur non essendo un tipo schizzinoso, per quel motivo era rimasto moscio e non aveva combinato niente.
Francamente, non sapevo se crederci: mi pareva una storia esagerata, facile che la raccontasse così perché non gli si era proprio rizzato.
Però, una volta, durante un’assemblea a scuola, quando c’era sciopero, lei si era seduta accanto a me e la puzza di sudore stantio l’avevo sentita bene.
Spendeva molto in ombretti e kajal, ma era evidente che lesinava sul deodorante per le ascelle.
L’altra con lei era la sua amica del cuore, che frequentava un liceo diverso, ma vicino al nostro.
Fuori da scuola erano inseparabili, facevano coppia fissa. Lei era più bassa di Cavalla, con una testa voluminosa di capelli ricciuti, tinti di blu.
Portava lunghe sciarpe multicolori, fatte a mano; le piaceva il gusto vintage ed etnico.
Era difficile da classificare esteticamente: non era né bella né brutta, né grassa né magra; tendenzialmente, non era e basta.
La chiamavano “Unghia” per via delle unghie lunghissime e smaltate dei più strani colori fluorescenti.
Quelle unghie erano la sua nota più significativa; oltre a quelle, restava per tutti semplicemente l’amica di Cavalla.
Vivevano in un rapporto simbiotico: dove c’era l’una, trovavi anche l’altra. I più maligni dicevano che fossero lesbiche, sostenendo che Unghia fosse l’unica in grado di stare vicina a Cavalla e ai suoi afrori selvatici, forse l’unica capace di leccargliela senza vomitare.
Avevo preso a camminare su e giù per lo spazio della fermata, cercando di riattivare la vita alle estremità inferiori, pietrificate.
Il tram numero nove era arrivato sferragliando, arrestandosi con una frenata di metallo abraso. Aveva spalancato con uno scatto secco le porte: nessuno ne era disceso; Cavalla, Unghia e gli altri passeggeri erano montati rapidi.
Io avevo invidiato il calore che li avrebbe accolti nella vettura; in quel gelo, anche il tepore mefitico della vicinanza a Cavalla mi pareva desiderabile.
Era il quarto tram che lasciavo andare, aspettando Giulio.
Tardava come sempre, lo stronzo.
“Ci si vede alle otto, a meno che non senta la sveglia…” aveva detto, ridendo.
Magari, mentre io stavo lì con le stalattiti negli occhi, quell’animale stava ancora russando nel tepore del letto. Mi venivano delle bestemmie, ma avevo troppo freddo anche per pensarle.
Mi ero acceso un’altra sigaretta e soffiavo il fumo caldo fra le mani.
Che cazzata non aver messo un paio di guanti, preso una sciarpa quella mattina, e nemmeno il montone bianco alla Jim Morrison, ma solo il giaccone in panno blu da marinaio, preso al negozietto dell’usato.
Avevo tirato con forza una boccata di fumo; mi era venuto da tossire i polmoni, con lacrime agli occhi.
“Che merda d’uomo,” mi ero detto. “L’ha detto e l’ha fatto: non si è svegliato. Io, coglione, qui ad aspettarlo e crepare di freddo. Ma stavolta giuro vista che me lo inculo!”
Avevo lo sguardo fisso verso il fondo della via, oltre l’incrocio con corso Sommeiller, sperando di veder comparire la Cinquecento blu col tetto apribile di quello stronzo.
Rabbia e delusione mi bruciavano nello stomaco; in lontananza, compariva solo la sagoma verde del prossimo tram.
Allora avevo serrato gli occhi, stretto le mascelle, facendo il vuoto nella testa.
Avevo tirato un respiro gelato fino in fondo ai polmoni.
Avrei contato fino a trenta.
Se al trenta la Cinquecento non si materializzava, sarei salito su quel tram.
- Uno… due… cinque… nove… dodici…
- Dai, bastardo, muoviti. Arriva!
- …quindici… diciotto… venti… venticinque…
- Per favore… Cazzo! Dai!
(Continua)