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Lo so, vi aspettate da me una qualche cruciale rivelazione sul tema del palpare. Direi che da parte vostra vi è una sorta di palpabile curiosità su quanto di papabile potrei pronunciare. Ebbene io non tratterei un tema così ardimentoso se non fosse per una fidata intuizione su un dato di fatto, o su un dato fatto se preferite, ossia la constatazione che molte persone, nelle loro vicende diuturne od effimere, hanno l’innegabile bisogno di tangere, di tastare: che si tratti di un corpo o di un oggetto, di una situazione di fatto o di diritto, anche solo di un’emozione o di un pensiero, per costoro è di basilare sacertà il toccare, il cerziorare con mano, il palpare in lungo e in largo. Ma a che pro, mi vien da dire? Non tanto per un mero sincerarsi, per cui basterebbe un’indagine meno spiccata, quanto per un bisogno di controllare, di sorvegliare, o per l’urgenza di non farsi soverchiare o di non atterrirsi dinanzi le ignote cose. Insomma si pongono diverse questioni. In prima battuta di tale attività occorre definirne i contorni: non è un problema da poco, forse con i primi e i secondi è più facile; il circoscrivere, il delimitare è invece un affare che ha stordito ogni tipo di governante: da coloro che tiravano righe dritte sulle grandi mappe africane alle massaie che tracciano il proprio Lebensraum, tra lavanderia, cucina e deposito delle scope. In effetti abbiamo bisogno di confinare le nostre cose, quasi vi fosse l’atavico impulso a imprigionare qualcosa o qualcuno: la cattività ad ogni costo, che di certo non rende buoni. In qualche maniera l’orrore per il latino fines – ove fine e confine sono la stessa cosa – che ci costringe entro le nostre mura: il nostro mondo finisce laddove inizia quello dell’altro e dell’altro abbiamo paura.
Non meno paura abbiamo del controllo, e infatti ambiamo ad ambo le cose: controllare e non essere controllati. Il controllore del treno titilla le nostre ansie, tasta i nostri timori più reconditi. Ci tocca quindi pagare il biglietto per non esser dal treno trainati altrove: non è un bel trantran. E poi siamo sicuri che la regolazione, puntuale e certosina, ci esenti dall’angoscia del controllo? Sia quel che sia, ma che sia chiaro: il paga mento, sporgente o meno, viene prima di tutto. Anche se spesso può venire anche dopo, e intendo proprio dopo del tutto, e allora è un problema dell’asse ereditario, e come sono problematici questi assi: non si ripiegano mai per bene, e senza non si può nemmeno stirare, che poi non è che lo stira mento faccia tanto bene, e poi era meglio che l’Asse non ci fosse proprio. Non c’è bisogno del resto – e non è così vero nemmeno questo: dipende dall’entità del resto - di essere tragici: il pagamento può avvenire ben dopo la scadenza ma ben prima la scadenza estrema; ossia, può essere dilazionato, rateizzato, ritrattato, contestato, confutato. Soprattutto può essere condonato: per non condannare si condona. Che bello, e del resto è un piacere di gruppo: è un dono fatto con gli altri, è un con dono; è uno stare assieme, anche se a scapito di certuni, ossia i terzi non invitati alla festa, che in quanto trattenuti in busta paga si trattengono dal parteciparvi…
Ma sto divagando, il controllo si diceva. C’è poco da fare: per quanto si sia a posto con pagamenti e poggiatesta, con norme e cavilli, con cavoli e codicilli, e per quanto si stia al proprio posto, non solo in treno intendo, il controllore esercita e seguita ad esercitare una costante sibbene inconsapevole soggezione sul controllato. Una soggezione che scalza sicurezza e ardori, in primis quelli sognati verso le vicine di carrozza, e che ci rende inermi e impalpabili. Il palpeggio quindi come rimedio principe, come re antidoto. Un modo per fuggire dalla fobia del controllore e dalla foiba del controllo, un modo per vedere le carte e scovar finalmente gli assi. Mettiamo gli assi agli atti e diciamoci la verità: chi palpeggia, chi pastrugna, chi impasta e modella, lo fa un po’ a suo piacimento; quindi che si tratti di un sedere o di un’idea, lo si fa nel pieno controllo, oddio che poi perdere il controllo è un attimo, financo di sana follia - che tanto cozza con la malata accortezza - e se qualcuno lo ha perso il controllo qualchedun altro deve pur averlo vinto, ma non vorrei scadere nel totocalcio, ché dopo occorre buttarmi via.
Ma ora (del resto peso poco) mi butterei piuttosto sul sorvegliare, che è un po’ meno del controllo. Il sorvegliante sembra dare un margine di libertà un po’ meno marginale, che poi non si capisce l’accezione negativa del marginale, ché se si ha margine è semmai un modo per dire che si ha ancora tempo, spazio, una qualche chance. Chance che di contro l’emarginato non ha: l’escluso è escluso da tutto e nemmeno ci si occupa di sorvegliarlo. Il sorvegliare dunque. Il badare aggiungerei. Il badante è carezzevole, persino amorevole, ben diversamente dal controllore, che è solo rigido e burocrate e scambia la flessibilità con gesti d’indebita affezione. Insomma, il sorvegliare e ancor più il badare avrebbero una connotazione più umanizzata. E il tutto riconduce al toccare, allo sfiorare. Quanto fanno piacere ai nostri bimbi e ai nostri anziani una delicata carezza e un tenero bacio? Quanto fanno piacere le carinerie che sappiano accompagnarli nei percorsi delle loro vite che sono tra loro sì distanti eppure così simili? Tutta l’umanità avrebbe bisogno di più umanità, pare di osservare: a volte basterebbe poco, una parola gentile, un gesto d’intesa, una carezza.
Carezze e carinerie invero sono tutt’altro che gradite a colui che soverchiarci gradisce. Il che, se ci pensate bene, un po’ stona, anche solo di un diesis: quale modo migliore infatti per dominare se non ricorrendo a lusinghe, moine e adulazioni di diabolica memoria? In tal caso il toccare, il palpare, diventano – o ridiventano - oltremodo di attualità, in quanto sono strumento intonato per aggiudicarsi il consenso, l’approvazione, chi lo sa persino la fede. Abbiate fede, s’intona per le vie e nei giardini. In cosa, non si sa bene, ma sta di fatto che il soverchiare bandendo la brutalità suona una favola. Avanti quindi con i modi affettati e insaccati, con la blandizie distribuita a piene mani. Sentiamoci allettati ma in piena salute, facciamo il pieno di menzogne con il sorriso e svuotiamo di verità i nostri sorrisi. Che vi piaggia o no, la piaggeria diventi pane quotidiano, che ai banchetti vi sia eucarestia di bubbole e falsità; del resto, è meglio la doppiezza o la doppietta? Mi faccio ancora più schietto: meglio una pacifica perenne panzana o una sincera e altrettanto perenne violenza? La risposta la conosciamo tutti molto bene:
non vogliamo schiattare
preferiamo semmai rientrare
sul tema del tangere, quindi il toccare con mano come metodo per prevenire e rintuzzare coloro che amerebbero soverchiarci. Il soverchio ahimé è vizio comune, è interesse diffuso. Fa rima con coperchio, che è il logo prediletto della sopraffazione: cosa c’è di più soperchiante di un coperchio? Un qualcosa che grava sulla tua testa, come una cappa plumbea di epoca post nucleare, che t’impedisce di eruttare, di sobbollire, di espandere, anche solo di spandere; i coperchi sono uccisori di idee e di virtù, talmente negletti che nemmeno il diavolo li vuole fare. E lo scoperchiare produce mondi, connessioni e nuove specie, sibbene non di rado sia bene lasciare il vaso ben serrato, come da Pandora esplicato.
Il coperchio deriva da coprire. La soverchieria quindi è prima di tutto un coprire l’altro. Ma perché mai dovremmo voler coprire l’altro? Forse perché reputiamo che all’atto di oscurare il nostro vicino, noi si possa rifulgere o anche solo emergere? Coprire l’altro per scoprire noi stessi… Abbiamo quindi bisogno di rivelarci, di esser scoperti, per non esser consegnati a oblio o a dimenticanza. Che poi molti non sarebbero d’accordo: esser scoperti può dar nocumento in età invernale e a prescindere dalla stagione può tradurre in gattabuia. Si mangia con i coperti, non con gli scoperti. E poi, cosa c’è di più bello di un assegno coperto?
In ogni caso, il tastare per non esser sormontati, il toccare quindi quale baluardo della nostra libertà. C’è poco da fare infatti: chi soverchia non si limita a coprire, ma ama decimare diritti e riabilitare storture, ama disattendere aspettative e semplicemente non ama attendere: insomma ci si aspetta di tutto da costui, mica che. Secoli di conquiste sociali annullate dall’atto del sormontare. Nei casi clinici più gravi il sopraffacente diventa pure schiacciante, nel senso che ti calpesta proprio come si fa con i metri quadri, e il calce pistare è un pestare ripetutamente col tallone, che è la parte più dura e performante di tutto il piede; il tallonare è un atto proditorio, prodromico al calpestio; l’incalzare è promozionale al soverchio. In breve, tocca sempre guardarsi le spalle, che poi non è così facile, occorre un collo molliccio o svitabile ovvero ruotabile ad angolature raccapriccianti, un po’ come fanno i gufi, condannati per questo a gufare, che poi non è mica colpa loro, non l’hanno mica scelto loro il collo, e tantomeno quegli occhioni inquietanti, ma tanto noi si ha il vizio di additare il diverso per il solo fatto che è tale, senza porsi il problema del quale. Ma qual è davvero il mondo in cui vogliamo vivere? Un mondo in cui si è tutti eguali ma diversi, o un mondo in cui si è tutti diversi ma eguali? Domanda controversa e contradditoria: come se noi si potesse avere realmente una visione globale del mondo, ossia il punto non è tanto dove noi si voglia vivere, bensì dove intendano vivere gli altri.
Sta di fatto che una cosa è certa: il palpeggio è nostro monito e salvezza. Palpiamo dunque i nostri diritti, massaggiamo codici civili e leggi costituzionali, tastiamo statuti e convenzioni. La libertà è come un aroma prelibato che se ne sta indifeso nell’aria: basta un soffio perché ce la portino via.
Non meno importante infine è il toccare per non atterrirsi, quindi per cacciare, cacciar le proprie paure intendo. E più uno scacciare in realtà, depurato cioè dalla valenza belluina della caccia. E’ quello che fa lo scaccino, che congeda sì fedeli e disturbatori ben sapendo però che il giorno dopo si ripresenteranno sui banchi ecclesiali, e non ne può far meno perché sa che gli stessi sono parte integrante della chiesa, sono dei fedelissimi insomma. Così è per le nostre paure: le fughiamo, le esorcizziamo, le mettiamo alle strette, le teniamo alla larga, ma sappiamo che seguiteranno ad aleggiare nei nostri pressi, può darsi cangiando forma e colore, profilo o ghigna, ma rimarranno lì a guatare immacolate.
A che pro quindi tentar di neutralizzarle quando esse, come i fedeli per la chiesa, sono per noi navata e pulpito, banco e pisside? Da che pulpito potrei argomentar diversamente? Certo si palpita ad aver paura, ma quante volte c’insegnano a dover convivere con le nostre paure, con le nostre ansie, con i nostri fantasmi, ed ecco quindi la soluzione: il palpeggiare. Il tastare colui con cui si convive è in fondo operazione tutt’altro che remota. Certo, palpare dei fantasmi potrebbe essere un po’ scomodo, e ancora di più quelli del passato; qualcuno poi ci vedrebbe una molestia pure là: è da intendersi però in senso figurato, sperando in una bella figura, e se tale figura non è di nostro gradimento ci possiamo pure defilare, senza scontrarci con nessuno, ma pensateci bene: prima flirtiamo e poi ci eclissiamo? Che figuraccia.
Sta di fatto che il toccare, il mettere le mani, innegabilmente delimita e quantifica, ci aiuta in questo mondo di toccati a soppesare chi lo è di più e chi di meno. Che poi è strano: com’è possibile che in un mondo di toccati molto spesso invece solo si guarda e non si tocca? Da chi mai quindi saremmo toccati? A meno di non partecipare alle rimpatriate al mare quando ci incitano: venite, qua si tocca. Il problema piuttosto è non toccare il fondo, ma quante volte passiamo dal fondo al cielo, e viceversa? Lo ammetto, la questione mi tocca da vicino.
Può darsi poi che la vera paura sia proprio il rifiuto del tocco. Che tocchiamo a fare se il nostro corrispondente ci negherà il benché minimo contatto? Oddio, a volte si teme di urtar l’altrui sensibilità: è un po’ la tesi di mia figlia quando dice di non aver toccato libro. Alle strette, la paura acché il nostro tocco sia negletto: la si accetti ammainando il nostro arto toccante o la si superi imponendo ugualmente quel tocco? Dipende pure dalla controparte, affermerei. Noli me tangere, disse qualcuno: si pone quindi un problema di autorevolezza?
Eppure il contatto è il basamento societario, è un po’ come il pagamento, è insomma un comandamento del nostro vivere in comune. Con le vite aliene si parla di primo contatto, e non è mai un atto scellerato: lo si fa infatti sempre con tatto, e lo si deve fare persino con aguzzini e tiranni, se vite e palazzi vogliamo salvare.
Riadoperiamoci a toccare, quindi, sempre con garbo beninteso, ma facciamolo che diamine, senza vergogna e pena.
Mettiamo al bando le cose virtuali, che tra un po’ non sapremo nemmeno più carezzar il manto rugoso di una mela di campo.