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L’estate del 1962 era stata particolarmente calda in Umbria. A giugno, il giovane storico dell’arte Lorenzo Berti era arrivato al piccolo monastero di San Giacomo, non lontano da Spello, per catalogare una serie di pergamene medievali custodite nella biblioteca dell’abbazia. Era un incarico secondario, una sorta di apprendistato accademico prima di iniziare il dottorato a Firenze. Non immaginava che, tra le mura di pietra che odoravano di cera e incenso, avrebbe trovato qualcosa che avrebbe ossessionato la sua vita per decenni.
La biblioteca era una stanza lunga e stretta, con scaffali di legno annerito dal tempo. Frate Agostino, il bibliotecario, era un uomo anziano, dal sorriso paziente e dalle mani sottili come rami secchi. Gli consegnò un mazzo di chiavi arrugginite e un registro di legno:
«Giovanotto, fate con calma. Ma ricordate che questi libri non hanno fretta, stanno qui da secoli» disse con un sorriso enigmatico.
Lorenzo trascorse le prime giornate tra cronache monastiche, salteri e codici liturgici. La routine era tranquilla: il fruscio delle pergamene, il cinguettio degli uccelli fuori dalla finestra e il rintocco delle campane che scandivano le ore. Ma un pomeriggio, mentre riordinava un armadio sul fondo della sala, notò un baule basso, in parte nascosto da una tenda impolverata. Le cerniere erano rigide e ci volle qualche minuto per forzarle. All’interno, sotto uno strato di lino ingiallito, c’era un volume rilegato in cuoio, privo di titolo.
Lo aprì con cautela. La pergamena era spessa, la scrittura fitta e misteriosa. Non era latino, né volgare italiano. Non era nemmeno greco o ebraico: i caratteri sembravano una mescolanza di alfabeti, tracciati con una grazia minuziosa. Ma ciò che più colpiva erano le illustrazioni: piante dai fusti spiraliformi, fiori che sembravano occhi, radici simili a mani intrecciate. Alcune pagine mostravano diagrammi circolari, come mappe di mondi sconosciuti, altre, figure di donne immerse in vasche colme di un liquido verde.
Lorenzo rimase a fissare il libro a lungo, con la sensazione che qualcuno lo stesse osservando dalla pagina.
La sera, a cena con i monaci, accennò al ritrovamento.
«Ah, quel vecchio codice...» disse padre Benedetto, il priore, accarezzandosi la barba. «Lo trovammo nel 1921 durante un restauro. Non lo abbiamo mai studiato a fondo. Alcuni pensano sia un falso, altri dicono che porti sfortuna. Frate Orazio, che tentò di tradurlo, si ammalò e lasciò il monastero.»
Lorenzo rise nervosamente, ma notò che molti dei monaci abbassarono lo sguardo, come a voler cambiare discorso.
Nei giorni successivi, Lorenzo trascrisse alcune pagine, disegnò copie delle piante. Provò a confrontarle con i trattati botanici medievali che conosceva, ma nessuna corrispondeva a specie reali. Più studiava, più il testo sembrava vivo, come se custodisse un senso che sfuggiva di proposito. Di notte, gli capitava di sognare quelle piante: i loro fiori si aprivano e si chiudevano come bocche e dalle radici spuntavano parole in quella stessa lingua incomprensibile.
Una mattina, frate Agostino lo trovò addormentato sul tavolo della biblioteca.
«Dovete fare attenzione, figliolo. Alcuni libri leggono chi li legge.»
Era una frase che poteva sembrare una metafora, ma nel tono del frate c’era qualcosa di serio.
Lorenzo decise di indagare più a fondo. Scoprì che il codice non compariva in nessun inventario ufficiale dell’abbazia prima del XX secolo. Non si sapeva chi l’avesse portato lì. L’unico indizio era un ex libris sbiadito con l’iscrizione: Sancta Hildegardis Visiones. Ma era improbabile che appartenesse a Ildegarda di Bingen: la scrittura era di un altro tipo e lo stile delle illustrazioni ricordava piuttosto i bestiari ermetici del Rinascimento.
Una sera d’agosto Lorenzo udì un fruscio provenire dalla biblioteca. Prese una candela e si avviò. Il codice era aperto sul tavolo, benché lui lo avesse chiuso a chiave nel baule. Una pagina che non ricordava di aver visto era esposta: vi era disegnata una mappa del monastero stesso, con un simbolo rosso nel chiostro. Il cuore gli balzò in gola.
Il giorno dopo, si recò nel chiostro e, contando i passi come indicava il disegno, raggiunse un punto vicino al pozzo centrale. Si chinò: tra le pietre c’era una lastra leggermente sollevata. Con l’aiuto di una leva, riuscì a spostarla. Sotto di essa trovò una piccola cassetta di piombo. Dentro c’erano un pugnale rituale, alcune ossa animali e un frammento di pergamena con la stessa scrittura del codice.
Portò la scoperta a padre Benedetto, che lo ascoltò in silenzio.
«Vi ho avvertito, Berti» disse infine. «Questo libro è più antico di noi. Non è stato fatto per essere compreso, ma per custodire qualcosa. Alcuni dicono che sia la memoria di un giardino perduto, altri che contenga ricette per generare vita. Ma ogni volta che qualcuno cerca di decifrarlo, succede qualcosa al monastero. Le api muoiono, i pozzi si seccano, i frati si ammalano.»
Quella notte Lorenzo non riuscì a dormire. Alla luce tremolante della lampada, sfogliò il codice fino all’ultima pagina. C’era un disegno di una figura umana, o forse vegetale, con il corpo coperto di rami e foglie. Sotto, l’unica frase che riuscì a distinguere con chiarezza: chi mi legge, mi semina.
Quando lasciò San Giacomo a settembre, il codice rimase nel baule. Ma qualcosa era cambiato. Mentre camminava lungo il viale dei cipressi, vide una piccola pianta mai vista prima spuntare tra le pietre: aveva i petali disposti a spirale, identici a quelli che aveva copiato nel suo taccuino.
Negli anni seguenti, Lorenzo divenne un accademico rispettato, ma continuò a scrivere articoli e saggi sul “Manoscritto di San Giacomo”, come lo chiamò. Nessuno riuscì a decifrarlo. Eppure, chi lo leggeva con attenzione notava che alcune piante nelle illustrazioni cominciavano ad assomigliare a specie reali scoperte solo decenni dopo, come se il codice si aggiornasse da solo.
L’ultima volta che Lorenzo tornò al monastero, ormai anziano, trovò la biblioteca vuota. Il manoscritto era sparito. Frate Agostino, molto invecchiato, gli disse soltanto:
«È tornato al giardino.»
Quando, qualche mese dopo, il corpo di Lorenzo fu sepolto nel cimitero di Firenze, sulla sua tomba spuntò una pianta sconosciuta, dai fiori spiraliformi. I botanici non seppero classificarla. Sullo stelo, intrecciato come una lettera, qualcuno riconobbe un segno identico a quello del codice.