Corro

scritto da MargheritaD
Scritto 5 mesi fa • Pubblicato 5 mesi fa • Revisionato 5 mesi fa
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Autore del testo MargheritaD

Testo: Corro
di MargheritaD

 

 

Corro. Corro come una matta per arrivare in orario.

Arrivo tutta scomposta, sudata e col fiatone, e lo vedo per la prima volta. Lo riconosco subito perché lo ho visto in fotografia. Lui è uno dei fondatori dell’azienda dove ora lavoro, e oggi presenta l’attività ai nuovi dipendenti, a quanto dicono lo fa ogni anno per accogliere chi è stato assunto da poco.

È un uomo attraente, ha degli occhi grigi profondi e quando si infervora diventano blu.  

 

Sono qui perché devo lavorare, ma è un lavoro temporaneo: non voglio rimanere nell’azienda a vita, ho altri progetti. Io sono un’attrice, una giocoliera, una burattinaia, una strega, una nomade, una cantastorie. 

Ora però ho bisogno di soldi, ho quasi trent’anni e devo scendere a compromessi con il mondo, almeno per un po’. 

Lavoro stabile, stipendio fisso, e un dirigente con degli incredibili occhi blu. 

 

Qualche giorno dopo conosco Sabina, la coordinatrice del mio servizio. 

Una donna sulla quarantina, con dei seni morbidi e rotondi che viene voglia di afferrare con entrambe le mani.

Anche lui mi ha raccontato che la prima volta che sono usciti insieme le ha chiesto se poteva toccarli.

Hanno una figlia. E la bambina è uguale a lei. Ad una festa in ufficio le osservo mentre mangiano, la bambina sta in braccio alla madre con una naturalezza quasi disarmante, come se seduta lì su quel grembo fosse la regina di tutto il mondo e nessuno potesse mai spodestare il suo trono. 

 

Lui mi piace tanto, continuo a incontrarlo in ufficio e a volte ci fermiamo insieme ai colleghi a bere una birra, che poi non è mai una sola. E quando diventano due, tre, quattro, diventa più difficile definire cosa è giusto e cosa non lo è. Diventa discutibile il significato della parola “giusto”. Lo si può guardare da tantissime angolazioni diverse. Dall’angolazione della sensorialità, degli sguardi densi di affamato desiderio, delle risate troppo frequenti e delle braccia che si sfiorano, accidentalmente la prima volta, la seconda per scelta segretamente condivisa.

Quando si supera il limite invisibile della complicità è difficile fermarsi.

 

Fare l’amore con lui non è come farlo con gli altri. Fare l’amore con lui è pensare di volerlo rifare ancora e ancora e ancora e non smettere più. Quegli occhi mi entrano dentro, come se potessero vedere quello che c’è sotto la pelle, ogni particella del mio essere. 

 

Basta lasciarsi andare una volta, perché diventi sempre più frequente, quasi inevitabile. Lo facciamo ovunque, sul tavolo della mia cucina, in macchina, anche in mezzo alla strada quando è agosto e la città è silenziosa e vuota.

 

E’ come se i nostri corpi, per qualche sconosciuta legge fisica, non potessero staccarsi l’uno dall’altro; come quando da piccolo giochi con le calamite, se provi a separarle si riattaccano l’attimo dopo, e solo se ne lanci una molto lontano allora smettono di cercarsi.

Ascoltiamo la musica, guancia a guancia, il respiro sui corpi, in un abbraccio ancestrale, simbiotico, un ricordo antico: il contatto della mamma e del bambino.

Dormiamo abbracciati sul letto, tutti sudati e comunque stretti.

Finché non arriva l’ora. L’ora in cui lui se ne va.

Se ne va perché torna a casa sua. Mi ero scordata, per un istante, che lui ha una casa sua, una compagna e una figlia sua. Sento un buco nel petto mentre si riveste, in un attimo è già pronto a sparire nelle porte dell’ascensore. 

Se ne va, ma poi mi scrive di continuo. Tanto che mi chiedo ma che ci torna a fare a casa? 

 

Lo amo di un amore che non dà scampo, non lascia spiragli, tanto inebriante quando c’è tanto soffocante non appena va via.

Quasi non riesco a respirare. Come se ogni volta che vedo chiudere le porte dell’ascensore, arrivasse da dietro le spalle un boia con la testa coperta da un panno nero, che mi prende con forza e mi immerge la testa in un lago, la corrente è così forte che mi trascina fino al fondo, tra i mulinelli e le acque gelate, e devo fare una fatica enorme per tornare su, per ricominciare a respirare.  

 

Mi scrive ossessivamente, poi d’improvviso sparisce. Un trattamento speciale, forse lo fa per farmi provare del brio. Passano i giorni e non ho notizie. Penso a lui in continuazione, un pensiero ossessivo che mi trascino come la palla al piede del condannato.

Quando riappare, sono così stremata che non ho voglia di capire. So solo che il buco nero, la gola, lo stomaco e il cuore, sono tutti accartocciati uno sull’altro, infatti non dormo bene. Mi giro nel letto e rimugino,  analizzo i silenzi e le frasi poco chiare. Penso alla loro casa. Penso a Sabina, la sua compagna, la madre della sua bambina, ci penso costantemente.

Davvero dormono in stanze separate? Davvero lui non la ama più, davvero vorrebbe lasciarla?

Prima parlavamo spesso di Sabina, della bambina, di quello che erano stati. Quella donna, che non sa nulla di me, io la conosco bene, sento di capirla, e mi dispiace per lei, e per me. 

Ultimamente però non parliamo più di lei. Mi sembra che eviti il discorso. Non ne parliamo, ma io la sogno spesso.

Sogno lei molte più notti di quante sogni lui…

 

… Stanotte sono in una via piena di case.

La seguo furtiva fino ad un portone, che lascia accostato.

C’è la bambina in giardino che gioca in mezzo all’erba, silenziosa come una gatta a caccia. Non fa caso a me, ed io entro.

Incontro Sabina nel corridoio buio, tanto lungo che la fine è una luce lontana: “Ah, sei qui anche tu, bene, così puoi darmi una mano con gli armadi: vanno svuotati.”

Inizia un via vai simile a un balletto, donne di ogni età e fattezza affollano il corridoio sfilando avanti e indietro, i loro corpi riflessi sui grandi specchi alle pareti. Volteggiano cariche di vesti colorate, di pizzo, di seta, eleganti, estive, invernali, imbottite e impellicciate. “Aiutaci”, dice Sabina, ed io ubbidiente mi unisco al balletto.

Gli abiti sono pesanti, il pizzo mi solletica il naso, sollevo le immense gonne colorate con tutta la forza che ho nelle braccia per non farle strusciare a terra. Seguo le altre donne in una corsa elegante e disperata che sembra più una marcia di guerra che un cambio di stagione.

Avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro per ore. Le nostre immagini riflesse scorrono veloci sugli specchi e si trasformano in un turbinio di corpi e colori tanto vivace quanto travolgente, da far venire il voltastomaco. Arrivano altre ragazze, conosciute e sconosciute. Tutte noi, avanti e indietro, avanti e indietro, sfiliamo come indemoniate, su quella passerella di specchi, teatro di balli festosi e schiavitù. 

Sento che mi devo fermare, trafelata.

Mi infilo nello sgabuzzino, uno stanzino angusto e buio. Quando gli occhi si abituano all’oscurità, lo vedo. Rannicchiato nell’ombra, gli occhi sgranati e vuoti fissano il nulla. E’ ubriaco fradicio…

 

… Questa notte invece faccio l’amore con Sabina. Siamo nel loro letto, enorme e morbido, ci rotoliamo a lungo nelle lenzuola calde di sensualità. Lui arriva e ci sorprende, un unico ammasso di carne, le braccia mischiate, le gambe sembrano appartenere ad un unico essere, e l’odore di sesso femminile riempe tutta la stanza…

 

… L’ultima notte lei non c’è, ci sono solo io.

Ho una valigia antica, sono tornata a fare la nomade, l’artista, la giocoliera. Tra poco sarò in scena. Scavo tra gli abiti e gli oggetti per trovare quello che mi serve per stasera, ma c’è una strana puzza. In fondo alla valigia i panni sono umidi e sempre più bagnati. Mi guardo le mani, sono rosse di sangue. Continuo a scavare nella valigia, mi ci infilo dentro per tirare fuori tutta la roba. Nel fondo, tirati via i vestiti e le cianfrusaglie, trovo la carcassa di un cane morto, e dentro di me non ho nessun dubbio, quel cane morto è lui. 

 

Ora sono sveglia. Sento di essermi persa in un labirinto inestricabile. Giorno e notte si confondono, vago nelle immagini della mia mente. Vomito quel senso di amaro, di sporco appiccicoso e viscido catrame che è ormai ovunque, e penetra in ogni anfratto del mio corpo. Il sangue sulle mani, le gonne pesanti, la marcia delle vesti e crinoline, il suo sguardo vuoto. 

 

Mi alzo di scatto dal letto perché mi viene un’idea: la voglio vedere. Voglio vedere Sabina e parlare con lei, voglio che sappia, voglio dirle tutto. La voglio accarezzare, consolare, baciare, mordere, sbranare, annientare.

Decido di scriverle: “Cara Sabina, vediamoci, ho bisogno di parlarti”. Arrivo all’appuntamento e lei è lì. Mi sta aspettando. E’ girata di spalle, seduta su una panchina. 

Solo ora capisco che non posso dirle tutto, il mio corpo resiste, non vuole avvicinarsi. Si impunta come un mulo, e mi sento implodere dentro per la tensione, mentre la faccia mi esplode dal rossore. 

 

Sento una voglia pazza di andarmene, girare i tacchi e allontanarmi sempre più veloce e sempre più lontano, voglio accelerare così tanto che i vestiti si staccano dal corpo, i pezzi di carne, i capelli, un occhio e poi l’altro, le unghie, la lingua, scivolano via. Il mio corpo si sgretola, ed io sono finalmente libera, torno bambina, sono nuda e con lo sguardo in avanti, mi trovo dinnanzi il mare.

E poi succede davvero. Senza pensarci un secondo in più, mi giro e non sono più un mulo ma un giaguaro scattante, inizio a correre, i polmoni si gonfiano e mi sento volare via.

Corro, corro come una matta nella direzione opposta all’appuntamento.

Corro verso il mare. 

Corro testo di MargheritaD
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