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Dante Sbranato.
Non letto: divorato.
Poi le dita – artigli – sull'avorio.
Il tritono, soglia.
Spalancate le fauci d'Inferno.
("Disperato" in partitura)
Cascate di note nere, grandine di zolfo e ghiaccio rovente.
Ottave come magli a percuotere l'anima inchiodata.
Liszt – demone curvo,
spalle che reggono il peso di ere geologiche di dannazione.
Silenzio? No.
Un respiro affannato, un lamento d'amore che geme tra le fiamme –
Francesca, forse? O è il Paradiso che sanguina un ricordo,
un filo di melodia pura, teso sull'orlo del nulla,
prima che la voragine richiami.
E i temi si azzannano, si contorcono,
rinascono trasfigurati – più feroci, più disperati.
Cattedrale di suono che crolla e risorge,
ogni tasto un grido, ogni accordo una cicatrice.
Non è musica, è la sostanza stessa della lotta,
il cuore strappato e offerto
ancora pulsante.
Poi l'ascesa – o la caduta definitiva?
Un Si maggiore che acceca,
trionfo ustionante, luce che non consola
ma svela l'immensità del tormento, o della gloria impossibile.
Il pianoforte ancora fuma.
L'aria trema, violata.
E tu resti, senza fiato,
con l'eco dell'abisso nelle ossa.