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Avevamo quattro Francesco in classe.
Senza mai aver saputo perché, uno rimaneva Francesco, uno era Ciccio, e gli altri due Checco.
Francesco DF era Checco.
Figlio di Parà, ci faceva vedere le cartoline da Beirut, dove il padre partecipava alla prima missione delle Forze Armate italiane dopo la guerra, comandata dall’Ex Allievo Angioni.
Ciò inquadra nel tempo il nostro incontro con Checco, e mi fa sentire vecchio.
Quel mondo, il mondo mio, di Checco e degli altri compagni, non c’è più da tempo, e in quello che l’ha sostituito, dopo 40 anni, cioè oggi, io e lui non ci riconoscevamo più.
Parlavamo spesso di pensione più per questo motivo che per l’anagrafe incalzante, cambiando solo il luogo ove ce la saremmo goduta: una volta era il Portogallo, una volta Panama, una volta Hammamet.
Convinti, però, senza dovercelo dire, che saremmo stati sempre pronti, come dei piccoli Cincinnato, ad abbandonare il tranquillo aratro dell’oblio e rispondere con onore alla chiamata della Res Publica.
Non che quando ancora quel mondo c’era, fossimo diversi: ci sentivamo lo stesso naufraghi nel mare della vita, come se fossimo caduti da un’astronave di un pianeta alieno in cui vigevano leggi di una fisica diversa, come dovessimo sempre svegliarci da un momento all’altro da quei “tre anni lunghi un sogno” - come scrisse l’altro Checco - e ritrovarci in un mondo fatto tutto di gente con la nostra testa.
Detto semplicemente: gestivamo la nostra immaturità, e la pressione della disciplina militare a quell’età, come se gli “storti” fossero gli altri, quelli fuori dalla Nunziatella, o anche dentro, quelli che si definivano, e apparivano, normali.
Credo che ciò che ci legò subito, e per sempre, fu il modo sgangherato che avevamo di reagire a questa condizione: sfrontatamente, non dando la soddisfazione alla vita di riuscire a costringerci a prenderla sul serio.
Checco in quelle occasioni indossava una smorfia beffarda, sghemba, che su quel viso da folletto etrusco diventava quasi una maschera greca, e lanciava con la sua cadenza toscana qualche motto dissacrante e osceno.
Con lui così accanto, era impossibile mostrarsi timorosi, ripiegarsi su sé stessi, indietreggiare.
Che stessimo affrontando una punizione, un’interrogazione a sorpresa, o semplicemente la paura di vivere.
Checco era un istintivo ansiolitico naturale.
Ci lanciavamo dalla carlinga della normalità facendo i pazzi, dando l’impressione - ma era solo un’impressione - di essere coraggiosi ribelli.
Non a caso, insieme (e con l'altro Marco) inventammo lo Gnu, un mostro dalle fattezze quasi ignote, brutto, irascibile e rissoso, ma fortissimo e amabile, che altro non era che la personificazione di quella condizione.
Francesco poi dalla carlinga iniziò a lanciarsi davvero, come fosse un modo per continuare a far vedere alla vita che non gli faceva più di tanto paura.
Ogni volta che ci sentivamo o ci vedevamo, dopo qualche minuto speso a parlare del lavoro, della famiglia, dei figli, dell’attualità, come persone normali, la fiammella si riaccendeva, e mi ritrovavo per qualche istante, o qualche ora, in quella bolla spazio-temporale di tanti anni prima, con quel folletto dall’espressione beffarda, a ridere, anche amaramente, di ciò che c’era fuori.
Quando l’ho salutato, davanti alla sua bara, me lo sono immaginato così: che con mezza smorfia mi guardava da una posizione defilata, e mi diceva “ma che fai…? Piangi…? Ti sei rammollito? Proprio tu gliela stai dando vinta? Sono morto, mica mi sono arreso!