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Il coabitare, ossia il terriccio su cui fiorisce il nostro vivere insieme.
La coabitazione è il coabc della società, è la base e l’altezza un po’ di tutto, in particolare di ogni strumento urbanistico. E’ impensabile infatti che la totalità degli individui associati usufruisca di un alloggio a sé stante. Ve lo immaginate uno spiegamento di microdimore monouso e monolocale, in pratica loculi per vivi, dotati di letto divano sciacquone fornello soffitto e lavabo, il tutto assiepato in una manciata di metri quadri? In realtà in certe parti del mondo, pur essendo così stretti, se ne fa largo uso, ma che sia l’eccezione che diamine! Stiamo parlando di ambienti mono toni e mono tematici, probabilmente anche mono cromatici, insomma non ci starebbe nemmeno uno stereo.
La coabitazione quindi, il rimedio al proliferare di edifici e palazzi unipersonali, che poi la solitudine fa uscir pazzi: è peggio della compagnia dicono, ma va da sé che dipende dal tipo di compagnia. C’è quella di ventura che non di rado diventa di sventura, c’è quella dolce che in amara si tramuta o si camuffa. E sovente si sbuffa: star con persone non gradite può esser genuino tormento e si riscivola perciò nella solitudine, che invero non è costrizione ma sollievo, non è deserto ma landa dorata, è appartenenza a sé stessi, è derisione del compromesso, è armatura appetto le promesse del mondo.
Ma torniamo agli antipodi, ossia al coabitare. Ogni sana coabitazione inizia con il piede giusto, che poi mi son sempre chiesto: quale dei due piedi è quello giusto? Il valzer impone il sinistro. Il passo ocho il destro. Che poi dipende dal sesso del ballerino, chi porta e chi viene portato, è un po’ la metafora della vita: portare ed esser portati. Ogni luogo è un porto: chi arriva, chi va. Se è di mare ancora meglio. Al porto qualcuno si arrischia più volte, quindi è un riporto, di quelli in colonna o a cranio sudato, e come tacer dei cani che non fanno altro che riportarci quello che con ogni consentita energia scagliamo il più possibile lontano da noi, e se ce ne sbarazziamo con tale virulenza significa che non ne vogliamo proprio più sapere, che si tratti di flaconi, aste di metallo, copertoni, cestelli per lavatrici, suocere o buoni propositi, non ne vogliamo più sapere, epperò loro riportano e seguitano a farlo, e chi glielo spiega?
Il piede giusto, si diceva. In teoria tale non è quello di porco e di certo non lo è mai il piedino: i metodi di corteggiamento non devono mai radere il suolo, che poi si finisce per radere al suolo il benché minimo germoglio amoroso. Prediligiamo quindi carinerie aeree, moine e lusinghe, scambi di labbra, baratti di gote; preferiamo il collo che tiene su la zucca a quello pedestre, e come trascurar le tenere spalle, gli odorosi capelli, l’auricolare padiglione. Voliamo alto, verrebbe da dire, che poi in materia amorosa spesso si tratta di veri e propri voli, per lo più di cristalli e barattolame, e più a modo e di moda rimangono quelli pindarici.
Il coabitare, si diceva. Certo, l’approccio è ambivalente. Quel suffisso -co gradirebbe il richiamo a concordia, a coesione, a collaborazione, e via dicendo. Tuttavia non meno calzante pare la costrizione, la coercizione, la coazione; coazione e non colazione, eh, che semmai vedo più come atto intimo e personale che come appagamento di gruppo. Va da sé che ciò che in principio è concordia sa scivolare facilmente nella costrizione. Ovviamente ciò vale per tutte le regioni del nostro vivere comunitario, non solo per la coabitazione, che però con mura e controsoffitto rende tutto più difficile: c’è poco da fare, chi è costretto tra quattro mura è più costretto di altri.
E tutto ciò ha sì a che fare con le regioni ma nulla con la ragione, che spesso non si sa di chi sia. Mai diritto di proprietà è stato più contestato e dibattuto di quello riguardante la ragione; è una proprietà di cui sovente si perdono le tracce, come quei manieri infestati che spariscono nelle nebbie. Del resto tanto accanimento sulla ragione è cosa ragionevole: chi perde la ragione infatti è messo molto male ed è assai difficile recuperarla. Poi, chi sa se esiste veramente: conflitti, contenziosi, liti furibonde in cui non si sa se la ragione sia davvero mai esistita. Tonnellate di volumi, vite intere di incolpevoli amanuensi tese a dimostrare qualcosa di non dimostrabile. Spesso si sente dire: ognuno ha le proprie ragioni, le ragioni stanno da una parte e dall’altra. Ma mi domando, se tutti hanno ragione, come mai il diverbio prosegue, la zuffa persiste e per di più incalza? Che non siano piuttosto, ragione e torto, i due lati della stessa medaglia? L’una non esiste senza l’altro, epperò ruotare faccia è un attimo. Qualche bardo c’insegna che la ragione non sempre serve. Serve semmai la follia, se non altro laddove confina con il genio: sono i territori che hanno ospitato le idee e le rivoluzioni, vicende sconosciute ai più e che proprio per questo hanno deviato il corso dell’umanità.
Ma non deviamo dal nostro tema, la coabitazione.
Quel che sia, non la si sopravvaluti, la coabitazione, che è ben distante dalla convivenza. Coatti o signorili siano quelli che la praticano, la base di ogni coabitazione è la condivisione, coatta o meno. Ragioniamo sul dualismo, vi è un’innegabile differenza qualitativa: nella convivenza si condividono progetti, sogni, umori e sentimenti, in una parola la vita. Nella coabitazione al massimo desco e tavoletta del wc. Tuttavia, quanto siamo mutevoli, non solo nell’uso della tavoletta beninteso: chi la vuole su chi la vuole giù, dicono dipenda dal sesso dell’inquilino, esattamente come il passo di ballo. Quanto siamo mutevoli nel nostro ménage, intendo: quante convivenze degradano verso la coabitazione, e non di rado gioiosamente accade il contrario… Ad ogni modo, scultoreo rimanga il rapporto di genere e specie: chi coabita non necessariamente convive, mentre chi convive per forza di cosa (anche) coabita.
E qua sgorga il dilemma. La convivenza è il viatico dell’amore, o ne è almeno fondamenta o sistema muscolare. Ma siamo sicuri che l’amore si concili con la coabitazione? Badate bene, l’abitare fa il paio con l’abito, l’abitare è quindi qualcosa che indossiamo ed è qualcosa di cui ci si comincia ad abituare: abitare significa abituarsi a stare lì. Epperò quante volte si sostiene che l’amore è diventato abitudine: sì, dai, ammettilo, tu non l’ami più, le vuoi bene, o forse nemmeno quello, insomma quello che provi è un metodico affetto, un’affettuosa abitudine – che poi se tutte le nostre consuetudini fossero animate dai buoni sentimenti, nulla sarebbe da imputarci – insomma non è più amore, o almeno non è vero amore, vero nel senso di autentico, certificabile, verificabile, brevettato e distribuito. No. Non è vero amore, è solo abitudine.
Questo vuol forse dire che due persone che si amano non possono abitare assieme? E questo perché il loro amore diverrebbe inesorabilmente abitudine o perché il solo fatto che abitino assieme comporta che già non si amano più?
E’ forse il vero amore solo quello impossibile, clandestino, l’amore consumato all’ombra dei tigli odorosi, l’amore che non è pianificazione né scadenziario, bensì empito e fragore, quell’amore in cui spasimi anche per un solo attimo rubato o per un istante concesso, quell’amore che urleresti alla luna in persona attendendone una risposta e seguitando a interrogarti sul perché gli astri tutti non si mettano a danzare nell’universo per celebrare il tuo fremito e sul perché non ti designino quale direttore d’orchestra nel ricamo di una ballata celeste?
Parlar d’amore non era nei miei intenti, mi si creda, e del resto come lo si fa ad accostare a convivenza e coabitazione, che giuocoforza risentono di limiti e perimetri che invece l’amore non sopporta?
L’amore fluttua tra mari e rovi, tra creste e steppe. Non ha confini e non ne potrebbe avere, figuriamoci pareti e mobilio. L’amore non ha forma né corpo, esiste a prescindere, c’è anche se non si vede. Non è urbanizzabile insomma. Non vi si pagano tasse, non è ipotecabile. Non è permutabile né scambiabile. L’amore di scambio è al massimo un problema ferroviario.
L’amore non si importa né si esporta, eppure importa a tutti.
Si potesse misurare il prodotto interno lordo con l’amore, quante aziende lo smercerebbero, quanti impianti verrebbero riconvertiti, quanti missili dismessi.
Il mondo va così purtroppo: si convive non solo con le persone, ma anche con le misere verità.