L’Ufficio del Tempo Smarrito.

scritto da Old Typewriter
Scritto 6 mesi fa • Pubblicato 6 mesi fa • Revisionato 6 mesi fa
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Testo: L’Ufficio del Tempo Smarrito.
di Old Typewriter

Essere leggermente distratti è una cosa piuttosto comune. Capita a tutti, prima o poi, di uscire di casa senza chiavi, di dimenticare il pane in forno, di salutare una persona convinti che sia un’altra. Piccole sbavature della mente, come una riga storta su un foglio bianco.

C’è chi si dimentica dove ha parcheggiato, chi confonde i giorni della settimana, chi cerca gli occhiali mentre li ha sul naso.

Ma il signor Tapparella no. Lui non era leggermente distratto. La sua era una forma di smarrimento più profonda, quasi elegante nella sua stranezza.

Era così distratto che non perdeva oggetti o pensieri — lui perdeva il tempo. Non i minuti, quelli li trovava ovunque: rannicchiati sotto le tazze di caffè, spiaccicati tra due pagine di giornale o dentro il tubetto di dentifricio.

Era capace di sedersi nel letto alle otto del mattino per infilarsi un calzino e ritrovarsi, un attimo dopo, alle cinque del pomeriggio.

“Dove sono finite le undici, le dodici e quell’altra dopo il pranzo?”, chiedeva al suo gatto Ernesto che, per ragioni sconosciute, gli rispondeva solo in ungherese.

Un giorno, dopo aver smarrito un mercoledì intero, decise di cercare se esisteva l’Ufficio del Tempo Smarrito.

E contro ogni logica lo trovò. Era al settimo piano di un palazzo che cambiava numero civico ogni martedì e colore ogni volta che pioveva con il sole. Lì, il tempo lo custodivano in immensi capannoni sparsi in una zona industriale.

Ci potevi trovare le ore perse durante le riunioni noiose. Le mezze giornate perse in svariate sale d’attesa o le ore perse a fare la coda. E molte mattine sparite tra le pieghe di un libro mai finito di scrivere.

“Buongiorno,” disse il signor Tapparella alla segretaria, una signora con tre orologi al polso e un occhio che ticchettava.

“Numero?” chiese lei.

“Mi sa che venendo qui ho perso anche quello.”

“Perfetto, allora è il momento giusto.”

La segretaria lo accompagnò in una stanza tappezzata di cucù. Ognuno aveva un uccellino diverso: uno soffiava bolle, uno sputava coriandoli, uno cantava Battisti.

Al centro della stanza, seduto dietro una scrivania che sembrava costruita con pezzi di vecchi orologi, c’era un omino. Indossava un cappello fatto con ritagli del calendario filosofico e aveva l’aria di chi conosce bene il peso di un secondo e la leggerezza di un’ora felice.

“Lei è il signor Tapparella?”

“Sì.”

“Abbiamo trovato il suo sabato scorso, era appallottolato in un angolo, che giocava a tris con un venerdì del 1982.”

Il signor Tapparella si commosse. “Posso riaverlo?”

“Solo se promette di non sprecarlo. Di viverlo intensamente.”

Tapparella firmò un modulo con una penna che scriveva in avanti e indietro contemporaneamente, e se ne tornò a casa con il suo sabato sotto braccio.

Da allora, il signor Tapparella continua a perdere tempo. Ma a volte lo fa apposta. Così ha una scusa per tornare, di tanto in tanto, nell’Ufficio del Tempo Smarrito.

“Per caso avete trovato le tre e mezza di ieri? Le ho perse proprio mentre sembrava che stesse per succedere qualcosa di bello.”

L’Ufficio del Tempo Smarrito. testo di Old Typewriter
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