Contenuti per adulti
Questo testo contiene in toto o in parte contenuti per adulti ed è pertanto è riservato a lettori che accettano di leggerli.
Lo staff declina ogni responsabilità nei confronti di coloro che si potrebbero sentire offesi o la cui sensibilità potrebbe essere urtata.
La Locanda
Nel 1890 ripensai candidamente e con fare assorto al mio lavoro di viaggiatore: il mestiere del commerciante è pregno di situazioni delicate e insidiose. Non sempre l’esplorazione e la conoscenza di culture e retaggi a noi opposti riescono ad essere causa dello stesso risultato. La scoperta e la conoscenza inducono una consapevolezza non prevedibile; la congiunzione delle pratiche culturali impattano e riducono la nostra convinzione di saper tutto sul mondo, espandendo dei perimetri a noi invisibili. Credo che l’apertura mentale si basi su questo fondamento. Il nostro pensiero cambia e mostra a noi il tutto, ci permette di fiorire per poi non trovare la morte, in qualche modo, cambiandone l’idea. Per queste motivazioni ho deciso, in gioventù, di intraprendere la carriera di mercante di tessuti. Sono stato assunto, fortunatamente, senza referenze e a risposta dell’esplosione del mercato, grazie alle nuove metodologie di trasporto.
Con mia fortuna e diletto, incominciai da molto giovane – con estrema spensieratezza - i miei viaggi per il mondo: gli anni passati a proferire un mestiere così dinamico e fondato su rapporti interpersonali mi aiutò a conoscere me stesso e, tramite me, gli altri. Sono qui a scrivere questo resoconto per un motivo molto semplice: sono fermamente convinto di aver vissuto un evento fuori dalla nostra comune comprensione; uno spaccato incomprensibile del nostro tempo che possiede una gravità tale da poter cambiare la concezione di questo mondo. Ancora tremo alla rimembranza di quella visione, di quello spiraglio di follia che non mi abbandonerà mai. All’alba dei miei personalissimi 30 anni, ricevetti un ordine da una famiglia molto agiata residente nell’entroterra della Germania orientale: i clienti di un certo livello , che possono permettersi di acquistare quantità importanti di materiale , sono in proporzione marcatamente esigenti, sicché il mio ruolo diviene fondamentale, il più di contatto possibile. E’ di vitale importante far sentire il materiale, toccarlo, spiegarlo: è altresì importante, quindi, che la natura del viaggiatore venga sfruttata in maniera colta e cordiale; se ciò dovesse venire a meno, tutti i viaggi, seppur formativi, sarebbero pragmaticamente inutili.
Una volta iniziato il mio viaggio, a circa metà strada, dovetti attraversare una fitta radura: la magione della famiglia Witness, così si chiamava, era situata appena fuori dal perimetro della foresta, l’Obrtpfalze Wald, confinante con il Regno di Boemia. Queste situazioni possono rivelarsi molto dure: è importante poter contare sulle proprie doti di sopravvivenza: le carovane non contemplano il difficile ed importante onere di effettuare una traversata in un percorso così accidentato. Il rischio di rovinare, rompere o addirittura distruggere anche solo una parte del mezzo utilizzato, non rende la richiesta valida per essere considerata, non contando il possibile coinvolgimento delle bestie da soma, care come mai prima di quel periodo. Di conseguenza, l’unica scelta logica sarebbe stata quella di semplicemente intraprendere il percorso a piedi. Con il mio zaino in spalle, notai immediatamente quanto la foresta fosse tranquilla e discretamente fitta: i nervosismi non fanno parte di me. Con pensieri tranquilli e sereni mi infilai in quel garbuglio di piante senza nessuna traccia di oscurità nella mente.
Seguii un sentiero appena accennato, giunto però ad un avvallamento nel cuore della foresta, dovetti continuare tra le sterpaglie: la magione era ancora lontana, ma da quella direzione non esistevano percorsi diretti: la selvaggia crescita di rovi con dispiacere, intaccò il mio piano. Rimbombò poco prima della mezzanotte, un tuono che mi fece preoccupare, non credo sia difficile da immaginare quanto possa essere spiacevole rimanere scoperti e senza tetto durante una tempesta di pioggia. Le nuvole scure a occidente presagivano un oscuro tempo e, sicuramente, non potevo azzardare di rovinare tutti i tessuti pregiati a ormai così poca distanza dalla villa Witness. Pensai quindi di affrettarmi e non dormire affatto, la mia speranza risiedeva nel superare il bosco prima della tormenta, il sonno poteva aspettare. Dopo una miscela di passo svelto e corsetta, mi imbattei in uno strano sentore, un misto tra tabacco e carne essiccata: pensai che la mia mente mi stesse stordendo fortemente. Una fioca luce in lontananza comparì a me. Mi avvicinai di tutta fretta: con mia grande sorpresa, si mostrò in mezzo alla sterpaglia, una locanda. Non credetti ai miei occhi: una locanda situata così in profondità nel bosco, senza neanche una precedente indicazione che potesse fungere da preludio di quella struttura in legno. Nonostante le poche finestre, riuscivano comunque ad emanare un chiarore di un certo livello, suggerendomi che all’interno sicuramente le luci non mancavano. In alto, sopra l’avvizzita porta, un’insegna ondeggiò sotto il potere del vento e recitava: “La Locanda” ,con poco sotto una curiosa corona incisa, dando l’idea di un’antichità piuttosto evidente.
Mi rilassai immediatamente e l’idea del viaggio divenne più distesa. Mai in quel momento avrei potuto immaginare gli eventi che avrei vissuto quella notte. Ora a scrivere questa nota, tremo al solo pensiero delle possibili conseguenze che questa rivelazione o occultamento possa calare sul nostro tempo.
Nel momento stesso che mi accorsi dell’insegna, mi avvicinai alla maniglia e spinsi gentilmente la porta consunta. Rimasi sorpreso al cospetto di quel che vidi. All’interno, giusto dopo aver oltrepassato l’atrio invecchiato e colmo di dipinti, una serie di figure si intratteneva e beveva davanti al bancone. L’elemento strano in questa situazione, all’apparenza normale, era l’estrema e perentoria differenza tra i vari clienti.
Non riuscivo a cogliere il nesso che mi spiegasse la loro profonda diversità nel modo di vestire, di muoversi. Rimasi in piedi per qualche istante, per poi chiudere la porta dalla quale ero entrato: nessuno mi accolse, quindi feci largo alla mia presenza senza farmi molti problemi. Mi misi comodo, adagiato davanti al tavolone, in attesa che il commensale o magari ancor meglio il più considerato proprietario, mi accogliesse e con cordialità mi offrisse i suoi servizi. A disposizione ebbi parecchie monete da spendere durante il viaggio e in quella situazione un giaciglio caldo sarebbe stata la spesa meglio gestita in relazione al mio opulente borsello.
I minuti passarono, ma del commensale nemmeno l’ombra: tutti gli ospiti però, possedevano senza esclusione una pinta contenente – credo – una particolare declinazione di birra, il colore era analogo ma l’odore era decisamente più fruttato. Decisi quindi di aspettare, nonostante fossero passati svariati minuti, la mia tempra di osservatore prese il sopravvento: incominciai a scrutare le figure della locanda; nessuno si degnò di rivolgermi lo sguardo, non compresi esattamente la motivazione, ma non sembrava nemmeno che interagissero fra di loro. In tutto questo ebbi un sentore di fittizio, di macchinoso e di estremamente instabile in quella scena. Ogni singolo individuo era vestito in maniera dissimile, pensai che ci fosse una celebrazione in maschera, a tema di qualche spunto pagano: come nel momento in cui un nascituro giunge alla vita, si cerca di rievocare un determinato periodo storico, ma qui era ben diverso. Erano tutti troppo differenti: se potessi trovare una correlazione tra un marinaio con pipa e numerosi tatuaggi ad una figura che indossa un abito da antico romano, allora l’evento avrebbe avuto una sua spiegazione. Ma il problema fu proprio questo. A livello di appartenenza storica e di conoscenza degli usi e costumi non proprio recenti, riuscii a riconoscere dal guerriero azteco peruviano, un ragazzo cinese molto basso con una tunica rosso cremisi, un ometto che dalla carnagione olivastra intuii venisse dal mediterraneo, un arabo con il proprio turbante appoggiato vicino al alla sedia che mi rammentò nella sua apparenza un vago ricordo di Shahriyar e le sue deliziose storie. Questi elementi erano atipici: mi interrogai sul significato di quella condizione, della locanda, di quella festa… il solo atto di ragionare su una spiegazione per essere dentro ad una locanda, con un’importante senso di tensione e di inspiegabile non-appartenenza al luogo in sottofondo, mi fece presagire lo strambo. Sono un uomo pratico ma indiscutibilmente curioso, ho sempre apprezzato andare in fondo alle cose, fui risoluto quindi, nel chiedere a qualcuno che tipo di festa cadesse quel giorno o per quale occasione una tanta bolgia venisse esperita.
Nel momento stesso in cui mi levai dal bancone, il mio corpo reagì alla vista dei loro sguardi: protendevano adocchiamenti ambigui, tali da darmi una sensazione di indisposizione acuta; mi osservavano incessantemente, quasi fossi un incomodo, come se fossi non voluto. Protesi le mani avanti in segno di placida tranquillità: desideravo spiegarmi con calma, la mia presenza non era che una mera necessità e sicuramente non era mia obiettivo intromettermi in nessun evento idolatrico o semplicemente di natura privata. Raccontai la mia situazione con marcata agitazione: un fugace pensiero in quell’istante mi attraversò la mente; riscontrai che nonostante i suoni e armonie di festa fossero presenti, non vidi nemmeno due persone interagire tra di loro. Ad uno sguardo più attento vidi in realtà una ripetizione dei comportamenti: ipotizzai che fosse quello ad instaurare in me quelle sensazioni di fittizio e artificioso, seppur inconsciamente. In ogni caso srotolai la mia spiegazione fino alla sua conclusione, ma non ricevetti una risposta, né un’espressione che potesse validare la mia condizione. Tutti mi fissarono e tornarono a festeggiare, o meglio, a continuare le loro azioni specifiche e curiose. Mi lasciai cadere sullo sgabello di fronte al bancone. Un tetto mi copriva la testa, non mi importava di null’altro. Perdurai nell’osservare i loro comportamenti e confermai la strana osservazione che feci poc’anzi, stavano stereotipando e ripetendo atteggiamenti: dal muovere una sedia, dal guardare un dipinto sulla parte più remota della locanda, era impossibile non vederlo. Gli occhi stanchi raccontavano una ricorrenza sicuramente lunga ed estenuante ma constatai che nessuno riposava mai. Decisi di voltarmi e riflettere sui miei problemi, al mio lavoro, al mio viaggio. Farsi attanagliare la mente da questioni così poco pratiche e importanti non era un comportamento che si poteva definire attinente al mio temperamento, di questo invero mi stupii. Rimasi ancor più sorpreso, in realtà, nel verificare che davanti a me, adagiato al bancone di legno antico, un recipiente che solitamente viene impiegato per la birra, pieno ed immobile, comparì senza che io me ne accorgessi. Non vidi nessuno servirmi lo strano intruglio, ne sentii rumori o suoni di preparazione, né domande, tantomeno richiami di alcun tipo. Tutto ciò risultava molto enigmatico: uno strano presentimento simile alla paura crebbe dentro di me; tutti gli elementi esulavano completamente dalla mia esperienza generale, non trovai un nesso filo-logico a tutti quegli eventi bislacchi. Come Ambrose Bierce riusciva con grande maestria a catturare il bizzarro e lo storico in poche righe, io pensai di trovarmi in una delle sue opere, alle prese con sensazioni da me troppo distanti. Con questa ossessione del paganesimo mi immaginai il grande Dio Pan giocare nei miei sogni, il sentimento ansioso condizionò il mio pensiero. Dentro di me crebbe la necessità di isolarmi da quelle persone, non potendo passare la notte all’esterno durante la tormenta, intravidi le scale della locanda che si collegavano al piano superiore. Il mio solo ed unico desiderio fu quello di dormire il minimo indispensabile e di rimettermi in marcia il più velocemente possibile. Non volevo più rimuginare nei riguardi di quella situazione. Non fui nemmeno dell’umore per farmi una bevuta, di conseguenza non toccai la bevanda.
Stravaganti profumi ondeggiavano all’interno della locanda, una miscela molto acre mi diede repulsione per il luogo. Ero spazientito di quelle sensazioni: nessun servitore o commensale si presentò a me, anche dopo la strana comparsa della bevanda. Intuii che le abitudini viaggiassero sul non detto in quel modo. Mi convinsi a sfruttare i servigi di pernottamento, senza domandare disponibilità o prezzo; avrei pagato l’indomani e, se necessario, mi sarei scusato per l’arrogante presa di posizione. Le scale erano ripide, strette ed estremamente rumorose: mi congegnai nei confronti dell’architettura che una tale locanda potesse avere nel rispetto del piano superiore. La manutenzione si faceva desiderare, alcune travi riflettevano il proprio lustro antico e contadino, l’effetto era interessante per pura forma estetica, curiosa pensai: ma sul piano pratico molti elementi erano molto poco efficienti. Al primo piano vidi solo una porta, spalancata. Era una stanza da letto molto umile e timidamente illuminata; entrando notai una distanza dalle percezioni provenienti dal piano inferiore, i rumori di festa scomparirono e finalmente rimasi da solo con me stesso. L’aria stantia mi pervase le narici e successivamente la mia mente. Ero esausto, tutta quella situazione era troppo riluttante, come un sogno, come qualcosa di non vero. Le sensazioni anche in solitudine e confinate in una stanza erano troppo per me; mi tolsi gli indumenti e appoggiai il mio abito e i miei effetti personali sulla piccola e instabile scrivania adiacente ad un armadio grigio e sporco. Feci crollare le mie stanche membra sul letto, le mie spalle si rilassarono e quella fu, probabilmente la prima sensazione piacevole della giornata, e anche l’ultima. Ripensai al viaggio, alla famiglia Witness che mi aspettava in mattinata e a tutta questa surreale situazione: mi lasciai andare a pensieri e riflessioni, tutte quelle persone, quegli sguardi spenti e vitrei, quel bagliore di follia e isteria, sensazioni appena sulla superficie percepibili come su un filo nascosto, l orrore era indescrivibile.
Il mio flusso di coscienza fu interrotto da un singolare scricchiolio, poi qualcuno bussò con fatica e timidamente alla porta, un brivido mi assalì. Pensai fosse il proprietario, mi alzai ed andai rapidamente ad aprire la scricchiolante porta. In fronte a me, in piedi, una donna massimamente attraente, stranamente alta, riccia, con due occhi accessi come due fiamme roventi. Indossava abiti leggeri, una toga stringeva il suo sinuoso corpo come un mazzo di rose viene abbracciato da un passamano, sulle spalle un peplo la accarezzava dolcemente. Forse mai in vita mia vidi una tale semplicità nel vestire, abbinata ad una eleganza tanto sublime. I due occhi castani spalancarono in me porte all’oblio e i capelli corvini come la più pura notte cangiavano al riflesso del fioco lume di candela. Il suo viso comunicava gentilezza ma risultava in contrasto con il suo agire: pareva terrorizzata, la gamba tremava, così come le labbra. Dopo poco mi afferrò il braccio, con presa salda. Mi pietrificò lo sguardo ed indico con il suo fragile braccio, una caraffa posta vicino al letto. Osservai attentamente: dentro al recipiente, anche se ero lontano, mi accorsi che conteneva lo strano liquido servito al piano di sotto con una sorta di schiuma che borbottava silenziosamente. La donna fissò la caraffa con malsana repulsione, poi guardò me e sembrò stesse scrutando ogni angolo della mia essenza. Incominciò repentinamente a tremolare, come se fosse preda di terribili convulsioni, cadde a terra e continuò per pochi fugaci istanti. Con poca naturalezza, si fermò, si rialzò e, come se non mi avesse visto, né toccato, si voltò e tornò lentamente al piano inferiore, dove la festa stava continuando senza sosta. Rimasi immobile e per alcuni fugaci attimi, non capii nulla. Perché quella strana ragazza indicò, in completa frenesia, la caraffa? Tornai in me grazie alla vista della chiave incastrata nella serratura di cui il pomello tenevo ancora stretto fra le mani: almeno potevo chiudermi dentro e dormire senza strambe e grottesche sorprese. Decisi quindi di chiudere la porta e ruotare la chiave. Sprofondai in un sonno comatoso e rilassai ogni muscolo del mio corpo. In questo momento, ebbi l’esperienza che mi cambiò per sempre. Mi trovai in una riluttante e gelata stanza, le pareti grigie echeggiavano tristezza, la struttura era poco coerente, mi dava un senso di inquietudine, di spaesamento. Una fioca luce trovava il suo passaggio tramite una piccola crepa sul soffitto. Scrutai fuori e vidi un cielo color cremisi piangere lacrime di sangue al sommo cospetto di due lune che, con infinita gloria, torreggiavano nell’infinito. Rimasi stordito da quella visione: intravidi al di sotto di esse, delle costruzioni antiche e diroccate. Non ebbi la conoscenza necessaria a ricondurre la provenienza ad un determinato popolo o stilema artistico, tutto risultava fuori dalla mia completa cognizione. Adiacente, un lago maestoso nero come l’abisso si stagliò a perdita d’occhio. Scappai da quella visione incomprensibile mentre la testa mi batteva come un tamburo soverchiante. Chiusi gli occhi e li riaprii con terrore e lentezza. Il fascio di luce stava adesso illuminando una parte della struttura prima completamente oscurata: al centro, un trono spigoloso, grezzo, quasi monolitico: sopra una figura oscura, fuori dal raggio lucente, risiedeva nell’ombra più tenebrosa. Rimasi piantato a terra, immobile.
Lo sgomento mi assalì: attesi per un lasso di tempo che sembrò un’enormità. L’essere si alzò con una lentezza disarmante, il suo mantello mosso da onde di follia. Alla visione di quell’immagine, sigillai gli occhi per riflesso, quando li riaprii mi ritrovai seduto, a cavalcioni come un infante sull’orrifica entità. Ebbi l’impressione di completa sottomissione, terrore puro che crebbe ancor di più quando lo osservai.
Era illuminato dal fascio: le mie pupille entrarono in contatto con un viso scavato, molto più simile ad uno scheletro o ad un morto rispetto che ad un essere umano. I veli che lo coprivano erano gialli, consunti e logorati, davano l’impressione fossero di una tonalità marcatamente più accesa ai tempi e che ora non erano altro che vestigia del tempo che furono. Sul capo, una dorata corona sporca era impossibilitata a risplendere. Era una concezione devastante: non era solo quello che vedevo a pietrificarmi; una sensazione, un’aura emanava quella cosa… il tempo dava l’idea di essere bloccato, così come il mio sangue. Il demone con l’essenza da Re mi prese per la testa e mi avvicinò a lui. Mi annusò con un singolo respiro, lungo e profondo. La reazione fu inaspettata e sgradevole: mi scaraventò a terra incominciò a rigettare copiosamente dalla bocca uno strano liquido nero simile alla pece. Lentamente, mentre venivo travolto da quello spettacolo, un sipario calò sulla mia vista, come un’opera teatrale congeda i propri attori.
Mi destai in preda all’angoscia e ai brividi. Ero appoggiato ad un tronco: della locanda, neanche l’ombra.
Le mie ossessioni ormai combattono con la mia razionalità sul decidere se io sia effettivamente un pazzo o di aver vissuto un orrore talmente fuori dalla nostra consapevolezza, da avermi fatto scrutare oltre il velo della coscienza. Ora, mentre scrivo questa testimonianza, dopo mesi dall’accaduto, mi sento cambiato, diverso.
I miei sogni vengono tormentati da una folle città chiamata Carcosa: mentre due lune si sfidano in un mare rosso d’infinito, il mio sangue ribolle all’unisono con il lago che le riflette.
Ho avuto la necessità di trascrivere tutto questo, il peso non mi abbandona mai. Spero che qualcuno un giorno possa fare luce su tutto quello che esiste nell’ignoto, anche se dovesse costare molto caro.
Durante la veglia, durante i miei viaggi, un drappo giallo volteggia davanti a me e il tempo, in quei casi, sembra quasi rallentare.