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Non ho avuto una brutta infanzia, ma ho sempre pensato, sin dagli anni in cui frequentavo l’asilo, che ci fosse qualcosa di irreparabilmente rotto dentro di me.
Qualcosa che non si sentiva all’esterno, che non faceva rumore, ma che, eppure, si palesava benissimo.
O almeno per me era così.
Non mi sono mai sentita come gli altri, ho sempre pensato di essere un qualcosa di inferiore, di strano…di difettoso.
A volte penso di esserlo ancora oggi.
È come se quando mi avessero diagnosticato l’anoressia nervosa e il disturbo d’ansia, mi avessero finalmente detto : “ecco Bianca, questo è ciò che non va in te”. E io avessi risposto che lo sapevo già, solo non ne conoscevo il nome.
Da piccola vivevo un conflitto interiore che mi lacerava e che allo stesso tempo ricuciva le mie ferite.
Ricordo che quando a livello emotivo non riuscivo a gestirmi mi distaccavo da me stessa e sapevo esattamente dove andare e come fare per non sentire tutto il dolore che era lì lì per distruggermi.
Mi rifugiavo nella mia mente, la quale mi mostrava mondi paralleli, mondi in cui la mia realtà non c’era e non era neanche storpiata o reinventata. Semplicemente non c’era.
Spesso neanche io ,vista come personaggio, c’ero.
Immaginavo ad occhi aperti, mentre salivo le scale a scuola o mentre ero da sola a casa sdraiata sul divano del salotto, di essere una volta nel mondo di Achille e della guerra di Troia, una volta in quello di Harry Potter, una volta semplicemente in una realtà che non era la mia. Perché tutto era meglio della mia di realtà.
E quando “tornavo” alla realtà e mi toglievo le cuffiette dalle orecchie, tutto tornava doloroso come sempre.
Ho iniziato a pensare di voler morire all’età di tredici anni.
Ho iniziato a pensare di essere così tanto rotta da essere irreparabile e senza speranza.
Mi sentivo così tanto inutile che spesso anche il mio mondo immaginario, mio compagno fedele per anni, il mio metodo di difesa dal mondo preferito, non riusciva a salvarmi dall’idea allettante di buttarmi sotto un treno o di volare giù da un palazzo.
Mi ricordo che sorridevo quando ci pensavo.
Avevo trovato una via d’uscita che avrei potuto applicare se tutto fosse stato troppo.
Idolatravo Kurt Cobain, ascoltavo la sua musica, assorbivo la sua palese tristezza cronica, la mischiavo alla mia e speravo di trovare il coraggio di spararmi un colpo in testa anche io all’età di ventisette anni.
Questo pensiero ,paradossalmente, era ciò che mi faceva stare bene.
Ma non mi bastava…Kurt Cobain “ce l’aveva fatta”, io no.
Mi sentivo una fallita se non correvo almeno due ore dopo pranzo, se non sentivo il cuore che batteva all’impazzata nel petto che mi chiedeva disperatamente pietà.
Ero cattiva con me stessa. Volevo che smettesse di battere davvero a volte e ,molto spesso, mentre correvo con tutta la forza che avevo, ci speravo.
Ci speravo di schiattare così: senza gloria, senza niente di speciale, solo morta, finalmente.
Mi sentivo una fallita se non riuscivo a resistere a mangiarmi solo uno yogurt magro per pranzo.
E quando cedevo, ricordo le lunghe camminate piangendo, la faccia nel cesso con le dita in gola per provare a rimettere yogurt e succhi gastrici, la voglia di prendere una forbice e tagliarmi via la carne che avvolgeva le ossa.
Mi sentivo una fallita a scuola, una delusione continua.
Dall’essere la prima della classe all’essere quel fantasma ansioso e tremolante che a malapena parlava, che non sapeva più cosa volesse dire essere felici.
Ma neanche volevo essere felice: associavo la felicità ad un qualcosa di talmente effimero e veloce che non ne valeva la pena.
Ero abituata a stare male, a maltrattarmi e a farmi maltrattare e l’abitudine è abitudine.
Non so se mai riuscirò a fare pace con me stessa, se mai riuscirò a dire che i pezzi rotti dentro di me si sono ricongiunti, se mai riuscirò a trovare quella serenità in cui non spero più.
Non so se mai riuscirò a capire chi è Bianca senza la sua parte malata e acciaccata.
Ma me lo auguro.