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Ciao a tutti, mi presento, mi chiamo Farah, sono una sognatrice, o almeno così dicono tutti quelli che mi conoscono, la persone pensano e sono così convinte possa portare allegria anche solo calpestando la terra a ogni mio passo. Mi chiamo Farah, credo di avervelo già detto; fu mia madre a scegliere il mio nome, Farah, in arabo significa “allegria” “gioia”, il mio nome non fu premeditato durante la gravidanza di mia madre, ma fu inaspettato, apparve nei pensieri di mia mamma come un fulmine a ciel sereno, proprio nell’esatto momento in cui i miei genitori mi videro venire al mondo; insomma “Farah” era il nome perfetto per quella gioia immensa che provarono appena la luce del sole penetrò nei miei occhi facendo risaltare il marrone nocciola delle mie pupille.
Mia madre mi ripeteva costantemente “per questi dolci occhi amori scoppierebbero e guerre si fermerebbero”. Lei è sempre stata una donna presente nella mia vita, non mi abbandonò mai, era sempre lì a guardarmi crescere e affrontare ogni tappa della mia vita sempre e solo con un accogliente sorriso sulla faccia, ha sempre riservato una carezza, o qualche parola di conforto per rallegrarmi e farmi ridere. Mamma è sempre stata una costante nella mia vita, il mio porto sicuro, il mio faro, spero di poter diventare come lei un giorno, una donna forte che combatte e non si arrende mai. Mio papà invece era l’uomo più pacifico del mondo; al villaggio veniva chiamato “il gigante buono”, ed era proprio così; lui era come il pane, duro fuori ma estremamente tenero e morbido dentro.
Vivevamo in un piccolo villaggio vicino al mare, davvero molto piccolo, ma a me bastava vedere il mare. Quell’immensa pianura blu mi ha sempre trasmesso un forte sentimento di pace; poter passeggiare sulla spiaggia a piedi nudi, sentire la sabbia tra le mie dita e il profumo di salsedine; niente mi rendeva più felice del mare. Io e la mia famiglia andavamo spesso a vedere il tramonto, bastava solo una frase per farmi stampare un enorme sorriso sul viso, “andiamo a fare la terapia del mare”.
In questo piccolo villaggio avevo degli amici, anzi, i miei migliori amici; lì ho i miei ricordi più belli con loro. Quel villaggio vive ancora dentro di me insieme a tutte le persone che conobbi, come lo zio M., che in realtà non era mio zio ma il migliore amico di papà, mi conosce da sempre, mi strinse tra le sue braccia da quando inalai il mio primo respiro vitale. Ogni volta che io e la mamma passeggiavamo mano nella mano tra le vie della città, lì proprio dove lo zio M. aveva il suo chioschetto ambulante mi porgeva un pezzettino di knafeh, il mio dolce preferito, se chiudessi gli occhi e mi concentrassi potrei ancora assaporare il suo dolce sapore di mandorle e pistacchi; no non credo che potrei mai dimenticare un sapore così inebriante come i knafeh di zio M.
Nel mio villaggio c’era anche una bellissima scuola, non sempre ci andavo volentieri, preferivo abbuffarmi di knafeh e giocare con la mia bambola di pezza o con i miei amici nelle stradine polverose del quartiere. Ricordo ancora il primo giorno di scuola, ero terrorizzata, non avevo il coraggio di lasciare la manica dell’abaya di mamma per attraversare il grande portone dell’edificio; eppure con un grande sforzo ma anche con tanta curiosità di scoprire cosa ci fosse al di là, mi staccai, come una nave che salpa per il mare, da quella manica che è sempre stata il mio porto, abbandonai solo per qualche ora la mano della mia mamma. E qui, nella mia scuola, che ho conosciuto i miei amici più cari, Asif e Layla. Asif era una peste, un vero e proprio terremoto, faceva più rumore lui che una mandria di elefanti in corsa, la prima volta che lo vidi pensai che non saremo mai andati d’accordo, anche perché lo stesso giorno poche ore dopo mi tirò i capelli e io urlai di dolore; ed è lì che intervenne quella che ancora non sapevo sarebbe diventata la mia più cara amica, Layla. Come si è risolta questa faida? Vi stupirete scoprire che da quel momento in poi diventammo inseparabili, tutti e tre, amici per sempre.
Un giorno mi svegliai, andai a lavarmi i denti e la faccia, mi tolsi il pigiama e mi infilai i vestiti che mamma mi aveva preparato la sera prima sulla sedia della mia camera. In fretta scesi per fare colazione e uscire di casa per incontrarmi in strada con Layla e Asif per andare a scuola tutti insieme come sempre; ma quando arrivai in cucina vidi la mamma piangere, nascondendo il suo giovane viso nel petto di papà, che intanto la abbracciava; al vedermi arrivare mamma si ricompose subito e papà mi porse la sua grande mano dicendomi che quella mattina era arrivato un comunicato dicendo che la scuola verrà momentaneamente chiusa. Detto ciò come suo solito fare mi diede una carezza e con un tacito sorriso mi disse che non c’era nulla per la quale preoccuparmi; e in fine mi disse anche che saremmo partiti per un viaggio verso sud per una breve “vacanza”, “gita fuori porto” la chiamò, per poterci riposare e stare in pace tutti insieme. Insomma immaginate la felicità nei miei occhi, io che non aspettavo altro che le vacanze, sentire questa allettante notizia. Ero talmente tanto felice che non mi soffermai e non chiesi il perché mamma stesse piangendo; da un po’ di tempo capitava spesso ormai; papà mi diceva sempre che era normale, perché mamma ha un’anima così buona e pura che a volte vive le emozioni come se fosse una lente di ingrandimento e, a volte, queste emozioni non sono molto belle, perciò è facile che qualcuno possa contaminarla, per questo motivo piange per ripulire la sua anima, così mi rassicurava papà; e io, gli credevo.
Appresa la magnifica notizia dell’immediata vacanza mi diressi subito a casa di Layla e con lei, corremmo freneticamente a bussare al portone di Asif. Raccontai a loro quello che mi era stato detto, che sarei partita per una breve vacanza ma che sarei tornata tra qualche giorno per poter giocare, ridere e scherzare come abbiamo sempre fatto. Mi chiesero dove sarei andare a passare le vacanze ma l’unica cosa che sapevo è che ci saremo diretti a sud. E poi ci abbracciammo, li strinsi così forte quasi da volerli fondere con la mia pelle e poterli portare con me.
Partimmo il giorno successivo nel primo pomeriggio, caricando la nostra macchina con del cibo e vestiti, e ponemmo i nostri materassi legati con due corde sopra il tettuccio dell’auto. Ma una volta partiti, a causa della frenesia, mi dimenticai la mia bambola; pregai disperatamente papà di poter tornare a riprenderla, ma disse che saremmo stati fuori casa solo per qualche giorno e che avrei potuto resistere senza di essa; lei avrebbe aspettato pazientemente il mio ritorno. Più volte durante il tragitto chiesi per poter scoprire la nostra direzione, ma ad ogni mia domanda papà sorrideva e ripeteva pazientemente “Farah è una sorpresa”; la mamma, invece, da quanto apprese la notizia della chiusura della scuola si fece silenziosa, sembrava quasi come se un velo di tristezza si fosse posato sul suo viso, ma ricordai le parole di papà e non ci pensai più.
Il viaggio fu tortuoso, il sole era fortissimo creando un ambiente torrido e rovente. Dopo tre o quattro ore non ricordo, mi addormentai per un momento, arrivammo in questo campo recintato, non era una vera e propria città ma più un grande paese fatto di tende; mi svegliai di sobbalzo.
“Guarda Farah siamo arrivati alla città errante”, esultò mio padre,
era talmente tanto entusiasta che anche io mi sentii travolta dalla gioia. Abbassai il finestrino dell’auto e mi affaccia per inalare e far entrare un po’ di questa calda aria nei miei polmoni.
Sì “la città errante” strano nome vero? Cosi la chiamavano i miei genitori “la città errante”, ma non ho mai capito perché, non sapevo che significasse la parola “errante”.
La città errante era davvero grande, costellata da tende dai mille colori, blu, rosse, verdi, nere, addirittura alcune arancioni. Appena arrivati, varcammo le soglie della città in cerca della nostra sistemazione, scaricammo la nostra auto, e facemmo di quella tenda la nostra dimora, la nostra casa. Credo fu in quel esatto momento che capì che non è importante in che casa si sta, o in che città, ma con chi si sta; e questa tenda, seppur non così bella, era piana di amore, l’amore che mia mamma provava per me e mio padre, l’amore che mio padre provava per me e mia mamma, e ovviamente l’amore che provavo io per loro; e qui rividi tornare il sorriso di mia mamma, quel sorriso che conservo ancora nel mio cuore.
Nella città errante c’erano altre famiglie come la mia, alcune davvero numerose, e tantissimi altri bambini della mia stessa età e altri anche più piccoli. Il giorno stesso che arrivai alla tenda un gruppo di questi bambini mi accerchiò e incuriosito chiese chi fossi e da dove venissi, per poi chiedermi subito dopo, quasi come se fosse stata una domanda automatica, preimpostata, di giocare con loro. Giocammo per tutto il pomeriggio, fino al tramonto, che, tuttavia, non era bello come quello che ammiravo ogni sera nel mare nel mio villaggio.
Quando iniziammo a sentire i succulenti profumi che provenivano dalle tende adibite alla cucina, ci fiondammo, perché quello era il segnale che la cena veniva servita. Nella tenda non avevamo molti ingredienti da usare per cucinare, per lo più la maggior parte di questi erano stati portati da ogni famiglia e poi condivisi, ma anche se non avevamo tanti ingredienti da usare avevamo le spezie, che, come per magia, trasformavano tutti i cibi in piatti squisiti. Mangiammo tutti insieme, come una grandissima famiglia allargata, mi resi conto che si quella sarebbe stata la mia famiglia per i prossimi giorni; guardavo i loro volti, scrutavo i loro occhi per vedere cosa vi nascondevano all’interno; eppure, mi sembrava di conoscerli da ormai così tanto tempo, come se avessimo da sempre condiviso lo stesso sangue; sentivo che tutti insieme condividevamo qualcosa, ma non sapevo che cosa.
Conclusa la cena mamma e papà mi accompagnarono alla tenda mano per mano. Mi sdraiai sulla mia brandina, mi diedero un bacio sulla fronte, mi rimboccarono le coperte e si sdraiarono per qualche ora al mio fianco, abbracciandomi e sussurrandomi parole che sapevano di miele, anzi che sapevano di knafeh, quanto avrei voluto poterne mangiarne un pezzo.
“Buonanotte Farah, domani il sole illuminerà un altro meraviglioso giorno”, mi sussurro papà all’orecchio.
“E i tuoi occhi rispenderanno di luce”, aggiunse mamma
Ma la notte non passò; era la notte infinita.
La prima cosa che sentii furono le bombe e poi le urla.
Lo straziante rumore di quei gabbiani metallici mi spaventarono, mi svegliai con l’illusione che potesse essere solo un incubo; aprii i miei occhi che questa volta non vennero colpiti dai raggi del sole, ma quello che videro furono le fiamme, le fiamme che divampavano entrando nella nostra tenda, e producendo una fitta coltre di fumo; respirare era troppo difficile, l’ossigeno mancava e i miei polmoni si riempirono di una nube grigia velenosa; iniziai a tossire, talmente tanto forte che per un momento pensai che avrei potuto vomitare qualche organo del mio corpo.
Iniziai a urlare, sprecando quel poco ossigeno che ancora mi rimaneva; l’aria continuava a farsi pesante, anche gli occhi iniziavano a cedere, non vedevo più nulla oltre due palmi di distanza, e la tosse peggiorava ogni secondo di più. Chiamai i miei genitori che si erano addormentati affianco a me, iniziai a scuoterli e spingerli violentemente, ma non rispondevano, non rispondevano alle mie parole, alle mie urla, alle mie preghiere.
“Mamma svegliati ti prego” urlai,
lo urlai così forte che mi si spezzarono le corde vocali. Mi accasciai sui corpi pietrificati dei miei genitori e piansi lacrime salate, come se ci fosse stato un mare dietro ai miei occhi, lo stesso mare che pochi giorni fa guardavamo insieme mano nella mano; piansi e piansi ma tutta quelle gocce non bastarono per fermare le fiamme.
Improvvisamente, come una salvatrice arrivò una donna entrando nella tenda, che mi prese per mano,
“devi correre” mi continuava a ripetere,
ma io ero immobilizzata, pietrificata, come se tutti i muscoli del mio corpo non volessero più rispondere ai comandi del mio cervello; ma la donna mi sollevò, sposando i corpi senza vita di quelli che poche ore fa erano i miei genitori. Mi spinse a camminare e a quel punto le mie gambe iniziarono a muoversi automaticamente, non avevo più il controllo del mio corpo. Fuggimmo dalla tenda, che ormai non era altro che un rogo indomabile, ma quello che vidi lì fuori fu una scena indescrivibile, quello che vidi lì fuori fu l’inferno.
Le urla, quelle strazianti urla non potrei mai dimenticarle, urla che si sovrapponevano ad altre. Urla e pianti, persone che maledivano il cielo, altre che correvano in cerca di una via di fuga, altre con la faccia bruciata e altre ancora che non si muovevano più. Prometeo donò all’uomo il fuoco per potersi riscaldare, poter cuocere il cibo e per proteggersi; mai nessun avrebbe pensato che sarebbe potuto essere usato come arma di morte. Il fuoco, quell’elemento primordiale e indispensabile stava bruciando le nostre tende, le nostre “case”, le mie persone, la mia famiglia e la mia anima.
Una volta uscita dalla tenda, insieme alla donna misteriosa, non vidi nessun bambino giocare, quello che ne rimaneva di loro erano pochi corpi, neri come il petrolio, carbonizzati dalle fiamme; quegli stessi bambini che ho visto ridere e giocare poche ore fa, gli stessi bambini che producevano dalle loro bocche sospiri di gioia e vita, ma che ora non più, ora da quei corpicini rannicchiati proveniva un terribile tanfo di morte e sofferenza.
E l’odore era nauseabondo, avete mai sentito che odore fa la carne umana carbonizzata? No? Neanche io fino a quel momento, era un odore soffocante, un odore che aveva il sapore delle grida, della disperazione, del vuoto, un odore che mi impregnava la pelle come un terribile unguento oleoso irremovibile. Non augurerei a nessun essere umano sulla faccia della terra di poter sentire quel fetore; quel fetore che aveva il sapore di donne carbonizzate, uomini trucidati e bambini decapitati.
La notte non finiva, ma d'altronde, la notte non sarebbe mai finirà per me
Quello che vidi fu una scena apocalittica. Le bombe continuavano a precipitare dal cielo come fossero coriandoli in questo festival della morte; le tende venivano violentate dalle imponenti fiamme e i corpi di famiglie e bambini venivano sfigurati dal male assoluto.
Non vi era nessuna via di scampo, non si poteva uscire, ogni varco era bloccato da una muraglia di fuoco che prepotentemente serrava ogni passaggio, e come per magia mi ritrovai sola tra le fiamme e i corpi inceneriti.
La misteriosa donna svanì, dissolta nell’aria come polvere e un vuoto abissale mi risucchiò, quello che vidi fu un violento rosso, un caldo rosso, un rosso sanguigno, un rosso fiamme di sangue.
Pensai, perché ci fanno del male?
Pensai, che colpa abbiamo? E quei bambini?
Pensai, perché noi?
Pensai, perché l’amore non può salvarci?
Pensai, mamma, papà ora torneremo a guardare il mare tutti insieme come una volta?
Chiusi i miei occhi marroni, quelli che avrebbero potuto far scoppiare amori e fermato le guerre, eppure qui, nulla si fermava; la malvagità umana non ha pietà per nessuno, nemmeno per una bambina.
Ciao a tutti, mi chiamo Farah, questa è la storia di come io e la mia famiglia siamo morti nella città errante.