Sophie Mercier

scritto da Nigel Mansell
Scritto 4 anni fa • Pubblicato 3 anni fa • Revisionato 3 anni fa
0 0 0

Autore del testo

Immagine di Nigel Mansell
Autore del testo Nigel Mansell
Immagine di Nigel Mansell
Ovvero la mia Aosta, sul finire degli anni Settanta.
- Nota dell'autore Nigel Mansell

Testo: Sophie Mercier
di Nigel Mansell

Capitolo 1 – Regione Brenlo


A me piace il mare. Ma quasi per caso, forse per un capriccio del destino, sono nato ad Aosta. Così, nonostante il mio cognome sardo e la mia ostinata testardaggine nel definirmi tale, per tutta la mia infanzia sono stato un valdostano e forse, ancora un po’, continuo a esserlo.

Passai i miei primi anni di vita a Busseyaz sulle prime colline di Aosta. Stavamo in una casa in affitto, in una zona ai tempi essenzialmente rurale. La mia famiglia diventò intima con gli anziani proprietari di una piccola fattoria lì a fianco.
Appena potevo scappavo nella loro stalla. Miè, assicurate le code delle mucche al filo di ferro che scorreva in alto, si legava alla vita lo sgabello dall’unica gamba e mungeva le loro grandi mammelle rosa. Lui si rifiutava di usare le mungitrici, diceva che le bestie soffrivano e avrebbero fatto meno latte.
Le mucche, placide, bellissime nel loro manto marrone macchiato di bianco, come solo in Valle d’Aosta le puoi vedere, godevano del sollievo che dava loro essere liberate da tutto quel latte. Quando ci entravo di inverno, mi accoglieva il tepore che producevano quei placidi bovini. Da allora il letame non è più stato una puzza per me, ma un profumo.
D’estate mangiavamo le mele direttamente dagli alberi. A fine stagione, con i nipoti della coppia, io e le mie sorelle eravamo invitati a schiacciare il fieno, lanciandoci dalla porta dal fienile: con i nostri salti e il nostro peso, dovevano compattarlo per immagazzinarne il più possibile per l’imminente lungo inverno valdostano. Dopo alcune ore di salti con i nipoti di Miè, che erano più o meno della nostra età, e parecchie bruciature che il contatto del fieno produceva sulle gambe, riuscivamo ad abbassarlo di alcuni metri. Il fienile era di nuovo pronto a riceverne altro.
Cambiammo poi due o tre case, ma quasi tutti i fine settimana tornavamo lì, loro erano diventati i miei nonni valdostani. La moglie di Miè era stata una maestra, ed era abbastanza severa con me quando constatava che le barre che avevo tracciato nel quaderno a righe non erano così ordinate. Non capiva poi che per me, il francese che mi insegnavano a scuola, non tornava così naturale come a loro, che in famiglia parlavano il Patuà.

I miei ricordi diretti partono da quando ci siamo trasferiti nella casa di Regione Brenlo, sopra Saint-Martin de Corléans, all’estremo ovest di Aosta, ormai quasi al limitare del comune di Sarre. Era un quartiere nato d’improvviso, come un fungo nella notte, per dare un tetto a tutti gli immigrati che avevano invaso la Valle negli anni Sessanta. Le case che lo caratterizzavano non erano certo i tanto vituperati condomini popolari di Viale Europa, ma erano comunque una manciata di palazzine, tirate su frettolosamente, badando essenzialmente a non spendere troppo.
Si erano sistemate lassù soprattutto famiglie venete, ma comunque c’era pure qualche valdostano. Molti capifamiglia lavoravano alla Cogne, che ai tempi, nera e fumosa, si allargava immensa intorno alla Dora e come un’immonda macchia di olio pareva volesse fagocitare anche Aosta. La Cogne era una matrigna crudele, che da una parte aveva assicurato lo stipendio ai tanti immigrati, ma poi, molti di quelli che ci erano riusciti ad andare in pensione, si trovavano a lottare con la silicosi e l’alcolismo, l’ulteriore conto che esponeva un lavoro pesante e degradante. C’era anche qualche sardo, ma erano soprattutto uomini appartenenti alle forze dell’ordine. Noi non facevamo eccezione: mio padre era infatti Carabiniere. Sposata mia mamma sul Lago Maggiore, per via delle ferree leggi dell’Arma, era stato costretto a lasciare la regione. Aveva scelto la più vicina, che ricordava perché l’aveva conosciuta quando ce lo avevano mandato in servizio provvisorio per l’inaugurazione del traforo del Monte Bianco.
Lassù, proprio dove la Valle si slargava nella sua massima estensione, vivevo la mia fanciullezza avvolto in una sorta di rassicurante nebbia, come l’Indiano di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. Ne uscii solo, e con dolore, nell’adolescenza, quando ci trasferimmo a Gravellona Toce.
Fu quello un trattamento d’urto, un inatteso elettroshock, che mi strappò dalla mia ignara e placida infanzia. Il resto lo fece la nostalgia della Valle: fortissima.
Mai avrei pensato potesse essere così dolorosa e malinconica. Ma c’era anche la fatica ad ambientarsi nelle nuove e più impegnative scuole medie e su tutto le prime tempeste della pubertà che mi dettero più dubbi e conflitti, che certezze e serenità. Mi ritrovai così come ignudo, sputato fuori dal rassicurante baccello della fanciullezza, che lentamente e tenacemente mi ero costruito nei primi anni di vita valdostani.
Da bimbo emergevo dalla nebbia solo quando ero in famiglia, con papà e mamma e le mie due sorelle, loro erano il mio fortino. Io ascoltavo e capivo tutto quello che dicevano i miei, anche se loro non sembravano accorgersene e infatti, della mia giovinezza lassù ricordo ancora moltissimo: i fatti, i visi, le persone, le strade e i luoghi che frequentavo sono ancora vivi in me, quasi fosse ieri che me ne sono andato.
Il mio è stato un apprendere quasi autistico, molto nozionistico e dettagliato, che mi portò a sacrificare la socialità e le esperienze formative che avrei dovuto imparare dal rapporto con i miei coetanei.
Quelli che serbo sono ricordi in bianco e nero, di palazzoni, forse in origine bianchi ma ai tempi grigi per la fuliggine della Cogne, di piccole auto squadrate e rumorose, di vite semplici, di tanta neve e grandi silenzi, che non potevano essere interrotti dalla televisione allora così poco invasiva o da internet che neanche ci si poteva immaginare cosa potesse essere.
Fuori dalla mia famiglia, dalla mia rassicurante quotidianità e lontano dalla mia casa, era come se ergessi una barriera difensiva che mi proteggeva da tutto e tutti. Al di là c’erano gli adulti che mi apparivano minacciosi e incomprensibili. Crudeli e lontani, pareva tenessero in particolare modo a creare quel solco tra le generazioni che negli anni Settanta era in effetti la normalità. I grandi erano i rabbiosi contadini valdostani che ti tagliavano il pallone non appena entrava nei loro campi, o che ti inseguivano urlando se pestavi loro l’erba dei prati quando volevi andarci a giocare. In estate poi, quando si cercava di rubare loro le ciliegie dagli alberi, qualcuno raccontava che imbracciassero il fucile. A volte invece gli adulti erano i colleghi di mio padre, omoni meridionali in divisa, che con due dita ti torcevamo le guance a mo’ di saluto. Ma erano anche le maestre... Nei primi anni di scuola fu una severa valdostana, che una volta mi diede anche uno scappellotto, che mi insegnò a scrivere, e mandare a memoria le tabelline. Poi ci furono solo giovani ragazze che continuarono ad alternarsi. Arrivavano da fuori, sulle onde della contestazione, da Torino o Milano. Parlavano di metodi sperimentali, di proletariato, di comunismo, di libertà negata nei paesi del Mediterraneo; ai tempi c’erano ancora molte dittature, Grecia, Spagna, Portogallo… Così dopo l’esame di seconda elementare, a scuola finimmo per non fare più nulla.
Le giovani maestre dicevano che fosse appunto il nuovo metodo sperimentale. Io ricordo solo di lunghi intervalli nel cortile della scuola che duravano delle ore e di grandi corse nei prati intorno alla Dora.
Iniziò e finì così la mia carriera scolastica. Da lì in poi venni sempre destinato alle sezioni peggiori, quelle dove andavano i figli degli immigrati e degli operai. Prima maestre inesperte e poco interessate all’insegnamento, poi in Piemonte, professori sfiduciati e poco motivati, sempre molto sindacalizzati, che alternavano lunghe mutue a scioperi per me incomprensibili, che se andava bene ci venivano assegnati per Natale. Una confusione didattica che mi ha inevitabilmente portato a far parte di quella massa grigia e ordinaria delle persone qualunque. Ho cercato poi, in autonomia e da autodidatta, di farmi una cultura da adulto.
Le mie sorelle invece furono più fortunate, capitarono, penso casualmente, nelle sezioni migliori, con insegnanti più affidabili e stabili: si vede che doveva andare così.
Altre volte invece l’adulto era Ricci, il gestore romano della bottega a fianco del Bar Tripoli. Mia madre continuava a metterci in guardia sul fatto che rubasse sul resto. Noi non ci badavamo, avevamo già troppa soggezione a leggere quello che lei ci aveva scritto sul biglietto e a ripeterlo a quell’uomo che si sporgeva dal bancone. Dopo la nostra stentata lettura della lista della spesa, il più delle volte il Ricci, per divertimento, cattiveria, o forse proprio perché non aveva capito, poneva una contro domanda. A quel quesito non sapevamo mai dare una risposta, così restavamo muti: ma perché mia mamma non scriveva cose più precise e inattaccabili?
Poi canzonava mia sorella Chiara chiamandola Mariolì, perché secondo lui era identica a mio padre.
Chissà cosa aveva spinto quell’attempato e sovrappeso romano ad aprire un negozio lassù, così lontano da casa sua. Quello che era certo, era che aveva una bellissima 500 giardinetta che posteggiava davanti al suo negozio e io ogni volta ci lasciavo gli occhi.
./..
Sophie Mercier testo di Nigel Mansell
3

Suggeriti da Nigel Mansell


Alcuni articoli dal suo scaffale
Vai allo scaffale di Nigel Mansell