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Genuflesso sul terreno che altri hanno già calpestato,
mi piego fino a sentire la polvere entrare nei polmoni,
fino a sentire il gusto di terra nella bocca secca.
A miglia da casa non esiste rifugio,
solo l’eco dei passi che non ho più forza di seguire.
Colate di colori si scaricano su di me,
ma non hanno nulla di vivo:
sono tinte acide, pigmenti velenosi
che s’incrostano sulla pelle,
che scolpiscono il corpo come un graffio permanente.
Ogni segno è un’accusa,
ogni strato di vernice è un marchio di condanna
che pesa più della carne stessa.
Io porto sul corpo
la colpa delle mie scelte,
sulla vita
il rancore di chi m’ha tradito,
sulle persone
il veleno che non smette di ricadermi addosso.
E non smette, no, non smette mai:
continua a imbruttirsi,
a torcersi,
a diventare fango davanti al diavolo
o davanti a chiunque si faccia sua maschera.
Perché il diavolo non ha corna né fiamme:
ha i tratti puri di una donna bellissima,
capace di schiacciarti con un solo sguardo,
o il corpo agile di un uomo felino,
che si avvicina silenzioso
solo per azzannare il punto più fragile.
E intanto ridono,
e intanto danzano come farfalle
sopra il mio respiro ansimante,
cercando solo quel brivido nello stomaco,
quel momento in cui smetti di resistere
e ti lasci cadere.
Ma le farfalle nello stomaco
non sono che un inganno,
una sensazione fragile di purezza umana
che dura quanto un battito,
quanto un attimo di illusione.
Subito dopo arrivano le mani,
arriva il veleno,
arriva l’insetticida che ti brucia dentro.
E le persone, sì, le persone,
sanno solo fingere carezze
per poi ridere della tua rovina.
Così resto qui, genuflesso,
con la pelle sporca e le ossa cave,
a invocare un’espiazione che non arriva,
a chiedere redenzione a chi
non vuole altro che vedermi sanguinare.
Sono le persone.
Loro che si avvicinano come farfalle,
ma brillano solo per avvelenare.
Loro che ti sfiorano come se amassero,
ma ti lasciano addosso la scia tossica.
Loro che ridono mentre muori piano,
perché in fondo non sono altro
che insetticida travestito da umanità.