I coccodrilli bianchi

scritto da Il Cinabro
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fatti e riferimenti, seppur abbiano una base storica, sono frutto di fantasia. Play list in fondo.
- Nota dell'autore Il Cinabro

Testo: I coccodrilli bianchi
di Il Cinabro

E quando noi verremo su
Perché la fogna scoppierà
Insieme a chi non ne può più
Daremo un?senso?alla città

Ritorneremo prima?o poi
Mostruosamente vostri

Coccodrilli bianchi, Radius

 

I

Stazione Centrale di Milano.

     L’aria d’inizio settembre è ansiosa ed isterica, sembra quasi aver voglia di ributtarci nella solita triade lavorare riposo lavorare. Sono giorni in bianco e nero, potresti consumare la vita a sprazzi e brandelli privi di forma e colore. I pensieri – ed i sogni forse - sono ancora incatenati al vento caldo e soffocante, immobile. Tutt’intorno, invece, tra binari ed accessi sbarrati, si mescolano dialetti lontanissimi e incomprensibili, venditori di Bibbie nordafricane e indefessi predicatori di Geova, bodyguard iper tatuati e ladri di monetine. La solita fauna delle stazioni, ciao ciao con la manina e sguardi lontani, imprendibili, sfuggenti.

     Un trillo nella tasca, il cellulare.

     Apro whattsapp: alle 11 ti fai trovare sotto la scalinata che vengo a prenderti? A dopo. Francesca. Emoticon sorridenti.

     Vabbè, attenderò.

E’ tanto che manco da Milano, ma la prima impressione è che sia diventata ancor più nevrotica e ansiogena, telecamere ovunque e frotte agghindate in maniera pressoché identica, i tatuaggi vichinghi sulle braccia di aspiranti avvocati e carabinieri, tutti indaffarati su Instagram o ad ascoltare messaggi vocali da diciotto minuti. Completano il quadro nauseanti odori di pizzette riscaldate, gas di scarico e lattuga marcia. Di certo – ahimè - sono trascorsi esattamente 30 anni da quel 10 settembre del secolo scorso. Un’eternità. Oppure un attimo, un soffio che mi ha trascinato fin qui, nuovamente, sugli stessi passi. Ma io cosa sono diventato nel frattempo? Accarezzato dai lembi di una maturità mai ricercata compiutamente, figlio di una fragilità e timidezza che mi pervadono e scavano nel profondo. Guardo l’orologio di nuovo, di Francesca nessuna traccia, la puntualità non sarà mai il suo forte.

(Appena sceso dal treno, Milano aveva respinto ogni mio movimento o interazione: sembrava uscito fuori da una cappa soffocante, il cielo era elettrico e pareva una scarica pronta a deflagrare in un istante, i corpi si contorcevano come un uragano all’orizzonte. Avevo la kefiah al collo, il cappuccio tirato su, i Nirvana nel walkman e gli occhialini con le lenti rotonde e fumè alla Lennon – Lenin. Soprattutto, avevo 17 gli anni. Il mondo sembrava intenso come i vortici alla base di un pilone piantato nell’oceano, fatto di ritmi techno grunge e dance hall di fuoco, assetti planetari e psicosociali da ricomporre e – perché no - ridisegnare. La plasticosa Milan del ’94 era la capitale di Silvio Berlusconi, eletto dal Signore a guidare il nostro Bel  Paesello dal maggio di quell’anno. Per noi terroni in trasferta al Nord c’erano i locali e le birrerie dei Navigli, i negozi di dischi alla Fiera di Senigallia, i centri sociali, la musica punk rock hardcore, and last but not least, il Leoncavallo. Il Leonka col kappa, si, avete capito bene: lo spettro che popolava gli incubi notturni del sergente Formentini e della famiglia Cabassi, del ministro degli interni Maroni e della giunta a trazione leghista di Palazzo Marino. Il Leoncavallo era già stato sgomberato dalla sua sede storica del Casoretto, in un’alba di ferragosto dell’89, fu raso al suolo con ruspe e cariche esplosive che piovevano sul tetto: nei giorni seguenti arrivarono companeros da tutta Italia per ricostruirlo con la forza dei sogni e delle mani, e diventò leggenda. Il ’94 si era aperto con un nuovo sgombero, ed era stata rioccupata da un paio di giorni una nuova sede in via Watteau, da un’altra parte della città, ma con la stessa voglia di esistere e urlare. Ormai era il simbolo di chiunque avesse voluto alzare la testa sotto la coltre di reclame e quiz a premi che indicavano la nuova strada del consumo. E del piacere. Il 10 Settembre era stata convocata in Porta Venezia una manifestazione nazionale, e lo sentivi nell’aria che saremmo stati tanti, un continuo tam tam di telefonate, lettere, assemblee. I giornali preconizzarono la calata dei barbari sul Duomo, ed il solito contorno di vetrine abbassate e isolamento ci avrebbe atteso al varco.

Si, ci sarebbe stato casino. Ma era inevitabile, come l’odore intenso dell’estate che terminava.)

     Dopo una mezz’ora abbondante di attesa, Francesca si degna di mandarmi un altro messaggio. Sto arrivando, dammi un minuto e tra poco parcheggio. Dove sei ? In Centrale da un’ora, cavolo, spicciati. Altrimenti i passanti mi prendono per un pusher fuori tempo massimo. E poi – a pensarci bene - io non la rivedo dai maledetti giorni di Genova del 2001.

     Ed invece eccola, dopo dieci minuti, sembra la stessa di sempre, uscita da un film di David Lynch o di Cronenberg, sigaretta in bocca e caviglie sottili , accompagnata da una scia di borotalco che non lascia indifferenti neanche i senegalesi, intenti nei loro traffici sotto le pensiline di Piazza D’Aosta. Tutto è sospeso come per magia, rivedersi è un’emozione lunghissima, vorace, intensa.

-       Ho la macchina qui di fronte, c’è sempre traffico in questa città di morti, non è cambiato granchè come vedi, anzi, peggiora – Francesca sorride, distratta, contenta.

C’incamminiamo, come fosse passato un attimo da quel 10 Settembre. Ed i sogni che mi laceravano sono rimasti giovani, ad un palmo di distanza dalla felicità.

II

     Francesca abita in via Padova, al Casoretto, in un piccolo appartamento di sessanta-settanta metri quadri con due minuscoli balconi, in un cortile interno grigio e untuoso come il cielo che lo sovrasta. Zona popolare e poca gente in giro, buste della spesa lasciate negli ascensori, le scritte nell’androne tuonano Ivana ti amo - con un sesso stilizzato di contorno - e Zeus boia ti vede, i maghrebini schiamazzano nei retrobottega, reggaeton e Malavita salgono fin dentro il salone. A prima vista, varcata la soglia di casa, ho avuto l’impressione di perdermi in un labirinto di ricordi. Da sola – single? - ma con quattro gatti chiazzati di bianco e nero, sonnolenti e arruffoni. Le pareti sono impregnate di fumo, le luci al neon rimbalzano un gioco di ombre tra le serrande abbassate. Una vita fatta di sigarette e portaceneri sporchi, nottate puntellate d’ansia e rimorsi, sassofoni solitari in fondo alla strada.

-           Era dei tuoi questa? – e indico una collezione di libri impolverati su di uno scaffale.

-           La casa?

-           No, i libri.

-           Ah, si – ride divertita – sono entrambi dei miei genitori.

-          Buon per te – annuisco facendo un gesto di approvazione.

-          Mica tanto, sono ancora la mantenuta di famiglia – si tocca le labbra con un gesto istintivo, quasi impercettibile – però bollette e spese varie a mio carico.

-          Vabbè, buon per te, lavorare fa sempre rima con starne alla larga– mi alzo lentamente e prendo Le Fleurs du mal, edizione del ’39, Editore Boulevard Saint-Germain. Roba da intenditori, con addosso l’odore inconfondibile della carta ingiallita, e Charles Baudelaire, un gigante visionario e alchemico, i suoi versi sapevano ricercare l’alba nell’imbrunire, dipanando la realtà nelle viscere delle allucinazioni. L’edizione è dello stesso anno dello scoppio del secondo conflitto mondiale, cartonata, coi fili della rilegatura ormai logori ed in vista. Un gioiello, null’altro da aggiungere.

-          E’ di mia mamma sai, la comprò a Parigi da giovane, quando era fidanzata con papà. A Rue de la Huchette se non ricordo male, su di un bancone lungo la Senna. Altri tempi, ora ti spennerebbero per una cosa del genere.

-          Te lo ruberei volentieri, lo sai?   

-          Ma smettila, pensa piuttosto a darmi il tuo rullino, che voglio farci il libro di cui ti ho accennato per telefono.  

(Io e Francesca ci eravamo conosciuti esattamente 30 anni fa, alla manifestazione nazionale indetta dal Centro Sociale Leoncavallo a Milano. Casualmente in un bar, mentre un cameriere ci dava del limoni per resistere ai lacrimogeni che ci piovevano in faccia. Aveva un caschetto biondo con la frangia davanti alla Caterina Caselli, una maglietta nera sdrucita con  l’immagine di Bela Lugosi’s dead, il trucco nero pesante e gli anfibi scoloriti. Io non ero mai stato a Milano, avevo perso tutti gli amici tra una carica e l’altra in Piazza Donegani. Indossavo una camicia jeans da vero buzzurro, i capelli lunghi bagnati dal sole estivo. Magro da far schifo, alto da paura, una macchinetta fotografica a tracolla: dall’esterno chiunque avrebbe detto ma da dove cavolo sono usciti ‘sti due insieme?)

-          Te l’ho detto che sei rimasta identica?

-          Non ti sembra di esagerare? Son passati un botto di anni – Francesca arrossisce.

-          Affatto. Mi sembri ancora una ragazzina. Hai gli occhi pieni di sogni, si vede.

-          Figurati, non dir cavolate che poi ci credo – ha una smorfia lieve e leggera, mi viene in mente  Have you heard di John Mayall, un pezzo incredibile, lo suonavo con una Fender di terza mano in garage, a casa dei miei. 

-          Guardati, hai lo stesso modo di parlare e muoverti – mi alzo e chiudo la finestra, una folata di vento fa vibrare un abatjour arancione lì a fianco.

-          Invece tutto è completamente diverso da allora, anche io.

-          Dici?

-          Credo proprio di sì – e annuisce col mento.

-          Perché vuoi fare un libro sul 10 settembre con le mie foto? – intanto sfoglio un'altra chicca dalla libreria, La chute di Camus, edizione del ’56, Gallimard, titolo con la scritta rossa sbiadita su copertina bianca.  

-          Le motivazioni di quel giorno sono ancora attuali, prendere la parola, col corpo, non te lo ricordi cosa scrivevamo? Voglia di gridare. Oggi cosa c’è in giro? Voglia di stare davanti al computer, di chattare? Eravamo vivi, almeno.

-          Stai parecchio acida eh – la battuta sulla telefonite dilagante non è male a pensarci bene - le foto che ho conservato restituiscono un passaggio, la fine del secolo che accelera. Il modo di stare in piazza, lo scontro, sono completamente mutati, finanche il modo di parlare, le analisi, i riferimenti, noi uscivamo dal ghetto, erano grida soffocate, impazzite. Cercavamo una cassa di risonanza.

-          Si, può essere che sia stato un passaggio obbligato verso Genova, dove ci attendeva al varco la fine dei sogni, a me quel giorno è rimasto dentro - Francesca prende una sigaretta, si siede sul letto, le gambe incrociate – ci siamo conosciuti lì, te lo sei dimenticato?

-          Affatto, tu non trovi che ci fosse dell’erotismo in quei corpi? Ventimila giovani in giro, un settembre caldissimo, Porta Venezia stracolma di rabbia, davanti a tutti le mamme del Leo, ed un divieto che andava rotto, per esistere, e fu scavalcato con forza e determinazione.

-          La violenza, però, mi ha sempre lasciato indifferente, lontana, distante.

-          Si, ma ci trascinarono per i capelli in quell’imbuto, tutte le strade sbarrate per arrivare in piazza, un atteggiamento prepotente e prevaricatorio.

-          Oggi quale divieto bisognerebbe infrangere? Nessuno sente la necessità di esistere veramente. C’è posto per tutti, e così sembra, ma non è affatto vero. – ci versiamo due dita d’acqua in dei bicchiere di vetro.

-          Bravo – sgrana due occhi meravigliosi verso il centro della sala - un libro  fotografico restituisce un’epoca, una storia, e lì ci siamo tutti, non trovi? Possiamo catturare il nostro passato solo così. Ma non possiamo riviverlo, gli sbagli non si possono cambiare, ma solo ripresentarsi - Francesca prende un vinile di ancora vent’anni prima dei nostri deliri, Bob Marley&The Wailers, Revolution. Aspetta che la puntina faccia il suo dovere, sfiorando il cuore con un leggero fruscio, poi si volta improvvisamente, e fa una smorfia in cerca di una via di uscita. Fruga nelle tasche, un pezzo di fumo arrotolato in una pallina di plastica. Prende l’accendino, scarta e prepara un joint con calma, rilassata, lucida: ha la bellezza innocente di lauree prese con centodieci e lode alla Bocconi e poi buttate nel cesso, lavoretti in nero in negozi che durano sei mesi, fine settimana in treno a Parigi per fare murales e sporcarsi le mani di colori a vernice.

-          Te l’ho portato il rullino, ce l’ho nello zaino.

-          Guarda che io non sopporto le operazioni nostalgia o il solito e smielato quanto eravamo ribelli. Mica sono una poser.

-          E allora?

-          E’ un monito, avevamo sangue nelle vene e voglia di batterci per qualcosa.  

-          Ogni epoca ha avuto momenti di conflitto, non credi? – mi viene in mente il profetico Fèlix Guattari di L’Antiedipo, Capitalismo e schizofrenia, il desiderio mette in moto la storia, e l’inconscio non diventa folle casualmente.

-          C’era qualcosa di profetico, gli spazi sociali, una versione più rude e politically delle TAZ profetizzate da Hakim Bey. Oggi è preponderante lo spazio virtuale, stare dietro ad un computer senza scegliere nulla. Il potere ha occhio, si prende le nostre cose e le svuota di significato, e le utilizza spingendoci verso uno sfrenato individualismo che non ha freni – Francesca ha ora un tono di voce leggermente più basso e caldo del solito.

-          Si, hai ragione, può avere un senso far parlare le foto di quel giorno. Avranno il sapore della vita, del respiro affannato, delle corse avanti e indietro tra le macchine rovesciate – tiro fuori i negativi di quel giorno da una bustina stropicciata, fuori c’è un sole ancora vivo, non si sente più nessuno, sembriamo gli unici in vita per chilometri e chilometri.  

     La canna è pronta finalmente, l’accende, aspira forte, e me la passa. Un pakistano di tutto rispetto, niente da dire, ed i suoi zigomi sono già partiti lontani e quieti in un altro mondo. Arrivo, sarò lì tra pochissimo, sulle tue labbra.  

 

III

 

     La storia ha mai suggerito saggezza all’umanità ? Continueremo a sbagliare, è un banco che vince sempre, non potrai tornare indietro e coprire sulla sabbia le orme dei passi. Io vorrei solo fermarlo quel bastardo vincitore. E rinnegare davanti a lui gli orologi, lo scorrere irrequieto di ogni divenire, e mostrargli quanto lui sia il vero demone dei nostri sonni.  

   E poi ci vorrebbe la tromba di Chet Baker ora, il suono indimenticabile di Lament. Oppure la dolcezza cosmica e ginecocratica di Pharoah Sanders, The Creator has a master plan.

     Quando ci siamo conosciuti - io e Francesca - il nostro mondo aveva ancora addosso le ceneri dei furiosi anni settanta e ottanta, un’eco che ci permeava dentro lo stomaco, un antico paradiso o Eden perduto, il ricordo di un’età dell’oro svanita a cui bisognava rendere omaggio e riverenza. Senz’appello, vivevamo giorni di merda: gli anni in cui Craxi stava in esilio e il Biscione troneggiava al suo posto, col contorno di ex post fascisti e leghisti a dargli man forte. Un incubo.  

    Non erano certo mancati gli orrori bestiali, sia chiaro, alla fine di quel precedente ciclo mitico: morti, sangue, pere, impazzimenti vari, infami che facevano sparare ad altri infami, e che avevano generato il peggiore degli orizzonti: il cinismo tramutava molti dei nostri in brutali carnefici. Era indecente la corsa, giorno dopo giorno, alla corte del Berlusconi pigliatutto, gli ex-sessantottini ed ex-settantasettini in fila per spillare due spicci e apparizioni ai talk-show. A rileggerla con gli occhi di oggi è stata una pagina veramente indecorosa, come buttarsi nel cesso e tirare lo sciacquone.

    Alla fine siam sempre lì, su di una barca che affonda e va a picco, su cui non c’è posto per tutti, come prima e più di prima, statene certi. Siamo tutti figli di Caino e Abele, di chi ha piantato una bandiera, fatto un recinto e mazzulato chiunque si avvicinasse a tiro. Era roba sua, la terra. E la casa. E le donne. E gli animali. E i figli. E tutto il resto. Tutto gli era dovuto. La via per la felicità terrena non ammetteva diversivi di sorta, in god we trust. Le colonie, il razzismo biologico, il furore romantico del potere e dell’azione, furono un’altra squallida strategia per provare a superare i propri limiti: il tempo scorre, non c’è nulla oltre il presente. Nulla. Ficcatevelo in testa.

    Francesca ha due giganteschi occhi verdi, l’aria sognante e le dita affusolate da pianista, anche se non ho mai provato neanche lontanamente a dirglielo. So che è stata sposata in uno dei suoi lunghi e tormentati amori, e nient’altro. In tanti anni di lettere di carta mai scritte, telefonate, cortei, messaggi, whattsapp, mi accorgo di non sapere nulla di lei, o forse, so tutto.

(A Porta Venezia già alle tre di pomeriggio c’erano le mamme del Leoncavallo, e dietro di loro il servizio d’ordine con le incerate bianche e gli “stalin”, i famigerati manici di piccone con lo straccetto rosso che andavano di moda in Statale. L’aria era tesa, la gente cominciava ad arrivare, e di polizia se ne vedeva tanta, camionette e blindati volevano impedire la partenza perché davanti c’erano almeno un centinaio - ad occhio e croce – di sciarpe sui volti e occhiali da sole. Troneggiava uno striscione portato dai milanesi in testa AUTORGANIZZAZIONE AUTOGESTIONE UN PROGRAMMA PER L’OPPOSIZIONE SOCIALE, erano furiosi per gli  avvenimenti degli ultimi mesi: sgomberi,  promesse, polizia, e poi di nuovo un’occupazione in vai Watteau. Era estate persino qui, a Milano, la mia ciurma era fumata e ubriaca di vita, sudore, musica, voglia di far casino. Nella metro piena di compagni s’intonava Bandiera Rossa e l’Internazionale, ma c’erano anche tanti cani sciolti come noi al battesimo di fuoco. Perché chiunque stesse per mettere piede a Porta Venezia quel 10 settembre, sapeva benissimo cosa sarebbe accaduto. La rabbia montava, i corpi desideravano, la misura era colma. Volti giovani, della mia età, e reduci degli anni settanta, spezzoni coloratissimi e psichedelici, parodie di Berlusconi in cartapesta, bande musicali di strada, la teppa avrebbe alzato la voce prepotentemente. Davanti spuntavano decine di braccia incordonate, il sole era alto ed eterno, ed io immortalavo con la macchina fotografica un giovane col casco addosso che abbracciava una ragazza con un bimbo: lei guardava i lacrimogeni innestati e il cordone di polizia e carabinieri, come in attesa, lui le carezzava dolcemente il braccio, il volto era coperto ma gli occhi semplici, lucidi, trasmettevano amore, lotta, affetto. La ragazza di spalle aveva una maglietta bianca, l’aria indecifrabile e protettiva, sembrava volesse stare nel fuoco anche lei. Fu la prima foto di quel pomeriggio.)

 Francesca mi guarda dritto negli occhi. Non ci sono mai pause o accenti nei suoi sguardi, come se avvertissi le nuvole incresparsi, una linea d’amore balugina nella testa, e nei sogni. Sento che sta per conficcare una delle sue frecce nella schiena dei miei pensieri.

-          E tu c’hai mai pensato qualche volta che siamo cambiati parecchio? Non è rimasto in piedi nulla. Guarda fuori, c’è un mondo senza spina dorsale – si alza– puoi scegliere di fare ciò che vuoi, ma non devi desiderare nulla. Una gabbia dorata.

-          Non lo so, alla fine i problemi sono rimasti – la riflessione non è affatto banale e cambio registro - cos’ha significato quel giorno? Via veloci fino a Genova, è andata perduta una generazione. Tutto in frantumi, solo schegge di mine in faccia. A noi sembrava una nuova alba, eravamo troppo piccoli per azzardare analisi a lungo termine - ho il fumo in faccia, e il pakistano me lo sento in gola ad ogni tiro.

-          Certo, un’istantanea da regalare al futuro. Non è per me il reducismo, lo sai bene no? Tu piuttosto, perché facevi tutte quelle foto? Sembravi un giapponese alla galleria – e sbuffa sorridendo – facevi molta tenerezza.

-          Ma figurati - mi alzo e metto un pezzo dei Fratelli di Soledad, metto su Un uomo solo al comando – ricordi cosa dicevamo, dopo il corteo? Non ci faremo fregare. E invece, è andata proprio così.

-          Perché poi ti eri portato la macchina fotografica? - Francesca si versa un bicchiere di gin.

-          Beh, lo sapevo che ci sarebbero stati casini eh - ridiamo insieme e ci sdraiamo sul letto.

-          Le foto catturano l’anima, i gesti, i sensi, ti fanno immaginare le sfumature, i suoni, le cesure. Le sconfitte anche, e l’angoscia. L’immagine immortala e cattura il tempo, ti regala l’illusione di poter rivivere le cose così com’erano, senza sbavature, e poter tornare indietro. Mentre scatti pensi di lasciare una traccia, ma non c’è movimento.

-          Lo so. La fotografia infatti non esiste più in questo mondo virtuale, non ha più significati da lasciare. E forse chissà, neanche noi.

-          La memoria. Lei cattura le parti migliori di noi stessi.

-          Si, e le peggiori.

-          Siam fatti di ricordi, non trovi?

-          Si. Senza di loro saremmo perduti.

 

 

 

IV

 

 

Non mi capita spesso di pensare al passato, anzi. So che sta lì, vegeta sul fondo di rutilanti infelicità, rimorsi, sospiri. Insegna, certo che insegna. E’ la culla di ogni scelta, in fondo. Aiuta a darci un’identità, un equilibrio, una direzione, seppur confusa e contraddittoria. Oltre i suoi limiti c’è solo la follia. Chissà cosa ne penserebbe Guy Debord, di questi anni. Sullo scaffale dei dischi di Francesca ce n’è uno che mi rapisce immediatamente, Che cosa sei di Alberto Radius. Copertina malridotta, all’interno canzoni poppeggianti e piene di dolcezza, antiche, da ascoltare la notte, prima di addormentarsi, o di far l’amore.

( Sound system appalla per le strade di Milano, eravamo più di 20.000, un oceano di teste e volti dispersi che cercavo di catturare come potevo: un ragazzo che suona il rullante, i segni da indiano sul volto e una catenina al collo, dietro una ragazza con la mimetica che fuma hash. Eravamo arrivati col sangue agli occhi da ogni parte d’Italia, durante il corteo un fiume di musica bonghe cyloom vino anfe che giravano tra i giovanissimi dei centri sociali, e se anche dal paesello da dove venivamo non ce n’era alcuna traccia, eravamo anche noi lì in carne ed ossa, in un cordone dai diminutivi imperdonabili, Fabietto, Luchino, Giannetta, Tittina, e via discorrendo. Pugni chiusi, treni presi al mattino tra facce addormentate e sballate. Milano quel giorno, si, a ripensarci, era un orgasmo collettivo. Cacciammo fuori la testa, per non rimetterla più dentro. Miles Davis avrebbe approvato, ne sono certo, tra i fotogrammi in bianco e nero che cercavo di azzannare con la mia macchinetta, ma era solo il fumo della notte che calava nel cuore di Piazza Duomo. Il rullino proseguiva imperterrito con un autobus fermo tra lo sgomento dei milanesi, che sognavano un sabato al centro per ricaricarsi dall’afa estiva, e le sirene della polizia in lontananza, noi pronti a salpare verso il nulla, sbattendo contro l’affermazione di sogni irriducibili. Immortalai anche le mamme di Fausto e Iaio nel cordone davanti alla polizia, sorridenti e chiuse un dolore coltivato giorno per giorno, in camere rimaste bambine e inchieste che non arrivavano a nulla, rivendicazioni farlocche e abili depistaggi. I loro figli erano stati ammazzati senza appello sotto un piccolo ponte in via Mancinelli, e loro son lì, che urlano ai celerini di andarsene, io ne catturo inconsapevolmente una striscia di malinconia, tengono uno striscione coi capelli sbiancati, le mani candide, ed il contegno di una ferita mai chiusa. Fausto e Iaio uscirono alle otto di casa per andare a sentire un concerto blues al Leoncavallo, e non tornarono mai più. Ci vorrebbe il pianoforte di Beatrix Bea qui, un pezzo come Fallen star. La stampa disse che erano due tossici, un regolamento di conti tra spacciatori. Eroina, la usavano in parecchi, soprattutto al Casoretto. A qualcuno sembrò una notizia del cavolo, da dimenticare in fretta, avevano rapito Aldo Moro da due giorni, c’era altro a cui pensare.

La questura aveva autorizzato il corteo fino a via Cavour, una strada che non avrebbe contenuto mai e poi mai le migliaia e migliaia di persone che sarebbero arrivate da ogni dove. Erano mesi, anni, che Corsera e fighetti bauscia alimentavano il rogo del diverso, e pazienza se una volta assumeva le sembianze di un immigrato clandestino, una volta quella del tossico barbone, e per ultima quella dei leoncavallini. E così fu, ma stavolta a parti rovesciate. Sole negli occhi e ore di cammino in compagnia di Gene Rondo mischiato al crossover degli Ariadigolpe – mentre camminavamo sembrava tutto un’allucinazione, una folla enorme.

Un’altra foto di quegli attimi catturava un ragazzo abbracciato ad un lampione, con la testa in giù, i piedi stretti, una scarpa si e l’altra no, e sullo sfondo il corteo fermo e sudato prima di svoltare in via Turati, l’asfalto con l’odore dei limoni, neri. Il vento arrivava a folate, calde, Milano era bella, sembrava avvolta d’incenso. Il ragazzo aveva gli occhi chiusi, non si accorse del mio flash.)

-          Eri arrivato con i tuoi amici a fare le foto? – Francesca si passa la mano tra i capelli e guarda fuori, ride sempre con lo sguardo sfuggente, ha il fascino di chi non starà mai bene nel suo tempo e nella sua epoca.

-          Si, si, ero con loro, avevamo un gruppo all’epoca, siam saliti a Milano perché avevamo voglia di aiutarvi. E tu? – guardo l’orologio, son le sette e mezza a furia di chiacchierare e guardarsi negli occhi, ho lo stomaco sottosopra, e il cuore in subbuglio.

-          Con un paio d’amiche bocconiane di allora eravamo sempre presenti ai cortei per il Leo e gli spazi dell’epoca, il Conchetta, e i punx dell’Helter Skelter. – Francesca si stende di nuovo sul letto, mi sfiora il braccio, le mani, un sussulto.

-          La possibilità di esistere, i centri sociali, un baluardo contro lo schifo che percepivamo montare intorno a noi – da fuori una selva di clacson lontani, vociare e odori di fumo, borotalco e iodio.

-          Si, è vero, ci riuscimmo, da allora cominciò a mettersi in moto la macchina fino a Genova nel 2001, eravamo in salute e diventammo mille fiori sbocciati – Francesca mi fa un cenno, come a volermi dire qualcosa, che però rimane stretto nella sua gola.

-          Ehi, posso farti una domanda?

-          Si, dimmi.

-          Sei felice ?

La finestra aperta, una Marlboro in bocca, e Tom Waits che canta di amori impossibili. Forse assomiglia a quella cosa lì, la felicità.

-          No, non l’ho ancora trovata. E a dirla tutta, ho seri dubbi che si faccia viva– un sorriso amaro, come di chi è sempre arrivato ad un passo dal traguardo e lo hanno sempre fregato per pochi spicci.

-          Si può essere felici? Io so che il desiderio è morto, e non sappiamo più spiegarci neanche la ferocia della guerra, l’insensatezza dell’ordine, della quiete senza scossoni tellurici.

-          Noi sognavamo l’orgasmo collettivo, l’esplosione totale. Istantanee. Foto che rapivano l’attenzione e stimolavano i pensieri. La rete, il dominus di questi tempi barbari, è solo un freddo archivio di immagini che rimarranno dopo di noi forse, ma chi le vedrà?

-          Le profezie e i deliri di Cronenberg son già tempi remoti, alle spalle, l’interazione tra uomo e macchina nei pensieri e nel corpo è qui, ora. E non è nulla di buono.

-          Correvamo per le strade di Milano quel 10 Settembre, pensando ad un’alternativa.

-          Mi scoppia la testa, smettila, passami le foto, dai ! – Francesca fa una pausa - lo sai che sei un tipo strano? Ci siamo conosciuti che mi sembravi molto incazzoso, e io scherzavo, e negli anni sei come cambiato, una pelle più leggera, morbida. Non è buffo?

-          Che dici, facciamo un caffè? – ha le spalle completamente tatuate, un veliero pirata disegnato su di un corpo sinuoso e asciutto, che sembra scomparire tra le onde di una tempesta. Il sole scende lento fino ai casermoni di via Padova, riscalda le nostre parole di cartone. Fuori s’intravede il grigio, sui muri, nei pensieri della gente forse un fremito indistinguibile.

 

(Giunti all’altezza di Piazza Cavour ci negarono l’accesso verso Piazza Duomo, qualcuno da dietro cominciò ad urlare si sfonda – gente che correva e si arrampicava sulle serrande chiuse dei negozi. Scattai l’istantanea di una prima fila piena di caschi, braccia strette in cordoni, volti tesi e carabinieri coi fucili in braccio. Poi di colpo fumo e petardi, fumogeni e vetrine rotte. Un ragazzo da solo in mezzo alla strada, col basco ed il viso coperto: una foto che non rende giustizia, perché dietro di lui c’erano migliaia di corpi. Bisognava dire basta, pietre a grandine, bastoni, il gruppo di testa si era fatto coraggio e fece fuggire la polizia, ed in un attimo la follia collettiva esplose in mille rivoli. In via Turati li travolgemmo, cominciarono a spararci addosso i lacrimogeni, mi coprivo con un fazzoletto la bocca, non riuscivo a respirare più, avevo la macchinetta fotografica al collo, mi prese un crampo allo stomaco, c’era esagitazione in giro, energia, entusiasmo, eravamo tantissimi.

Eppure non riuscivo a fissare nella mente altro attimo - e questo non c’era sui fogli attaccati ad asciugare nella mia camera – se non quello in cui mi ritrovai occhi negli occhi di Francesca al bar Travigo, che chiedeva al cameriere del limone. Il mondo sembrava fermo, gli scontri placarsi, e non sembrava nemmeno Milano, ma un deserto da percorrere ad occhi chiusi, provando a sfiorarci le braccia, le mani, ed ogni traiettoria era sbilenca, il silenzio del blues in un albergo lontano. Fuggivano le armate delle tenebre e il fumo sembrava riscaldare il cielo per riempirlo di grida, crepitii, macchine bruciate. Erano momenti che incastonavo nella magia, una linfa irripetibile, filo ghiacciato sulla voce, io  così libero, non lo ero mai stato. La polizia attaccava e divideva il corteo in due, gli scontri proseguivano, la furia dei fratelli e delle sorelle sembrava incontenibile, ma per me – nel caos - c’erano le mani di Francesca. La notte calò rapidissima in un secondo dopo essere arrivati in via Watteau, piano piano la tensione diventò un manto stellato nel ventre di una metropoli distratta nei telegiornali della sera, le voci accalorate dei notiziari di Radio Popolare e Onda d’Urto, gente che urlava di sottofondo al telefono: la comunicazione diventava più importante della sostanza e del contenuto, eravamo nel cuore degli anni novanta, baby. Francesca mi sussurrò che avrebbe passato la notte lì, avevano paura di uno sgombero imminente dopo i casini della giornata. Ah, dimenticavo, i miei amici erano tutti rinculati alla Libreria Calusca ai Navigli, da Primo Moroni e dalla sua lunga barba, un uomo antico dagli occhi che profumavano di balere e canzoni da osteria, di ligera e dialetto lumbard. Sigarette e gocce di hash ci accompagnarono verso un sonno limpido, pacificatore, che non aveva più confini. Eravamo diventati, finalmente, grandi. Francesca si alzò presto al mattino successivo, andò a prendere i giornali mentre la città dormiva. Io ero sveglio.)

 

La sera è fuggita via rapidamente, tra aneddoti e rullini fotografici, risate e malinconia nascosta negli sguardi. Si è felici da giovani, posso assicurarvelo. Chi dice il contrario è un pirla, o mente. Il futuro invece non ha colore, è un indistinto brulicare di eventi di cui – presuntuosamente – pensiamo di poter decidere qualcosa. Pura vanità, di essere informi e ancora da finire, e che il tempo, maestro di ogni essere vivente, si prenderà cura di cesellare e incanalare verso più miti consigli e sospiri. Ah, il tempo, puoi immortalarne i fotogrammi su di una pellicola, e ti trascineranno in un gorgoglio stridulo di ricordi, ma non ti sarà concesso di ingabbiarlo, sarà l’inchiostro a tramandarne la voce. Forse distorta, forse a metà, su di uno scaffale di una libreria.

 

    Intravedo da qui, sul balcone, un uomo sulla sessantina, canottiera e sigaro in bocca, dialetto siciliano. Le grida dei bambini, un vociare sommesso che si perde nelle nuvole di Milano, figli di case di ringhiera e di un cielo compresso. Risate soffocate escono da un bar, coi motorini che sfrecciano verso l’infinito, la Galleria, il Duomo, e delineano icone buone per i primi piani. Io invece rimango sul letto a guardare fuori, si, dannatamente, devo ammetterlo, c’era sentimento.

 

    Francesca si alza, seguo i suoi passi scalzi con lo sguardo, si avvicina al cassetto, e tira fuori un vinile. Alza la puntina, e mette su.

 

-          Forza, sbrigati – Francesca canticchia Coccodrilli bianchi, la riconosco, sussurriamo il testo ad occhi chiusi.

 

    Sembra di rivederla in quel bar, in quegli attimi concitati, nel ventre di Milano sconvolto dal nostro passaggio, ed eccola, proprio come allora, perché non è mutato granchè, coi nostri sogni falliti che son diventati gas, ritagli di giornale, immagini da catturare e recuperare. Da stampare su di un libro.

  

    Mi accorgo solo che ora che stiamo ballando insieme, col sottofondo di una vecchia canzone dal testo improbabile, la testa cade sulle sue spalle. Si, come dei coccodrilli bianchi.

 

La musica si espande nella casa, circolare, per poi tornare nei nostri pensieri, e scompare nella notte, in un soffio.

 

 

 

Playlist

 

1.     John Mayall, Have you heard

2.     Bob Marley&The Wailers, Revolution

3.      Chet Baker, Lament

4.      Pharoah Sanders, The Creator has a master plan

5.     Fratelli di Soledad, Un uomo solo al comando

6.     Radius, Che cosa sei

7.     Miles Davis, Bitches brew

8.     Beatrix Bea, Fallen star

9.     Gene Rondo, Far away

10.  Ariadigolpe, Adesso basta

11.  Radius, Coccodrilli bianchi

I coccodrilli bianchi testo di Il Cinabro
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