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La macchinina senza ruote di Gavino
Tra i rami bassi, poggiata tra le foglie cadute, c’è una macchinina senza ruote. È stanca, consumata, ma sembra pronta a partire lo stesso. Quella macchinina appartiene a Gavino.
Gavino è arrivato al centro ed ha partecipato per un solo anno, eppure ha lasciato una traccia intensa e difficile da dimenticare. Era un bambino strano, con una risata che spesso esplodeva senza motivo apparente e parole che uscivano a caso, come se cercasse di dialogare con un mondo che non lo ascoltava davvero. Dietro quell’apparente leggerezza, però, c’era una storia di dolore profondo: abusi sessuali subiti all’interno della famiglia, che avevano segnato la sua infanzia e costruito ferite invisibili ma enormi.
Il suo modo di evadere, di uscire fuori, era tutto suo. Rideva, parlava parole sconnesse, correva con i pensieri altrove. Era seguito da specialisti, curatori, educatori: non era lasciato solo, ma ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo di Gavino interrogava chi gli stesse accanto. Ci si chiedeva se una ferita così profonda potesse mai essere ricucita.
La macchinina senza ruote era il suo oggetto simbolico. La associava a sé stesso, probabilmente, eppure la lanciava, la faceva volare tra le mani, come se cercasse un movimento, una direzione, una possibilità. Forse in quei lanci c’era la voglia di andarsene, di arrivare altrove, di spostarsi in un’altra città, in un’altra casa, lontano da tutto e tutti, con sua mamma accanto, lontano dal dolore e dalla paura.
Quando pensi a Gavino, non ci sono storie di gioia semplice da raccontare. Ci sono sfide quotidiane, silenzi che pesano, domande senza risposta, lacrime e risate che si intrecciano. Ma c’è anche un insegnamento profondo: la fragilità va accolta, il dolore va accompagnato, e persino le ferite più grandi possono trovare, attraverso ascolto e sostegno, spazi di movimento e possibilità.
La macchinina senza ruote rimane sull’albero come simbolo di resilienza e di desiderio di futuro, anche quando le condizioni iniziali sembrano impossibili. Ci ricorda che il lavoro educativo non è sempre visibile o lineare: a volte consiste solo nel lanciare un oggetto, offrire attenzione, permettere di esprimersi, e avere la speranza che il bambino trovi, un giorno, un terreno più sicuro.
Gavino mi ha insegnato che accompagnare un bambino non significa cancellare il dolore, ma restare accanto, offrire strumenti, ascolto e cura, anche quando la strada è incerta. Che ogni bambino, anche senza ruote, può avere la forza di lanciarsi verso un’altra casa, verso un nuovo inizio.