
Contenuti per adulti
Questo testo contiene in toto o in parte contenuti per adulti ed è pertanto è riservato a lettori che accettano di leggerli.
Lo staff declina ogni responsabilità nei confronti di coloro che si potrebbero sentire offesi o la cui sensibilità potrebbe essere urtata.
La pena di morte è uno degli argomenti che da sempre divide l’opinione pubblica: le forme più antiche di questo tipo di punizione risalgono addirittura ai tempi dellle popolazioni della Mezzaluna Fertile.
Un evento di rilevanza non indifferente, in epoca antica, è stata l’emanazione del famoso Codice di Hammurabi, secondo cui la pena doveva essere uguale alla colpa.
La legge del taglione deriva infatti proprio da questo documento, e, come si può immaginare, chi uccideva qualcuno doveva essere a sua volta ucciso, con la stessa metodologia.
Si intuisce subito che, seppur ci fosse l’intenzione di dare una pena proporzionata al crimine commesso, spesso si finiva per arrivare a trattamenti molto inumani.
Per fortuna, ad oggi, la maggior parte dei Paesi del mondo ha abolito la pena di morte, o quantomeno non la usa più.
Nonostante ciò, rimangono ancora delle zone in cui questa forma di punizione è in vigore.
Fra questi abbiamo, a titolo esemplificativo e non esaustivo: Cina, Giappone, India, Libia, Cuba, Iran, Iran, Afghanistan, Arabia Saudita, Corea del Nord, Bielorussia e… Stati Uniti.
Ad oggi, gli Stati Uniti sono l’unico Paese fra quelli del cosiddetto “primo mondo” che ha ancora in vigore la pena capitale, cosa che da tempo sta creando dibattito da parte di noi europei.
La domanda sorge spontanea: è giusto uccidere un uomo, se la legge lo impone?
Molti considerano l’aspetto umano della questione, considerando che ad oggi, nella maggior parte dei casi, l’esecuzione avviene per reati di natura molto grave, quali l’omicidio, l’alto tradimento, il terrorismo, il traffico illegale di droga e lo stupro.
Chi è a favore, sostiene che chi commette questi crimini sia un pericolo sociale, e che pertanto sia necessario eliminarlo fisicamente per evitare che possa esserci la possibilità di tornare in libertà, tramite cavilli legali, corruzione dei funzionari o più semplicemente con l’evasione.
Di conseguenza, l’uccisione di un criminale andrebbe anche a sgravare i costi di un eventuale detenzione a vita.
Un’altra argomentazione è quella che riguarda la deterrenza: il concetto è molto simile a quello del “punirne uno per punirli tutti”, in quanto la paura di finire ucciso farebbe abbassare il tasso di criminalità.
Entrambe queste affermazioni sono facilmente confutabili.
Per quanto riguarda la natura del carcere: in Italia, per esempio, la detenzione è a scopo rieducativo, al fine di far reinserire al meglio il soggetto interessato nella società.
Inoltre, come stabilito dall’Articolo 27 della nostra Costituzione e dall’Articolo 5 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, il trattamento dei carcerati non può essere crudele o inumano.
La pena capitale viola entrambi questi principi, in quanto esclude del tutto la possibilità che una persona possa tornare in libertà, e, per il fatto stesso di consistere nella morte del condannato, va in contrasto con il diritto alla vita, sancito anch’esso dalla già citata Dichiarazione.
Gli Stati Uniti, come scritto in precedenza, sono il Paese più problematico in materia, in quanto un’altra questione spinosa è quella della discrimazione, specialmente di carattere razziale.
Uno dei casi più eclatanti è certamente quello di George Stinney, un ragazzino di colore di 14 anni condannato alla sedia elettrica per l’omicidio di due bambine, e che si è scoperto essere innocente solo settant’anni dopo, e da cui tra l’altro Stepehen King si è ispirato per la storia di John Coffey nel suo libro “Il miglio verde”, adattato poi nel film di Frank Darabont.
A sostegno di ciò, statisticamente, la maggior parte dei condannati a morte negli Stati Uniti sono provenienti dalle fasce svantaggiate, perciò si potrebbe pensare che la loro esecuzione sia avvenuta per la mancanza di opportunità nell’ottenere una buona difesa.
Non è infatti raro che capiti che venga ucciso un innocente e non il vero colpevole, e un quel caso, non c’è modo per risolvere l’errore giudiziario.
Proseguendo, per quanto riguarda la questione della deterrenza, quello che nella realtà accade è esattamente il contrario: gli Stati con un tasso di criminalità più basso sono proprio quelli che non hanno la pena capitale.
Questo può essere spiegato con il fatto che i reati che solitamente vengono puniti in quel modo solitamente sono compiuti in uno stato di alterazione mentale, temporanea o permanente, e quindi semplicemente chi si macchia di questi crimini è consapevole delle conseguenze che dovrà affrontare, ma decide di fregarsene.
In questo senso, la pena di morte può essere considerata una soluzione a breve termine, ma non risolve alla radice i problemi.
Per fare ciò, si dovrebbe andare ad intervenire sul supporto sociale e psicologico e sul sistema carcerario: i casi non si azzererebbero, questo sarebbe praticamente impossibile come obiettivo, ma di certo si andrebbero a ridurre drasticamente.
Detto ciò, visionando il film “Il miglio verde”, ho riflettuto su un’ulteriore altra cosa: quando le esecuzioni erano ancora pubbliche, nel pubblico c’era un certo grado di sadismo, di godimento nel vedere quella determinata persona morire.
Considerando quello che i condannati a morte dovrebbero aver fatto, è una reazione comprensibile, ma assolutamente non giustificabile.
Facendo così, infatti, ci si pone sullo stesso livello del condannato, come chi partecipa attivamente all’esecuzione stessa dopotutto.
La legge dovrebbe essere giustizia, non vendetta, come diceva già Cesare Beccaria nel Settecento, e quindi dovrebbe cercare di stare ad un livello superiore.
La maggior parte delle condanne avviene per omicidio, viene quindi condannata una persona che ha deliberatamente considerato di avere il diritto di togliere la vita ad un’altra persona: lo Stato può quindi, cercando di far capire che quella cosa è sbagliata, farla a sua volta?
Per far capire che l’omicidio è sbagliato, lo Stato uccide a sua volta, è la massima forma di incoerenza.
In Europa, prima della Rivoluzione francese, prima dell’introduzione della ghigliottina, i metodi di esecuzione erano molto cruenti, al fine di far soffrire ancora di più il condannato.
Stiamo parlando di cose come sventramenti, impalamenti, roghi… metodi molto dolorosi, portati alla loro massima durata proprio con l’intento di far capire al condannato i suoi errori.
Senza considerare l’impatto psicologico dell’essere condannato a morte in pubblico: è inquietante pensare di essere in mezzo ad una folla che ti urla contro, mentre stai agonizzando.
Purtroppo, in alcune parti del mondo, come in Afghanistan o in Iran, esistono ancora forme di esecuzione molto cruente, come la lapidazione per le donne adultere.
Ad oggi, ci sono dei casi che lasciano il dubbio riguardo al mantenimento o al ripristino in alcuni Stati della pena di morte.
Uno degli casi peggiori degli ultimi anni, per esempio, è stato quello di Peter Scully, che è stato arrestato nelle Filippine nel 2015 per aver creato una rete di scambio di video contenenti abusi, fisici e sessuali, torture e omicidi verso un quantitativo notevole di bambine, una delle quali aveva appena diciotto mesi.
E’ qualcosa di senza dubbio aberrante, è assurdo pensare a come qualcuno potrebbe anche solo immaginare qualcosa di simile, e difatti il procuratore ha proposto la reintroduzione della pena di morte esclusivamente per Scully.
Cosa ne penso io?
La pena di morte non è solo uno strumento inumano, che ci ridurrebbe al suo stesso livello, ma sarebbe anche una fine veloce per una persona del genere.
Sarebbe di certo molto meglio far continuare a vivere una persona, ma in uno stato di limitazione permanente della libertà, facendolo convivere con la consapevolezza delle conseguenze delle sue azioni, sia verso di lui sia verso le vittime o i sopravvissuti delle vittime.
E’ anche vero che gesti malsani come quelli perpetrati da Scully denotano un forte livello di malattia mentale, ma ciò non giustifica assolutamente quanto fatto.
Nonostante tutto questo, ritengo che ci siano comunque casi in cui sia lecito uccidere qualcuno, ovvero quando c’è una minaccia imminente, sia a livello individuale (come nelle situazioni di legittima difesa), sia a livello collettivo.
Per esempio, per me le persone che hanno attentato alla vita di Hitler, tutte le volte, sono degli eroi, non vanno esorcizzate, perchè se ci fossero riuscite, avrebbero salvato la vita di milioni di persone.
In generale, in contesti di guerra, credo che l’uccisione di qualcuno sia legittima, o perlomeno se si è in una situazione in cui si è la parte offesa, e se il nemico è ancora nelle capacità di continuare ad attaccare.
Dopotutto, si sa, in guerra le leggi civili valgono poco e nulla.
Con i carcerati, ribadisco, la situazione è differente, in quanto si riesce a mantenere la sicurezza anche tenendo in vita il detenuto, se vengono applicati adeguati protocolli.
L’uccisione dovrebbe sempre essere l’ultima spiaggia, quella cosa da considerare solo in casi estremi e dove mancano altre possibilità