Contenuti per adulti
Questo testo contiene in toto o in parte contenuti per adulti ed è pertanto è riservato a lettori che accettano di leggerli.
Lo staff declina ogni responsabilità nei confronti di coloro che si potrebbero sentire offesi o la cui sensibilità potrebbe essere urtata.
Fissava un muro davanti a sé. Era un muro di cemento, altissimo. Dietro a lei c’era solo desolazione: un grande campo, una volta di grano, con qualche sparuto stentato papavero, quasi sbiadito e ondeggiante nel tentativo di gemere alla vita.
Quel muro, ormai, lo aveva fissato così a lungo che ne avrebbe potuto disegnare ogni mattone, ogni crepa, ogni infiltrazione di muschio e ogni piccolo animaletto che passava ogni tanto.
Doveva oltrepassarlo. Sapeva che al di là, o meglio sperava, ci fosse qualcosa di meglio. Per un po’ aveva camminato lungo la muraglia, con i cocci in alto, per vedere se ci fosse una breccia, un varco, anche solo un mattone smosso che potesse darle una flebile speranza di superarlo. Per giorni aveva trascinato il suo sacco d’ossa. Le sue scorte erano quasi esaurite, anche quelle di ossigeno, e temeva di morire sola, con solo i papaveri pallidi a fissarla dal campo vuoto.
Oh, quanto aveva pianto. In silenzio, cercando di cacciare indietro tutto per non sprecare prezioso fiato e liquidi. Ci aveva provato, davvero, per un po’ a vivere in quel quasi deserto. Trovare un pezzetto di qualcosa di vagamente commestibile le portava via tutto il tempo di una, due, dieci giornate. E, dopo mesi e mesi di quella vita stentata, aveva deciso che era ora di andare oltre, di cercare qualcosa o qualcuno o una carcassa d’umanità che fosse.
Così, dopo qualche giorno nella direzione della piana desolata, evitata finora perché particolarmente scarsa di risorse, davanti a lei aveva trovato quel che chiamava tra sé il Muro. Di merda, aggiungeva, tra l’altro.
Aveva anche pensato vagamente di costruire qualcosa, di scalarlo. Ma non c’era nulla. Impilare papaveri sarebbe servito a poco. Forse scavare quella terra dura e secca? Con cosa?
Per la quattrocentesima volta si chiese come cazzo fosse finita lì. Non lo sapeva. Quasi avesse viaggiato nella notte e per migliaia di chilometri. E poi, sto Muro lo avrà pure costruito qualcuno!
E per la ottocentesima volta si disperò, ricacciò il nugolo di pensieri di morte, di sconfitta e di incapacità che avea dentro di sè e provò a immaginare come e dove e quando avrebbe potuto osservare oltre a quel dannatissimo, altissimo, impenetrabile muro.
Un’idea le balenò. Se quel cazzone di Icaro era riuscito a volare con cera d’api e penne, io lo farò intrecciando i petali di papavero con i loro steli.
Occorse tempo. Realizzò un bel paio d’ali che legò alle braccia incredule. Iniziò a scuoterle senza eleganza, i piedi si sollevarono da terra. Gli oscuri pensieri si rischiararono. Oltrepassò la sommità del muro e l’odore nauseabondo la colpì sino a stordirla, le causò allo stomaco quell’effetto proprio del dondolìo, del beccheggio di una barchetta tra le onde di uno splendido mare di merda.
Esatto! Una distesa infinita sino all’orizzonte omnidirezionale percepibile dagli occhi, offesi non solo dalla luce radente di stelle ipocrite e lune menzognere. Precipitò risvegliandosi prona tra le umide assi di quel fasciame vuoto, senza nome. Dalla privazione della libertà di movimento alla balìa del mare sconfinato.
Si può celare il rancore alla vista, ma non certo al naso ed allo stomaco.
Era convinta che i succhi gastrici e il tempo avrebbero fuso quei bocconi deglutiti interi, a secco, senza alcun liquido. E in effetti, così era stato, sino ad oggi. Oggi tutti i boli erano fuoriusciti sino a farlo galleggiare, alla deriva, tra quelle onde melmose e fetide percorse da oggetti fluttuanti. Alcuni minuscoli come sugheri, altri come enormi iceberg sfioravano lo scafo, impertinenti.
Su ciascuno un nome ed una descrizione, un ricordo. Nomi, descrizioni e ricordi di merda. Tormentavano i sensi. Altro che palude Stigia!
Improvvisa, però si accese una speranza, come la luce bianca di un faro. Un rotolo di fotoni magnetico che attraeva il battello. Si lasciò trascinare da quella striscia.
Quando raggiunse la luce, ne staccò alcuni pezzi e con alcuni colpi i muscoli delle braccia consapevoli igienizzarono il mondo che la circondava.
Il mondo fatto di un Oceano infinito continuava davanti a lei, tuttavia c’era una macchia più chiara, nell’acqua, ne era sicura.
Ogni tanto il delirio cominciava ad affacciarsi alla sua mente, nugoli di mosche bianche e zanzare si accumulavano sulle sue pochissime risorse, chissà come in grado di proliferare in quel nulla molto blu e molto fetido.
Quella chiazza, però, aveva una chiara depressiva attrazione: era come se nel mezzo ci fosse un mulinello, una conca calma, una specie di triangolo delle Bermude ma minuscolo.
Con le poche forze che ancora aveva, braccia e remi e gambe e denti stretti, si spinse in là, ancora e ancora, senza un filo di vento a darle refrigerio, ricoperta notte e giorno da un velo acido di sudore e mestizia.
Era come se ci fosse un lucore, notò, qualche giorno dopo. Un fliebile lucore.
Se non altro non è il Muro, l’acqua la posso traversare.
E giunse così il giorno, era vicina era così vicina…
Una mano, a toccare piano, con delicatezza il bordo sfumato tra il blu e l’azzurro e il debole fascio di fotoni, che quasi collegava acqua e cielo e fetore.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
E. Montale