Credo che i primi anni ’70 si possano ancora definire “dopoguerra” nella Germania del cancelliere Willy Brandt, in cui ho passato la mia infanzia.
Le ferite della guerra erano ancora aperte anche se noi, bambini di 6-7 anni, non ce ne rendevamo conto; il fatto che il tetro edificio con enormi muri di mattoni rossi che si trovava all’angolo della strada venisse chiamato “Bunker” non sembrava poi tanto strano.
Ci passavamo i pomeriggi giocando a nascondino nei bui corridoi dei seminterrati, ingombri di bottiglie di birra vuote e pacchetti di sigarette, anch’essi svuotati. A pensarci bene non era una buona idea per dei ragazzini entrare lì dentro, ma di fatto non avevamo paura di niente.
La piccola città di Rheinhausen, nel bacino industriale della Ruhr e sede delle acciaierie Krupp, era disseminata di testimonianze più o meno evidenti del passaggio della guerra, in particolare Lo erano quei quartieri di palazzine nuove costruite nella tipica architettura anni ‘70 che, solo molto tempo dopo, avrei capito essere stati eretti sui cumuli delle macerie dei bombardamenti.
In quel periodo, l’orrore della guerra era stato completamente rimosso dalla coscienza delle persone, non ne avevo mai sentito parlare in casa, né dai genitori e nemmeno dai nonni, i quali ovviamente l’avevano vissuta in pieno.
Capitò una domenica mattina di primavera, il tempo era spettacolare sulle “Rheinwiesen”, i prati vicino agli argini del grande fiume Reno.
Ero con il solito gruppo di amichetti della mia via al quale si era aggiunto un altro paio di ragazzini che non conoscevamo, ma con i quali abbiamo fatto velocemente amicizia. Eravamo coricati nell’erba a goderci il sole e guardare le grandi chiatte cariche di carbone navigare lentamente lungo il grande fiume, nel cielo terso si intravedevano delle scie di aerei e uno dei nostri nuovi amici ad un tratto disse che sembravano aerei da guerra che sganciavano bombe sulle città.
Cominciò a parlare della guerra, dei bombardamenti aerei e della gente che moriva nelle città, se non si rifugiava nei “Bunker”. Probabilmente aveva sentito storie terribili dai genitori o dai nonni e ne parlava come se le avesse vissute in prima persona.
Dall’altra parte del fiume c’era un grande complesso industriale e osservando in lontananza la ciminiera dell’acciaieria Krupp, il giovane veterano di guerra, disse: “potrebbe essere il camino di un forno crematorio”.
La parola era Krematorium, il che mi faceva pensare ad una specie di crema, ma non era ben chiaro; allora il ragazzino mi spiegò che il Krematorium era un forno nel quale invece delle torte ci venivano infilate le persone per essere bruciate.
“Un forno? Per le persone? Ma di cosa stai parlando, innanzitutto un forno è troppo piccolo per una persona e poi perché si dovrebbero bruciare le persone?” Fu questo il momento in cui sentii per la prima volta quel nome, Hitler.
Secondo il ragazzino, durante il periodo denominato “Hitlerzeit” (il tempo di Hitler) era normale che molte persone venissero prese e bruciate nei forni; ma chi era questo Hitler?
Era un tipo che comandava tutta la Germania e che se uno non ubbidiva ai suoi ordini veniva ucciso o bruciato o entrambe le cose, non era chiaro in quale ordine. Tutti avevano paura di lui e aveva dei soldati che andavano in cerca degli “Juden” da bruciare.
Ero sconvolto; quella mattina di tempo bellissimo, sui verdi prati in riva al Reno, con i miei amici, ho sentito parlare per la prima volta delle cose più orribili che la mente umana potesse concepire.
Era talmente orribile e inverosimile che quelle cose fossero accadute in quel mondo perfetto che per me era la Germania, che le rimossi dalla mia mente per un paio di giorni; però quel nome, Hitler, non voleva essere cancellato.
In realtà non avendolo mai visto scritto, non era “Hitler” ma con il tipico accento della Renania era più tipo “Hittla”, io avevo sentito molti nomi tedeschi: Shultz, Schubert, Schmidt, Geiger etc. ma quel “Hittla” aveva un suono sinistro e inquietante che mi restava nella testa.
Alcuni giorni dopo, presi coraggio e chiesi a mia mamma se fosse vero che c’era stato un certo Hittla e se fosse stata una persona cattiva, ero sicuro che mi avrebbe detto che era un personaggio di fantasia horror, da film di paura, ma invece lei si fece scura in volto e mi disse che si, c’era stato un Hitler e che durante la guerra sono successe molte cose brutte, ma si trattava del passato e Hitler era morto.
Allora le chiesi se fosse vero che bruciavano le persone; al ché, forse per tranquillizzarmi, mi disse: sì, qualcuna, ma solo persone molto cattive.
A questo punto, detta così, mi sentivo molto più tranquillo visto che:
a) Non c’era la guerra
b) Hitler era morto
c) Io non ero certo una persona molto cattiva, anche se ogni tanto qualche bravata la combinavo, ma mia mamma non lo sapeva.
d) Qualunque cosa avessi combinato, compreso il lanciare petardi alle vecchiette che passeggiavano con i loro bassotti o riempire i buchi della serratura dei vicini con la plastilina, non avrei meritato di essere bruciato in un forno.
Da allora per molto tempo non avrei più sentito parlare di Hitler, della guerra e dei Krematorium e poi cosa c’entrasse la crema rimase un mistero a lungo.
In fondo anche in Hansel e Gretel c’era un forno nel quale alla fine veniva bruciata la strega cattiva ed era una fiaba crudele pensata per i bambini; quindi, uno può anche pensare che siano cose che succedono, pensavo.
Rimase un mistero anche chi fossero gli “Juden”, sembrava che nessuno ne volesse parlare; nemmeno quando pochi mesi dopo tutti quanti erano agitati per qualcosa di molto grave che stava succedendo a Monaco, dove erano in corso le olimpiadi, una cosa molto bella per la Germania, ma che un gruppo di persone chiamate “Terroristen” aveva deciso di trasformare in un qualcosa di orribile.
La televisione e la radio non parlavano d’altro, anche con la mia immaginazione di bambino di 7 anni facevo fatica a capire perché questi “Terroristen” avessero deciso di tenere questi “Geisel” (pron. Gaisel, parola misteriosa che poi si sarebbe rivelata stare per “ostaggi”) chiusi in una stanza solo perché erano atleti Israeliani.
Da quello che riuscii a capire dalla TV, che aveva smesso di trasmettere i miei programmi preferiti, la situazione stava precipitando ed era successo quello che i giornalisti chiamavano un “bagno di sangue”. Il termine “bagno di sangue” mi colpì in tutto il suo orrore e per molto tempo non riuscii a togliermi dalla testa la scena di una stanza allagata di sangue con persone morte a terra.
Pochi giorni dopo, a scuola, la maestra ci spiegò più o meno quello che era successo e, a metà mattina, dagli altoparlanti presenti in ogni aula ascoltammo in piedi, in silenzio, tutta la cerimonia funebre in memoria degli atleti Israeliani che erano stati uccisi.
Ho pensato spesso a quell’episodio e che comunque non è mai stato fatto esplicitamente riferimento che le persone uccise fossero ebrei (Juden) ma solo e sempre Israeliani e i terroristi Arabi, detti Fedahjin.
L’anno successivo mio padre iniziò a lavorare in un cantiere nel sud della Francia e ogni volta che tornava a casa per qualche giorno ci diceva di quanto era bello quel posto sul mare, con tempo sempre bello e cibo squisito. Credo che mio padre impiegò poco a convincere mia mamma a passare tutti insieme l’estate in Francia, approfittando delle vacanze scolastiche; e quindi un bel giorno, mia mamma, mia sorella Carmen ed io fummo accompagnati da mio zio all’aeroporto di Duesseldorf e partimmo per Parigi.
A quei tempi il viaggio in aereo era una cosa da jet set e volare da Duesseldorf a Parigi, transitare nell’avveniristico aeroporto Charles de Gaulle e proseguire con un volo da Parigi a Marsiglia fu un’esperienza che ci rimase impresso per molto tempo.
A Marsiglia venne ad accoglierci mio padre: ci portò subito a mangiare in un bellissimo ristorante con una grande vetrata che dava sulle piste dell’aeroporto, dove i modernissimi Jet Caravelle andavano e venivano senza sosta.
Sembrava di stare in un film o in una di quelle serie TV che si vedevano a quei tempi, tipo “Attenti a quei 2”, dove i protagonisti si spostavano tra aeroporti e ville al mare con macchine sportive lungo strade panoramiche.
Mio padre dopo qualche mese di lavoro sul posto sembrava di casa, parlava abbastanza bene il francese e ci raccontava con entusiasmo di quei luoghi, del pesce fresco e dello champagne che costava poco più del vino normale e, soprattutto, delle cavalcate nel parco della Camargue che si trovava poco lontano.
Mia mamma era affascinata da quella situazione e credo che per la prima volta si sia sentita trattata da “Signora”; già il fatto di sentirsi chiamare Madame da un cameriere con una impeccabile giacchetta bianca era notevole, ma l’apparizione del mitico “carrello dei formaggi” la fece immediatamente innamorare della Francia.
Prima di allora le nostre vacanze si svolgevano in un campeggio “informale” in Olanda, dove per informale si intendeva un prato dato in concessione da un contadino a 4-5 famiglie di tedeschi squattrinati che montavano le loro tende e passavano le loro vacanze a ripararsi dalla pioggia e fare delle improbabili grigliate di pollo o Wurstel.
Anche io nel mio piccolo realizzai che la Francia era la patria della grande cucina, infatti il mio piatto preferito di sempre era l’emblema della cucina francese il cui nome, tra l’altro, sapevo già pronunciare perfettamente: Pommes frites, che in tedesco si pronunciava Pomfrit.
Senza saperlo conoscevo già 2 parole della lingua dei Galli e con grande sorpresa dei miei genitori ne avrei imparate molte altre nelle settimane a venire.
Rispetto alla fredda e grigia Germania, il salto di qualità all’arrivo nel Sud della Francia fu notevole. La luce, l’aria, il cielo, tutto era diverso, tutto era fantastico; e non avevo ancora visto il mare…
Nelle settimane successive vivemmo in una specie di sogno, a parte mio padre che tutte le mattine si recava al lavoro sui cantieri del terminal petrolifero di Fos de Mer. Mia mamma, mia sorella ed io ci godevamo la vacanza in un posto che per noi era praticamente esotico.
Abitavamo in una bella casetta con giardino, dietro la casa c’era una pineta e davanti un vialetto che, tra muretti a secco e fichi d’india, portava direttamente ad una grande spiaggia libera. L’unico suono presente era l’incessante frinire dei grilli.
Nel giardino c’era un enorme pianta di fichi, perfettamente maturi: erano per noi una novità assoluta e, dopo averli colti arrampicandomi sui grandi rami dell’albero, ne facevamo grandi scorpacciate.
Altra novità assoluta era la presenza in giardino di un barbecue in pietra dove alla sera, al ritorno di papà dal lavoro, si accendeva il fuoco con il legno di vite e le pigne e si grigliavano fette di tonno fresco, comperate la mattina al mercato.
Evidentemente quella vita piaceva anche ai miei genitori e un giorno mia mamma mi portò in paese per capire come fare per iscrivermi a scuola, mi disse che molto probabilmente saremmo rimasti in Francia per sempre.
Avevo fatto velocemente amicizia con un gruppetto di bambini francesi; vivevano nelle altre villette lungo il viale e venivano li tutti gli anni per le vacanze. Passavamo le lunghe giornate estive in spiaggia, facendo bagni e oziando all’ombra del grande fico.
Quel posto mi piaceva moltissimo; mi scoprivo giorno dopo giorno sempre più a mio agio anche con la lingua del posto, dopo poche settimane riuscivo a capire tutto quello che mi dicevano e apparentemente la gente capiva quello che dicevo io; infatti, quando andavamo in paese a fare spese al supermercato avevo l’onore di fare da interprete a mia Mamma.
Ho sempre dato per scontato che fossimo una famiglia felice, ma credo che, nel nostro periodo francese, anche i miei genitori fossero in una fase molto positiva della loro vita. Io, il figlio maggiore, ero un bravo bambino, Carmen, la mia sorellina nata da poco stava bene, mio padre evidentemente aveva trovato un lavoro con un buono stipendio e potevamo permetterci di vivere in una villetta in riva al mare in un posto incantevole.
Se devo pensare ai momenti più belli passati con mio padre in tutta la mia vita penso alle sere in spiaggia quando dopo il lavoro e prima della grigliata al barbecue in giardino, mi dedicava un paio d’ore per insegnarmi a nuotare.
Nel piccolo paese di Port de Bouc, tutti conoscevano quella famiglia tedesca che vi si era stabilita da qualche tempo e io circolavo tranquillamente sulla piazza dove i pensionati giocavano alla pétanque, il tipico gioco con le bocce d’acciaio.
Accanto alla piazza c’era la darsena dei pescatori, i quali al loro rientro scaricavano le ceste di pesce e sciacquavano i loro pescherecci malconci; non era raro che mi facessero salire a bordo e mi regalassero qualche pesciolino, che io poi davo in beneficienza ai gatti che popolavano speranzosi il molo.
Sul molo c’era sempre un po’ di movimento: furgoncini che caricavano il pesce, pescatori che stendevano le reti ad asciugare o da riparare, venditori ambulanti e, come in tutti i porti, c’era anche qualche personaggio caratteristico che attirava la mia attenzione.
Era probabilmente la prima volta che vedevo un africano nero; non mi ricordo come si chiamasse ma era impossibile non notarlo con la sua pelle color ebano, i vestiti colorati e un pappagallo sulla spalla, legato con una catenina alla zampa.
Se ne stava a passeggiare su e giù per il molo e, ovviamente, mi avvicinai per vedere da vicino il pappagallo. L’africano era molto gentile, ma in pochi minuti, approfittando della mia ingenuità, riuscì a farsi dire chi ero, da dove venivo, dove abitavo e che lavoro faceva il mio papà.
La mattina dopo uscii di nuovo per vedere le barche dei pescatori e magari anche il pappagallo, anche se l’Africano mi aveva messo un po’ a disagio con tutte le sue domande.
Non c’era l’uomo del pappagallo quella mattina, in compenso apparve a tutta velocità una Mercedes scassata: frenò bruscamente davanti a me, ne scesero 2 o 3 persone che mi afferrarono e buttarono sul sedile posteriore.
La vista mi si era offuscata, non sapevo cosa stesse succedendo, ma continuavo a pensare che la raccomandazione di mia madre di non parlare con gli sconosciuti era riferita ad evitare situazioni come questa.
Di colpo mi ricordai dei “Geisel” delle olimpiadi di Monaco, del “Bagno di Sangue” dei terroristi e notai che le persone che mi stavano rapendo non parlavano francese; non capivo nulla di quello che si urlavano tra loro, quindi, dedussi, dovevano per forza parlare Arabo.
Non so quanto tempo fosse passato; mi ritrovai in un posto buio, molto caldo, con la luce che filtrava tra le fessure delle lamiere, era tutto di ferro e, avendo visto qualche volta dall’interno le stive dei pescherecci, pensai che il posto in cui mi trovavo dovesse essere una nave.
I miei polsi erano legati e non riuscivo ad alzarmi in piedi, la paura mi paralizzava perché non capivo cosa mi stesse succedendo e perché quella gente mi aveva preso e portato via. Avevo sempre sentito parlare di “gente che porta via i bambini” ma ovviamente non credevo che potesse capitare a me, probabilmente pensavo che fossero tutte storie inventate per terrorizzare i bambini e fare in modo che rientrassero a casa prima del buio.
Quando avevo chiesto alla mia Mamma cosa c’era oltre il mare di Port de Bouc, lei mi aveva risposto che c’erano l’Africa e l’Arabia; quindi, collegando l’uomo del pappagallo, la nave e i miei rapitori che parlavano Arabo, realizzai che mi stavano portando in Africa e che non avrei mai più rivisto la mia famiglia.
Non so per quanto tempo piansi e non ricordo nemmeno esattamente quali pensieri disperati mi passarono per la testa durante quelle ore, ma ricordo esattamente la scena di una porta di ferro che si apriva con un gran rumore, la luce intensa del sole e il capitano del peschereccio del porto che correva verso di me sorridendo.
Ricordo che aveva in mano una spranga di ferro che aveva probabilmente usato per forzare la porta della stiva in cui mi trovavo, ma nella mia fantasia l’aveva utilizzata per sopraffare rapitori.
Insieme a lui entrò un poliziotto con il tipico kepì dei flic francesi e capii che ero salvo. Dopo avermi liberato i polsi mi portarono fuori: vidi che la nave era in disuso, ormeggiata su una banchina sulla quale mi aspettava tutto il gruppo dei pescatori e 2 macchine della polizia con i lampeggianti accesi.
Erano quei pescatori che notando tutta la scena del sequestro ebbero la prontezza d’animo di inseguire la Mercedes con una motocicletta e di avvertire la polizia di quanto stava accadendo. Chissà, forse non era la prima volta che avveniva un episodio di questo tipo.
Non vidi più i rapitori e nemmeno la Mercedes, non mi è nemmeno chiaro cosa fosse successo esattamente là fuori, probabilmente erano stati arrestati o erano fuggiti.
Mi riportarono a casa dalla mia Mamma che stranamente mi sembrava calmissima. Ricordo che il capo dei poliziotti volle una descrizione dei rapitori, che io non fui in grado di dare se non che parlavano arabo, vale a dire qualsiasi lingua che io non ero in grado di capire.
Ricordavo solo il tipo con il pappagallo, la Mercedes e la nave, ma presto anche questi 3 elementi sarebbero stati rimossi dalla mia mente per molti anni a venire.
Non venni mai a sapere se i rapitori fossero stati identificati, catturati. Dopo quel giorno in casa non se ne parlò mai più, il fatto è stato rimosso in modo talmente radicale che a volte ho dei dubbi che sia veramente accaduto o se sia stato un brutto incubo.
La cosa certa è che quella sera stessa mia madre disse a mio padre che il piano di restare a vivere in Francia era abbandonato; avrebbe voluto tornare in Germania il prima possibile. Io non ero molto d’accordo: in fondo, tutto sommato, non era successo niente di grave e lì si stava molto bene, ma mia madre aveva già deciso.
Poi una sera, qualche mese dopo, di nuovo in Germania, mia madre disse che se proprio avessimo voluto trasferirci in un posto più caldo le sarebbe piaciuta l’Italia, almeno lì negli anni ’70 non rapivano le persone.
-Fine-
In fondo, niente di grave testo di SkipperMKS