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LA BUFERA
Il nubifragio durava ormai da giorni e ogni individuo doveva fare capo a sé per difendersi o non impazzire di fronte alla prepotenza della natura.
Non c’era posto ove nascondersi, visti gli attacchi continui in ogni direzione; uscire per strada era impossibile, a meno di rischiare la vita.
Qualcuno ci aveva provato e si era visto strappare di dosso i vestiti, tanto da rimanere seminudo, per poi ricoprirsi alla bell’e meglio tramite la carità di vicini già assillati per il poco cibo rimasto.
Il fatto curioso riguardava gli animali: pareva che ogni bestia del circondario, selvaggia o domestica, si fosse radunata, come in una specie di arca, sotto le poderose navate nelle barchesse del signor Durante.
Costui era il padrone di mezzo paese e naturalmente era il più preoccupato: tra i campi che andavano in malora; gli armenti, lasciati a loro stessi, sparpagliati chissà dove e forse perduti per sempre; i gelsi che in lontananza vedeva sbatacchiati e di certo, a breve, sradicati; dal fienile uscivano ventagli di foraggio lucido di pioggia perdendosi verso l’alto cielo plumbeo simili a libellule tardive; frammenti di tegole rimbalzavano rovinando i tetti delle sue case affittate a famiglie sempre in ritardo per la pigione; e, non ultimo, le frisone che muggivano disperate per il latte che induriva le mammelle.
Durante Apporti si vedeva rovinato, carico di debiti e costretto a vendere per poco o nulla l’eredità così faticosamente accumulata dai suoi avi.
Ogni folata del turbine era un prelievo lacerante al suo portafogli; le donne di casa, la moglie, la figlia Giuditta e le due serve, recitavano rosari in continuazione sotto l’enorme tavolo della cucina. Avevano tentato di accendere il fuoco, ma le raffiche impetuose, provenienti dal camino, avevano spento ogni scintilla, diffondendo fumo caliginoso nelle stanze.
Il padrone di casa si muoveva nervoso, fumando sigari a ripetizione, maledicendo la sfortuna e anche innocenti Santi che, a suo dire, non lo proteggevano; anzi, man mano, aumentava le bestemmie verificando la perdurante devastazione.
Persino la campana della chiesa protestava, così sbatacchiata dalla furia tempestosa.
I rintocchi insistevano assordanti e non erano più la voce di Dio, bensì l’inizio dell’apocalisse.
Panni dalle strane forme si aggiravano per la via: parevano scuri fantasmi che fissavano torvi dai vetri delle finestre, già tambureggiate da sprazzi di grandine rabbiosa o dalla pioggia scrosciante, pronti a rapire qualche anima.
Il rumore rintronava in orecchie stanche e vibrava negli stomaci, spremendo le poche energie.
Il buio pesto avvolgeva le forme indistinte di corpi sdraiati dalla paura e intossicati dal sapore gessoso della polvere umida; il vento impetuoso la infiltrava fra i battenti sgangherati, frustati di continuo da foglie che schizzavano veloci come farfalle impazzite morsicate da rami adunchi.
All’improvviso un nitrito straziante percosse i timpani: una prepotente saetta aveva colpito Fulmine, il cavallo di Durante, fuggito dalla stalla.
La vampa avvolse lo sfortunato animale lacerandolo: pezzi di fumante carne bruciata impiastricciavano il selciato e le urla di gente estenuata, per un attimo, superarono il fracasso degli elementi non ancora sazi.
Infine, la quiete giunse sotto forma di onda: un flusso d’acqua impetuoso sommerse l’abitato dirompendo nelle case, ponendo così fine alle sofferenze.
E ogni gemito cessò all’istante.