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Quando il dottor Lorenzo Giacomelli cominciò a studiare il fenomeno, era ancora convinto che si trattasse di un insieme di coincidenze.
Era il 2023 e il flusso di turisti a Firenze era a livelli molto alti: file chilometriche davanti agli Uffizi, piazza della Signoria gremita di persone, un ronzio costante di lingue da ogni parte del mondo. Un laboratorio ricco di spunti, per psicologi dell’arte.
Ma quello che Giacomelli e la sua equipe notarono in una manciata di casi selezionati non era la classica Sindrome di Stendhal, quel turbine emotivo che, dalla fine dell’Ottocento, aveva dato nome ai crolli emotivi davanti a troppa bellezza. Non si trattava di lacrime, tremiti o svenimenti. Era qualcosa di più silenzioso, più perturbante: una perdita improvvisa e totale di interesse per l’arte stessa.
Il primo caso documentato fu quello di Daniel K., 38 anni, proveniente da Charleston, South Carolina.
La sua testimonianza è riportata negli archivi clinici di Careggi e Giacomelli la cita spesso nelle sue conferenze.
“Sono entrato agli Uffizi pieno di aspettative — racconta nel suo diario clinico — volevo vedere Botticelli, Leonardo, Caravaggio.
Le prime sale erano splendide, certo, ma dopo pochi minuti…è come se qualcosa si fosse spento. Non mi dicevano più niente. Non solo quelle opere: nessuna opera d’arte mi diceva più nulla. Uscito dal museo, ho provato ad andare a vedere il Duomo, la cupola del Brunelleschi. Niente. Come guardare un supermercato.”
La sensazione durò esattamente ventidue giorni. Daniel, tornato negli Stati Uniti, non riuscì a godersi neppure le sue collezioni di stampe, né i film d’autore che amava. Solo dopo tre settimane, una sera, improvvisamente, piangendo davanti a un vecchio dipinto di Hopper, sentì la bellezza tornare a vivere.
Giacomelli aveva una formazione ibrida: psichiatra e storico dell’arte. Il fenomeno lo intrigò al punto che cominciò a raccogliere sistematicamente testimonianze simili.
In meno di un anno aveva schedato ventisette casi: turisti americani, giapponesi, francesi, anche un paio di fiorentini di ritorno da visite guidate scolastiche.
Il pattern era sorprendente:
Onset (esordio): sempre durante la visita agli Uffizi o alla Cappella Brancacci.
Sintomi: totale assenza di risposta estetica; alcuni parlavano di “cecità emotiva”.
Durata media: da 10 a 45 giorni.
Risoluzione: spontanea, improvvisa, senza intervento terapeutico.
L’ipotesi iniziale era di un fenomeno dissociativo da saturazione estetica: troppa bellezza concentrata, che porta il cervello a proteggersi disattivando il circuito del piacere estetico. Ma qualcosa non tornava: diversi pazienti riferivano di aver visto solo poche sale prima di avvertire il sintomo.
Una sera, Giacomelli incontrò uno dei casi più misteriosi: Anna, una giovane studentessa svedese.
Si trovarono in un bar vicino a Piazza Santo Spirito. Anna parlava un ottimo italiano e accettò di essere registrata.
“Non è che non vedevo più la bellezza — spiegò — è che mi faceva paura.
Non paura come per un film horror…più come una vertigine. Guardavo i dipinti e li vedevo finti, come se fossero stati messi lì per prendermi in giro. È difficile da spiegare.”
Quando Giacomelli le chiese se avesse avuto altri sintomi neurologici, Anna esitò.
“Ho fatto un sogno ricorrente per due settimane. Sempre lo stesso: ero sola agli Uffizi, ma le sale erano infinite, senza uscita. I quadri mi seguivano con lo sguardo.”
Questa componente onirica iniziò a emergere anche in altri pazienti: sogni, allucinazioni lievi, una sensazione di “teatro”.
Un giorno, mentre rivedeva la mappa degli Uffizi, Giacomelli notò che quasi tutti i casi si concentravano in un particolare corridoio: quello dove sono esposte le opere del primo Rinascimento.
Un’area in cui le prospettive sono sperimentali, i volti ieratici, i colori ancora innaturalmente brillanti.
Che ci fosse qualcosa, in quelle geometrie, capace di generare uno stato ipnotico inverso?
Gli venne in mente la ricerca di alcuni neuroestetici tedeschi: certe forme e pattern possono sovrastimolare la corteccia visiva, portando a un “reset” percettivo.
Per verificare l’ipotesi, organizzò un esperimento pilota: fece entrare dieci volontari in quelle sale, monitorando i loro parametri fisiologici.
Dopo venti minuti, tre di loro riportarono una sensazione di “nausea estetica” e uno si rifiutò di proseguire.
Ma fu l’undicesimo caso a segnare la svolta.
Un uomo di mezza età, nome in codice “C.”, insegnante di storia dell’arte, subì l’effetto in forma acuta.
Non solo perse ogni interesse per l’arte: cominciò a provare disgusto per qualsiasi oggetto artistico, arrivando a coprire con delle lenzuola i quadri di casa.
Durante una sessione clinica, disse una frase che Giacomelli non dimenticò mai:
“Non capite? Quelle opere non ci guardano. Ci attraversano. È come se ci svuotassero.”
Due giorni dopo, C. sparì.
L’ultima volta che fu visto, era entrato di notte nel cortile degli Uffizi. Le telecamere lo ripresero fermo, immobile, davanti alla “Primavera” di Botticelli, per sei ore consecutive. Poi uscì senza che nessuno lo fermasse.
Non fu mai più rintracciato.
Il caso scosse profondamente Giacomelli.
Cominciò a vedere Firenze con occhi diversi: le geometrie perfette delle piazze gli sembravano congegni.
La cupola di Brunelleschi, con la sua doppia calotta, gli pareva una trappola matematica.
La città intera appariva come un labirinto progettato non solo per mostrare bellezza, ma per contenerla, dosarla, forse manipolarla.
Un’idea folle, certo, ma sempre più difficile da ignorare.
E qualcosa stava accadendo in lui.
Nell’autunno del 2024, Giacomelli fu invitato a presentare i suoi risultati a un congresso internazionale di neuropsichiatria.
Preparò una relazione impeccabile, ma durante la conferenza accadde qualcosa di strano.
Quando mostrò le diapositive con i dipinti del corridoio incriminato, una donna in prima fila cominciò a tremare, poi si accasciò a terra.
Altri due spettatori uscirono dalla sala con il volto pallido.
Era come se la sola proiezione digitale di quelle immagini avesse un potere innescante.
La conferenza fu sospesa. I giornali parlarono di psicosi collettiva.
Oggi, nel 2025, il dossier di Giacomelli è chiuso in un archivio dell’ASL, classificato come “ricerca sospesa”.
Ufficialmente, la “Sindrome di Stendhal Inversa” non esiste come diagnosi.
Eppure, voci non confermate parlano di nuovi casi, persino di gruppi di turisti che richiedono tour “terapeutici” per indurre la temporanea anestesia estetica, come forma estrema di meditazione.
Giacomelli, nel frattempo, è stato dimesso dall’ospedale.
Lo si vede a volte, di sera, camminare in Piazza della Signoria, fermo davanti al Perseo di Cellini.
Osserva la statua per ore, immobile, con lo stesso sguardo assente di C.
Nessuno sa se la sua capacità di provare meraviglia sia tornata.
O se, forse, Firenze lo abbia svuotato del tutto, lasciandolo in uno stato che non è malattia, né guarigione, ma silenzio.