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«Ci vediamo domani!»
Con un saluto della mano, mi congedai dalle mie amiche per correre alla fermata del bus. Temevo di perderlo. Certo, ce ne sarebbero stati altri. Ma sugli altri non ci sarebbe stato lui.
Lo conobbi qualche settimana prima proprio mentre attendevo il 33, direzione porta Saragozza.
«Vai ad ingegneria anche tu?» Mi chiese un pomeriggio.
«Io?» Domandai sconcertata guardandolo per la prima volta in quegli occhi verdi.
«Assolutamente no. Io vado ancora alle superiori!» La sua faccia si fece sorpresa. Era la prima volta che mi rivolgeva la parola.
«Wow. Scusami allora.»
Non capivo di cosa si stesse scusando, ma evitai di chiedere.
L'autobus ancora non arrivava.
«Quindi...quanti anni hai scusa?» Non resisté a chiedere.
«16» risposi.
«Mmm» mugugnò pensieroso.
«Tu? Se posso?»
«22.»
«Come mio fratello! Anche lui fa ingegneria!»
«Ah, ecco. Magari lo conosco pure.» Mormorò leggermente divertito.
Nel frattempo vedemmo il 33 arrivare. Io salii davanti e lui dietro. Ma da quel giorno, ogni martedì e venerdì, giorni in cui invece di andare dritta in stazione, andavo in palestra, lo incontravo alla fermata con il cuore in gola.
Era un giovedì, il mio giorno preferito in quanto avevo disegno professionale.
Mentre ascoltavo la prof spigare come impostare il disegno di un figurino, un bigliettino raggiunse il mio banco.
"Sei pronta per il tuo incontro bi-settimanale???"
Marta, la mia migliore amica, mi guardava dall’altro lato della classe con sorriso complice.
Presi il foglietto e risposi sul retro.
"Spero di parlarci ancora!"
Poi lo passai alla mia vicina di banco fino a farlo arrivare a lei. Lo aprì ed incrociò le dita per me.
Appena suonò la campanella mi precipitai fuori dall’aula e corsi dall’altro lato della strada, assicurandomi che non mi investissero.
Lo vidi correre a sua volta verso la fermata, rallentando quando s’accorse della mia presenza, quasi a non voler dare a vedere che aveva fretta di arrivare.
«Ehi!» Mi salutò con la mano.
«Ciao! Respira! L’autobus non è ancora passato.» Lo canzonai.
Sorrise.
«Senti ma», iniziammo allo stesso tempo. Ci guardammo e scoppiammo a ridere.
«Prima le signore.» Acconsentì.
«Ok. Ecco, ci vediamo ormai da settimane e non so ancora come ti chiami.»
«Era esattamente quello che stavo per dire io. Piacere Marco.» E allungò la mano verso di me. La presi e svelai:
«Fede.»
Nel frattempo vidi il 33 approcciarsi al marciapiede e, d’istinto, lo strattonai per allontanarlo dal ciglio.
«Grazie!» Disse lui sorpreso. «Mi hai quasi salvato la vita!»
Sghignazzai di nuovo.
Questa volta salimmo dalla stessa porta, quella sul retro. Lui si appoggiò ad un vetro, ed io, in mezzo al corridoio, presi una delle maniglie in alto per tenermi.
«Sei di Bologna?» Mi chiese con accento tutt’altro che Romagnolo.
«Io no, anche se sono nata non molto lontano da qui. Tu? Direi sud Italia ma non saprei di dove di preciso.»
«Hai orecchio. Termoli, Molise.» Precisò. Poi si espose:
«Pensavo, se ti va, visto che il tragitto che condividiamo è piuttosto corto, ti andrebbe di scambiarci i numeri? Magari potremmo incontrarci per un gelato.»
La proposta mi allettò moltissimo. Pensai però ad Andrea, il mio pseudo-ragazzo. Pseudo perché non era proprio presente nella mia vita come avrei desiderato. Ormai ci frequentavamo da tre anni. Ero ancora alle medie quando lo conobbi ed iniziammo ad uscire insieme quasi subito.
Era molto diverso da Marco. Era alto, con i capelli un po’ lunghi, l’orecchino, e vestiva in modo piuttosto informale.
Il ragazzo dell’autobus invece era sempre impeccabilmente in jeans attillati e Nike bianche, pulitissime. Portava anche giubbotti piuttosto alla moda e, come zaino, aveva un Eastpack, marca che Andrea odiava dal profondo, affezionato al suo Invicta distrutto.
Eppure aveva qualcosa che Andrea non mostrava: interesse nel vedermi.
«Con piacere. Scrivi tu e dopo mi fai uno squillo ok?»
Presi a dettargli le dieci cifre, una dopo l’altra, sentendo che ognuna, era un passo che mi allontanava dal mio fidanzatino.
Arrivammo alla fermata di Porta Saragozza.
«Ci sentiamo dopo allora!» Disse mentre si preparava a scendere.
Le porte si aprirono e, mentre ci salutavamo, l’autobus si svuotò, lasciando me e quei pochi che avrebbero proseguito la loro corsa verso le fermate successive. La mia era Porta San Mamolo.