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Lettera da un tempo che non è il tuo
Cara nonna,
ti scrivo da un anno che porta il numero venti
venti e cinque,
un anno che avrebbe dovuto essere luce
e invece è un lume spento dentro casa.
Il rumore è cresciuto,
non di macchine o di voci in strada,
ma di un silenzio che urla dentro le stanze.
La fame non è più solo di pane:
è fame di toccarsi, di guardarsi negli occhi
senza vetro di mezzo.
Ridiamo forte nelle fotografie,
ma il riso resta lì, appeso,
non arriva alla gola.
Le mani stringono rettangoli luminosi
come bambini stringevano bambole di pezza;
solo che queste bambole parlano sempre
e non abbracciano mai.
Le parole viaggiano veloci,
ma arrivano morte:
tutto bene?
“sì”
e il sì è una bugia che pesa tonnellate.
Soffiamo di mali nuovi,
che hanno nomi stranieri
e paure antiche.
Il diverso spaventa ancora,
come spaventava quando tu eri ragazza,
solo che adesso lo gridiamo
in lettere maiuscole,
da schermi grandi come pareti.
Odiamo chi prega diverso,
chi ama diverso,
chi ha la pelle di un altro colore
o il ricordo di un altro dolore.
Ci chiudiamo le porte in faccia
e poi ci lamentiamo del freddo.
Nonna,
il futuro che sognavi pieno di ponti
è diventato un labirinto di muri invisibili.
Siamo tutti vicini,
e mai così soli.
Se puoi,
mandami un po’ di quel vento
che entrava dalla tua finestra aperta
quando il mondo era più piccolo
e forse, per questo, più grande.
Tuo,
da un secolo che non sa più abbracciare.