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(Il tempo scorreva inesorabile, rapido, ineluttabile, ed io l’osservavo fluire da dietro le persiane chiuse, quante notti insonni, fumo di Marlboro, verso una direzione che non poteva conoscere soste.
Il senso ormai muto e perduto delle mie parole stava – forse - nel desiderio interminabile di fuga, di delirio ad occhi aperti, e nell’allucinazione che sempre più velocemente, distorta, correva nel filo della vita.
Avevo anch’io il morbo, e non m’interessava più nulla ormai.
Non c’era spazio per immaginare alcun futuro, né ripensarsi come un mosaico d’immagini in cui il passato diveniva un cut - up violento e rigoglioso, istantaneamente: solo lì poteva trovarsi il germe che avrebbe definito l’orizzonte, dove poter ritrovare la quiete dentro la catastrofe.
Fuggire lontano, via dal labirinto costruitosi tutt’intorno, una rete fittissima di sequenze senza respiro, e di cui sentivo solo il peso opprimente addosso. Finanche ridefinire se stessi attraverso la follia, che forse sarebbe stato l’ultimo momento di verità informe da rapinare.
Ci sarebbero volute le note di settima ed un pianoforte nascosto tra il fumo e lo slang del blues.
Già, la musica, apriva varchi nella testa e nel corpo, faceva vibrare piangere emozionare riempiendomi di dolore.
E forse era ciò che volevamo baby, niente di più.
A New Orleans avrei visto negli anni a venire sotto casa jazzisti di sedici anni suonare per ore senza fermarsi grazie alle anfe, a Torino invece sotto i lampioni avevo le picie che si bucavano per una dose, nell’indifferenza dell’andirivieni di via Nizza.
Era l’83 credo, non un gran bell’anno devo dire, mangiavo poco e male, schifose scatolette di tonno marcio e avanzi della mensa, scopavo con Jackie, una ventenne che batteva marchette a San Salvario, io ne avevo solo due di più.
Producevo di tanto in tanto dischi dark e new wave di gruppi misconosciuti che avrebbero fatto successo trent’anni dopo, gli Antares, i Novofaz, Sestrier&The Colonnels, fuori la neve attaccava rapidamente, ed era quasi arrivato Babbo Natale dalle mie parti.
Ascoltavo in loop Siouxsie, Joy Division, Sex Pistols, Johnny Thunders, il Miles Davis di Ascenseur pour l’echafaud, e guardavo film come “La lunga notte del ‘43”, il resto del tempo mi facevo di pillole per dormire.
Scrissi “Ad un passo dalla pioggia” in quei giorni.)
Ad un passo dalla pioggia
E dall’orgia del sapere
Davanti all’arco della vita
C’era un sordo rintocco d’amarezza
Affamata – distratta – sintetica
L’incedere notturno placava la sete per un attimo
Ricacciandola in un groviglio senza fine
- La morte pudica sudata attendeva proprio lì
Jackie passava di fianco i cinema spenti a quell’ora
Lampioni e schizzi di sangue e vetro dappertutto
Bar e serrande arrugginite
Agonizzanti pubblicità della Standa
Neon ad intermittenza sfocati
Vene di amici bruciate nell’ero
Cucine componibili e letti a castello in vetrina
Eccovi il fottuto piano - stronzi
Mangiare pregare e pagare le tasse
Heather Parisi a pranzo ed i figli rincoglioniti la sera
Tv droghe alcool consumi anestetici e antidepressivi
L’avete creato voi tutto questo
Compiacetevi
Abat-jour e moquette in locali fumosi
Poi Jackie s’infilava con le gambe nodose
Nelle strade strette e forgiate d’avorio
A caccia di merda zuccherata e acqua pulita
E poi fino al dodicesimo
Silenziosa nell’ascensore
Una MS in bocca e un battito in testa
Gocce di rossetto sfiammato e lavato
-una squallida routine da mignotta tossica pensava
Un cliente due clienti tre clienti – insieme
Rimanevano incrostati sugli scalini
Gli odori di sperma ed i preservativi usati
Baby, era una casa di San Salvario
Cortili dai culi tondi
La neve intonsa affrescava le pareti
Androni con le scritte capovolte
Dialetti mischiati in un fottuto parlottare
Jackie tornava sempre a casa sui tacchi
I suoi tre figli dormivano tiepidi sogni tra le lenzuola
Fuori le reclame di Natale
Prendi tre paghi uno
Jackie non distingueva più nulla
La malattia sua mentale non esisteva
Nelle forme vegliate
Era una lenta discesa incauta
Era il prezzo da pagare
Per non fermarsi
correva più forte dei sogni
Guardava la neve da dietro la tenda
I carillon – le bambole – il languore dell’infanzia
Al dodicesimo non c’era nient’altro
Le stanze bui tormenti imperdonabili
Calze strappate in un cielo a scacchi
Pensava si potesse tornare indietro
Far le carte di nuovo in via Garibaldi
E strappare le pagine del diario
Una ad una fino all’ultima scritta il giorno prima
Mentre il suo uomo era sottoterra sparato
Da cinque anni
Crivellato in un bar della Barriera per un conto aperto
La voce agonizzante sul pavimento
Quando arrivò la proprietaria a raccoglierlo
I capelli erano fradici insanguinati bucati
Il cronista scattava foto da prima pagina
Lo sbirro parlava di tragico evento
L’attendeva sull’uscio il sarcofago nero di Majakovskij
I piedi ficcati nel cemento
Un volo pietrificato nei peccati
Jackie salutava la notte affannata
Con gli ingorghi pieni di luce
Le sirene affacciate sui viali
E aveva paura di star da sola
Si scaldava col whisky
Ai clienti non piaceva la puzza d’alcool
Volevano ficcare tutto dentro forte
Pensava che in fondo non era male la vita
La pioggia accendeva fuochi e luci
Le macchine sfrecciavano vuote e silenziose
avevano il freddo sui fianchi anche loro
Le cinquecento e le alfette sgommavano nella polvere
Le targhe avevano numeri sconosciuti
I sedili erano caldi e sporchi di fumo
Le foto del paese dentro al portafoglio
La febbre in spalla
Jackie aveva sul comodino
Bessie Smith Robert Johnson James Booker John Mayall
Ed il nero suo sopra i dischi
Raccontava la follia nuda.