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se avessi dita divine
strapperei la realtà come un lenzuolo sudato
e ci farei un palco
dove dirigerei la vita col braccio alzato,
lo spinello tra le labbra,
la grazia di una fata tossica
e l’odio metodico di un dio in astinenza.
spine d’aria
che si annodano tra le ossa del piano
e le tue dita si aggrappano ai tasti
come se lì ci fosse salvezza
dove invece io muoio, ma non di invidia:
di fame,
di mancanza,
di quel tocco che concedi agli oggetti
e neghi agli altri.
tu non mi vedi.
tu non mi vedrai.
se anche sollevassi lo sguardo,
il mio volto si sarebbe già disfatto,
nudo, pietoso,
fumo rappreso in un vuoto senza musica.
perché chi pretende d’essere visto
è già scomparso,
e chi vuole includere gli altri
merita l’esclusione.
la vita non si dirige…
si subisce.
come l’umiliazione.