Volgare Monologo D'un Dramma Amoroso

scritto da Domenico De Ferraro
Scritto 8 anni fa • Pubblicato 8 anni fa • Revisionato 8 anni fa
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Autore del testo Domenico De Ferraro

Testo: Volgare Monologo D'un Dramma Amoroso
di Domenico De Ferraro



VOLGARE MONOLOGO D’UN DRAMMA AMOROSO

DI DOMENICO DE FERRARO



Ho sempre amato il teatro, mi piace scrivere brevi commedie, canovacci senza tiempo , recitati di bocca in bocca tra la gente allegra, spensierata , mi piace scrivere di come l’ommo addiventa pecora , ciuccio , albero di primavera fiorito nell’attimo di una creazione sequenziale nell’essenza di mille scene , mi piace recitare a soggetto andare in fondo all’animo degli uomini , fin dove la sorte ci porta ad essere quello che siamo , oltre ogni nostra comprensione , come un treno che corre , trase dentro una tragica scena ove vi escono fuori i tanti personaggi che abbiamo creati , abbiamo animati in un attimo di pura follia . A volte ho provato a comprendere chi fossero i tanti personaggi, immaginari, creati dal nulla , chi fossero quelle strane figure che lasse , prendono vita nella mia mente e nella mesta fortuna o sfortuna , nella morte che passa e ti prende per mano ti conduce intorno ad un incredibile azione drammatica , provare a capire o credere , chi siamo noi rinchiusi in quella forma , nata dalla melma sociale, con quell’aspetto cruciale in quel gioco di parti che tragicamente rappresentiamo .

Scinne sempre à coppe alle nuvole, briacone ti sei fatto chiatto e brutto.

Con chi c’è l’hai ? mò ti sputo addosso.
Io ti piscio in faccia, scorreggia, puzzolente, figlio di una zoccola dei quartieri spagnoli , che se va a spasso per vicoli con la sua pelliccia ecologica addosso. Zoccola e zucculoni , piene di peli neri come lo gravone , dagli occhi azzurri come lo mare dai capelli jonni e fini , tricciati di rose di spine, zoccola che gli piace zucare lo pesce.

Mò che t’avesse fa , t’avesse pigliare a pacchere , buttarti dentro a questo letamaio , ove la morte diventa l’orrore che tu generi nel dire frasi scurrili.

Tu non capisce io vivo nella forma che tu mi dai.
Io non dono nulla ,creo te stesso nella similitudine dell’atto io sono in te ,come io sono in me.

Ma fammi ò piacere, valle a piglia culo tu e chi sei , non sei bona , nun servi a niente, ti crei di d’essere chi sa chi ,ma nu sei nisciuno.

Tu vuoi morire marrano , nel verbo che genera parole senza tempo nell’errore commesso , tu misera maschera che si muove sul palco.

Ma falle finito, culo rutto , culo de gallina, maccarone schiacciato, ciuccia dalla coda fradicia, pelle di zoccola morta accise sotto una caretta.

lo sono un personaggio irreale , gioia della gente , espressione di volti e passioni .

Accidenti ti se imparato bene la parte, ti credi che io non so della speranza che infondi , di come l’uomo e la sua maschera prendono vita su questo palco.

Sono nato in un vico fetente, addò nun se sentivo nu filo di vento, con una voglia de sfunnà lo culo alla gente, con una febbre che ti sale chiano, chiano dall’anima che t’arriva cape e nu te fa pensa che è vano vivere nello sterco dello muorto accise, son nato miezzo ad una piazza con lo mucco allo naso, lasciato solo a combattente chesta sciorta che scoppia all’intrasatte nello scorrere del tempo che diventa spesso nu sciore folle, nu sciore scuntruso.

Se fossi nato a Milano avresti avuto tanto successo ti avesse fatto un monumento simile ad un cesso d’oro miezzo alla casa, tutto per te, t’avesse chiamato signore, ommo che tenne la mazza sempre all’erta, t’avessero chiamato professore , poi t’avessero fatto recitare a soggetto, la tua misera storia.

Che tristezza , lo munno nun tenne rispetto per i morti come nun tene rispetto per li vivi, per tutti coloro che credono che la vita possa essere da un momento all’altro una bella giornata di sole, paradossalmente simile ad una chiavata miezzo all’erba profumata , miezzo ad un prato dove li guaglioni , giocano a pallone.

Anche se sei bravo rimani ad essere uno stronzo che rappresenta se stesso , continui a dimostrare di non essere ciò che sei , un buffone, nu pagliaccio, nu ciuccio che tenne li recchie lunghe , lunghe , che sopra un cammello se ne vai in giro per lo deserto , gridando chi beve , l’acqua è fresca .

Il sipario si apre , quanta gente c’è stasera ed io preparo disegni , scene surreali , preparo giochi di luci e nella bellezza di un atto unico, la scena insegue altre sequenze nel moto infinito dello spirito di una città che si esalta in mitiche canzoni sfocia in questo teatro ove in migliaia, entrano con i loro problemi , con i loro dubbi, con l’amore che la morta età dona nel senso di poter rinascere dentro le spoglie di codesti personaggi , nati nelle parole azzeccose che escono dalla bocca degli attori.

Preparo forme , costumi è non ho paura di diventare questo o quella figura teatrale che si muove tra la folla e genera uno strano senso una strana inquietudine.

Figlio di zoccola te scanne , se non mi dici chi sei , figlio di una latrina , puzzi di merda, schifoso scarafone chi ti ha detto di parlare male di me alla gente , chi ti ha detto che lo pilo dello culo e ianca quando potrebbe essere russo, pilo che odora di morte che tu continui a tirare da dentro questo deretano con la forza dell’amore.

Io provo orrore in quello che dici, tengo paura che tu m’accide, mi violenti, me scanne come hai fatto con tutte l’altre io ti volevo essere amica , volevo sentirti e portarti sopra ad un monte di rose , miezzo allo cielo e tra la morte e la vita , avrei voluto raccontarti la mia strana storia . Della mia vita ai margini della possibilità di riscatto sociale.

Figlio di zoccola , bocca sacrilega che di legge non genera ammore e compassione ma sulo iastemme, ti sputo in faccia, zoccola maledetta.

Perché credi che si m’accide , cambia qualcosa , cambia chisto munno , chesta vita e sfaccimme che nun tenne scuorno di correre, appriesse ai guappi come e te.
Tu nun mi vuoi capire, tu nun sai cosa significa subire vessazioni degli altri , maledizioni , zizze toste come o ghiummo che te ballano innanzi agli occhi , tu nun sai che la morte se fotte a vita dentro ad uno sgabuzzino stritto e scuro ,che s’ arricrea poi te sfotte , te ridere adderente alle spalle , te spara miezzo alle palle, con ch’ella faccia e cazzo che tene.

Piglia sciato nun te fa ò sanghe amaro , tutto può essere come nu pireto che nun addore de mariarosa, nu pireto che se sente sulitario durante la notte, che esplode miezzo alla gente , che quando se scete spalanca le braccia te fa sentì allegro te chiama : guagliò facite appresse venitevi a piglià , una tazza di caffè.

Cosi invento i mei drammi , nell’ amore che mai conquistai nell’amore di morte stagione che ho vissuto con ardore con la speranza, nella bellezza sopita , nell’incanto di un verso che ruota intorno ad una morale e la vita ti chiama, ti veste da re da cafone , si mette lo capello in testa e sopra il palco recita la sua triste storia , la sua leggenda, la sua morte , la sua resurrezione. E stasera c’è tanta gente in sala , signore agghindata che non hanno mutande di pizzo, signorine legate a passioni senili , voci innocenti nel canto di una città che si desta all’alba e muore con la sua voglia di vivere l’indomani con sorriso . Scorre questo sangue dentro le vene, scorre assieme alla sfaccima di chi te vive, nella sorte altrui , nella triste storia d’ognuno , che non ha senso nell’ordine delle cose che conduce a forgiare forme amorfe che hanno aspetto indegno , poca comprensione per chi siamo, per cosa potremmo essere.
Tu nun hai mai capito niente sangue di topo, t’avesse voluto scannare adderente a quel vico , dove la prima volta ti vidi e mostravi la fessa da fora e mi chiamavi ammore , viene che te la faccia provare per senza niente , ed io strunzo appriesse a te gioivo e ti montava adderete, t’afferavo per la capa , mi grogiolavo, sullacchero, tenevo lo preservativo chiuso dentro lo portafoglio, mi facevo uno spinello e nu bicchiere di vino e nu mi fregava di niente fino a morire di subito , perché sapevo che t’avesse scannate prima dello tiempo come una vacca che va a macello , avrei fatto scorrere lo sangue tuo dentro una bacinella e poi mi sarei dissetato di tutto la sete che avevo in corpo.

Mi hai fatto accusi male che non sai quando ho sofferto quanto mi sono montate le cervella che sono sagliuto in cielo come un angelo come una carogna ho cantato chesta canzone infernale.

Avrei fatto buono a non darti confidenza, miezzo ricchione, miezzo a tanti problemi di questa vita infame che non giunge da nisciuna parte , miezzo a questi palazzi neri , alti , attaccati l’uno agli altri fino all’infinito di una strada che non conduce in paradiso.

Un altro giorno e passato in tanti sono venuti a teatro ci hanno applaudito , sono venuti con la loro storia umana con il loro amore e tutti hanno sorriso, forse compreso, tutti si sono divertiti , chi ha gridato faccela vedere alle soubrette , chi se messo in posa , chi dice di non sapere cosa succederà in questa guerra di nervi , dopo che un carro armato ha percorso questa città ed esploso il suo colpo di cannone e tutti i guaglioni con lo cazone rotto si sono fatti avanti per catturare il soldato che ha ucciso la signorina di via dei mille, che ha sputato nel mare dell’infanzia, che se messo da parte lontano dal male , che ha fatto l’amore con titina di coppe li quartiere ed è stato assai contento di godere , che ha scritto alla sorella che abita in America una lettera di amore, fatta di belle parole descrivendo le meraviglie di questa città, la sorte di milioni di persone che saltano la fila che fanno marameo poi ti invitano a casa loro a prendere nù poco di rosolio . E il soldato conosceva il nemico , conosceva la sorte, sapeva che l’amore viene una volta sola , viene a cavallo come un imperatore con tanto di pennacchio in testa e vincitore va spasso con la sua bella e mostra di essere un eroe nei suoi errori , da vero soldato di valore.

Ora la scena cupa si allarga ed uno spettatore si caca sotto ha un attacco di panico che dobbiamo chiamare un autombulanza del pronto soccorso.
Facce di scarafone con questi baffi da topo muschiato occhi piccirilli come una capocchia di spillo che mi guardano mi seguono attraverso i viaggi d’ Ulisse attraverso il vasto mondo della conoscenza .

Conosci figlio di trocchia, paposcia che nun s’ammosce e nun capisce che cresce e s’allisce che scema miezzo a questo tormento, dentro a chesta passione insana. Avrei fatto buono a sbatterti la porta in faccia a te alla sorte che ti ha condotto a me e forse non t’ avrei più chiamato zoccola, zucca pesce , che porta seco sempre tanta gente strana in casa , che nell’aria primaverile per rime ermetiche diventa infetta.

Ma tu che ne sai della bellezza ? tu non capisce niente ,non hai cognizione del caso, ne principi , ne morali ed elevi il vano dire a iperboliche scene che si scindono in atti osceni che esulano da ogni compressione, non fu io a costringerti ad uscire fuori dal sacco ad ammirare cosa la vita ti poteva offrire, cosa questa storia ci avrebbe condotto ad essere , personaggi ed interpreti di un monologo volgare e surreale , narrato lungo un ora e forse più che si dipana in forme leggiadre in racconti meravigliosi e nel tempo di nostra vita si fa gaio , tanto bello che la morte sfugge al senso di una frase detta , scema nel soffio di un vento che passa e scompiglia le misere figure che si muovono sul palco, con il peso del loro essere, io vado avanti e provo a correggere torti ed errori commessi a riscrivere l’impossibile , la beata illusione di una scena che culmina nella eterna bellezza di cosa siamo di cosa avremmo potuto essere e nella ricerca di cosa saremo domani , nell’ istante di un tempo che ci trasforma nella forma fisica che spergiura e giunge alla sommità di una conoscenza irreale, viaggiamo sopra il dorso dei gabbiani voliamo nell’aria estiva , perduti in slanci creativi che si sommano nella speranza di un eterno credere. Cosa avremmo rappresentato alla fine di questo dramma lirico di questo buffo melodramma , sceneggiata guappesca tra una misera cacata e l’altra , fatta all’aria aperta, sotto un sole che brucia il cervello. Brucia questa vita, brucia il concetto espresso , il senso di cosa andremo di nuovo ad interpretare e tutto si svolge di scena in scena , prende vita la forma et la sostanza nella follia dell’essere e del rappresentare si adduce ad altre elucubrazioni ad altre stronzate e tutto potrebbe essere vero , tutto potrebbe sfuggire alle regole prefisse.

Ora vivere è rappresentare questa maschera, questa forma lassa che prende forma dal nulla che esprime il suo essere e la sua rabbia di uomo o donna che lotta che crede, che cresce , che scema nella scena prefissa che finge di non credere ciò che si è che finge di non voler capire che siamo alfine noi quella maschera, l’orrore che rappresenta, che prende corpo dalle nostre parole ed oltre ogni comprensione o rappresentazione , esplode in noi il bisogno di credere in una possibilità di essere migliori.
Nella volontà di continuare a sperare che nuovi giorni verranno , con il vento mite della primavera , con le voci della città che si sveglia e sale verso il pio monte della misericordia , in un lasso di tempo che non attende nessuno tra la folla che grida al miracolo nell’ora più bella che esplode in altre dimensioni, in discorsi senza senso, fiori di nostro intelletto, fiore appassito sul mio davanzale , mia disgrazia , mia giovinezza mio eterno amore, mia speranza , mia sofferenza di giorni volati via , nel rincorrere meste figure, forme di personaggi assurdi che prendono vita nell’incanto del nostro dolce insano divenire.
Volgare Monologo D'un Dramma Amoroso testo di Domenico De Ferraro
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