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NEI FIORI DI CILIEGIO
Cos’è che non va nell’animo umano quando si sceglie la guerra e non la pace? Cosa accade all’interno di chi è in grado di uccidere un uomo? Perché ancora non è l’amore a salvare il mondo?
Me lo chiedevo tutte le sere prima di andare a dormire, nel mio letto spoglio, freddo, senza materasso e senza coperte che potessero riscaldare la mia solitudine.
1942. Eravamo nel 1942 e non avevamo imparato nulla dalla Grande Guerra. L’uomo ancora odiava, ancora uccideva, più di prima, con maggiore crudeltà.
Ogni sera pensavo quale poteva mai essere il motivo che spingeva i tedeschi ad odiare così tanto noi ebrei. L’unica spiegazione che riuscivo a darmi era che forse avevano paura di noi, popolo ricco e scelto da Dio. In fin dei conti, i bulli compiono atti spregevoli perché si sentono inferiori a colui che torturano.
Mi giravo e mi rigiravo nel letto. Consapevole dell’inferno che avrei nuovamente dovuto sopportare il giorno seguente. Ma ciò che mi procurava più dolore era la lontananza dal mio amato Emanuel.
Ripetere il suo nome nella testa era di conforto. Emanuel = Dio è con noi. Me lo ripetevo in ogni momento della giornata. Avevo perso tutto, la famiglia, il lavoro, le amiche, ma non la fede e neanche l’amore profondo che mi collegava all’anima del mio amato.
Lui è stato trasportato ad Auschwitz prima di me. E’ successo di notte: eravamo da poco andati a dormire. Eravamo sposati già da qualche anno, ma ancora, la sera, mettermi tra le sue braccia mi faceva sentire protetta; ero l’unico posto al mondo in cui mi sentivo sicura.
Girava voce che i campi di lavoro, in cui la maggioranza di noi ebrei veniva deportata, non erano più dei semplici campi di lavoro. Dicevano che le persone, da lì, non tornavano. Io non so se ci ho mai creduto; la mia vita, in fin dei conti, non era proprio male. Si, è vero, noi ebrei stavamo subendo delle discriminazioni abbastanza gravi: nella nostra libreria, ormai, entrava poca gente; però riuscivamo ancora a sorridere, tutto sommato, e a vivere il nostro Grande Amore.
Quella notte, invece, ho provato sulla mia pelle cosa significa avere paura di perdere la vita.
Avevo appena preso sonno quando un forte rumore mi fece sobbalzare. Non capii subito, poi, però, sentì che il rumore che mi aveva spaventata erano le nocche di qualcuno che bussava alla nostra porta di casa…sempre più forti…sempre più insistenti.
Emanuel si alzò ad aprire, io rimasi a letto. Ma lui, in quel letto, non ci è mai più tornato.
Lo sentivo urlare e allontanarsi: ‘’Tranquilla, amore mio. Tornerò da te. Tu non fare nulla! Non alzarti Aliyah!’’
Io non so perché non hanno preso anche me quella notte, ma non fui risparmiata a lungo.
Ed eccomi oggi, in questo freddo marzo del 1942, a contare da quanti giorni siamo separati.
Ricordare la nostra vita insieme era l’unica cosa che mi teneva ancora in vita: ricordavo le passeggiate in riva al mare, sotto il sole cocente dell’estate, la sua pelle ambrata dal profumo di sale; ricordo quando al mattino, aprendo la finestra nei mesi primaverili, prendevamo insieme il caffè, ammirando il nostro giardino in fiore: un albero in particolare abitava un posto speciale del nostro cuore, l’albero di ciliegio.
Il nostro primo bacio è stato proprio sotto uno di questi meravigliosi alberi in fiore.
Ogni volta che il nostro fioriva, noi ci riempivamo di gioia. Era come se il suo fiorire corrispondesse al fiorire del nostro amore.
‘’Quando ti manco, amore mio, guarda il nostro ciliegio in fiore. Io sarò lì. In ogni petalo, in ogni foglia, in ogni frutto.’’ Mi ripeteva sempre.
Così, le mattine in cui lui era in viaggio per lavoro, io aprivo la finestra e ammiravo il nostro albero, cercando in ogni sfumatura dei suoi colori e nel suo profumo, l’essenza di mio marito.
Qui non c’erano ciliegi. Non c’erano alberi, né piante, né fiori. Neanche un piccolo cespuglio. Avevano sterminato ogni forma di vita, come stavano facendo con quella di ognuno di noi. Nella maggior parte delle mie compagne, la fiamma del loro essere era ormai spenta, ma c’era chi ancora riusciva a cogliere la bellezza della vita e la esprimeva attraverso gesti di solidarietà, un sorriso, un abbraccio, attraverso la scrittura: tante delle donne del mio blocco scrivevano per esorcizzare la paura.
Io, invece, immaginavo la mia vita al di fuori di qua. Mi proiettavo nel futuro. Immaginavo il mare, la mia casa, i miei parenti e gli amici, immaginavo i nostri futuri figli giocare in giardino, le loro risa e le loro paffute mani sul mio viso. Tutto questo era una boccata d’aria fresca ogni sera.
Poi, mi addormentavo. Non sognavo più, però.
Le giornate qua dentro erano tutte uguali: sveglia prestissimo, niente colazione, tutte in fila per essere smistate ai nostri capannoni di lavoro. Si lavorava tantissimo; non ho mai contato tutte le ore che passavo a lavorare i metalli. Lo sforzo era talmente tanto che non mi permetteva di tener conto del tempo. Verso sera si rientrava nei dormitori. Eravamo tutte distrutte, mentalmente e fisicamente. La razione di cibo che ci spettava era misera: un po' di pane ammuffito, un po' di acqua, nulla di più. Non ci bastava, eravamo tutte sempre più malnutrite e prive di forze.
Un giorno cominciai a tossire; era una tosse che non avevo mai avuto. Mi faceva male il petto. Pensai che fosse il freddo, perché i vestiti che coprivano il nostro esile corpo erano troppo leggeri per le temperature a cui eravamo sottoposte. Inoltre, erano ormai usurati a causa dei lavori forzati che facevamo. Non ci spettava una divisa di ricambio. Per loro, potevi anche andare in giro nuda. Anzi, sarebbe stato meglio, almeno saresti morta prima.
In ogni caso, cercavo di nascondere il mio malanno perché sapevo che se mi avessero sentita tossire mi avrebbero fucilata all’istante. A loro non serviva una donna malata, in quanto non sarebbe più riuscita a produrre.
I giorni passavano, la mia tosse peggiorava ed io mi sforzavo sempre di più a nasconderla. Fino a quando, una mattina, mi sentì male mentre ero intenta nella solita lavorazione dei metalli. Ricordo solo che caddi a terra e che mi svegliai grazie agli schiaffi di qualche mia compagna, poco prima che arrivasse una delle guardie.
‘’ Was ist denn hier los? aussteigen!’’ gridò. Non capivo.
Mi si avvicinò, mi prese per un braccio e mi trascinò fuori. Nel frattempo, la tosse aveva preso il sopravvento e iniziai a sputare sangue.
Mi portò in un angolo isolato del campo, dietro alcuni capannoni. Ero stordita, ma avevo capito tutto. Continuavo a sputare sangue.
Alzai per un attimo gli occhi e al di fuori della recinzione di filo spinato lo vidi. Un albero di ciliegio in fiore, bellissimo, circondato di luce. Riuscivo a sentirne il profumo. Riuscivo a sentire l’abbraccio di mio marito. Poi un suono.
Poi il buio.