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La Bhagavad Gita (????????? Bhagavadg?t?) è il VI Libro del poema epico indiano “Mahabharata”, il componimento considerato il più lungo poema della storia dell’antichità, massima espressione della spiritualità universale e patrimonio di tutta l’umanità. È sorprendente come la Bhagavad Gita, “Canto del Beato”, la cui origine viene attribuita a Vinjasa (siamo probabilmente tra il V e il II secolo a.C., periodo post-vedico) risulti ancora un testo attuale, universale.
Questo Libro trasmette un sistema di principi, validi oggi e per sempre. In quel periodo storico si inizia a diffondere il concetto del “Dio” unico, trascendente, creatore di tutte le cose. Precedentemente, nel periodo vedico, si veneravano gli dei della natura: il dio del sole, della pioggia, del fuoco; per essi si compivano rituali e sacrifici. Nella Bhagavad Gita si parla di un “Dio” supremo, principio e fine di tutto l’universo, e viene chiamato Krishna. Molte traduzioni e versioni esistono della Bhagavad Gita, da citare la traduzione letterale di Swami Prabhupada, colui che ha iniziato a diffonderla nell’Occidente intorno agli anni ’60 del secolo scorso, i suoi seguaci sono diventati gli Hare Krishna. Altre famose versioni sono quella di Sivananda e Yogananda. Il testo della Bhagavad Gita, oltre a rappresentare una pietra miliare della filosofia yogica, vanta anche un valore artistico, una bellezza poetica che si estrinseca nei suoi 700 versi in lingua sanscrita distribuiti in 18 capitoli.
La Bhagavad Gita ha influenzato, in tempi moderni, la filosofia di A. Schopenhauer, soprattutto nel considerare il desiderio come causa della sofferenza. Si racconta inoltre che Gandhi non uscisse mai di casa senza portare in tasca questo antico testo.
La guerra descritta nel Mahabharata inizia il 22 novembre 3067 a. C., così almeno hanno ricostruito gli storici. Nel poema si avvicendano saghe familiari, guerre di tribù, generazioni che si combattono e che si alternano al potere. Il poema è la riunificazione e trascrizione di antiche leggende e tradizioni orali tramandatesi dalla notte dei tempi. Nel Libro VI, la Bhagavad Gita, si narra della battaglia di Kurukshetra che vede fronteggiarsi due eserciti opposti: i Kaurava e i Pandava.
Il protagonista di tutto il libro è Arjuna, della famiglia Pandava; è un arciere imbattibile perché figlio di Indra, dio della guerra, e perciò combatte dalla parte del bene, mentre i cugini Kaurava rappresentano il male, gli usurpatori del trono.
La battaglia di Kurukshetra simboleggia l’umano conflitto interiore, le nostre battaglie personali, le nostre sfide quotidiane, i conflitti che ci tormentano.
Nel II capitolo, intitolato Sankhya e Yoga vediamo Arjuna confuso, ha paura, non se la sente di combattere, trema in tutto il corpo, l’arco gli cade dalle mani, non vuole essere responsabile dello spargimento di sangue, è in conflitto con sé stesso, l’esercito nemico è peraltro formato da suoi cugini che vogliono usurpare il trono. Arjuna è l’uomo solo davanti al destino, davanti alle ingiustizie, in quel momento di smarrimento si chiede: “Chi sono? Che senso ha la vita?”
Giunge in suo aiuto Krishna per consigliarlo, per trarlo fuori da questo momento difficile. Tutto il libro è incentrato quindi sul dialogo tra Krishna e Arjuna, dialogo che diviene un invito a combattere il male, a raggiungere la verità e l’illuminazione, a scoprire la strada giusta da seguire per liberarci dai conflitti e dalla sofferenza. La battaglia di Kurukshetra, in cui Arjuna sta per accingersi a combattere, è il male dell’universo, il lutto, la tragedia, l’oscurità. Krishna è la voce interiore, colui che indica la strada che dobbiamo percorrere, senza viltà e paura, per raggiungere la saggezza.
Krishna illustra i principi della Sankhya, il pensiero, la filosofia indiana del tempo e dice: “Tu non sei solo il tuo corpo, solo questo, sei molto di più. Esiste l’anima, che è l’unica cosa eterna, inviolabile, indistruttibile. Il corpo è destinato a una fine, ma immutabile e imperituro resta il Sé che vi dimora. Forte di questa saggezza, o Arjuna, combatti!”. Sono i principi della conoscenza, gli elementi fondamentali della filosofia, la natura della realtà induista.
La conoscenza teorica deve essere però integrata dalla disciplina dello Yoga, per vincere l’ignoranza, e avvicinarsi alla liberazione. La Bhagavad Gita propone le tre vie dello Yoga: Jnana Yoga (la via della conoscenza), Karma Yoga (la via dell’azione) e il Bhakti Yoga (la via della devozione).
Fondamentale è il concetto del Karma Yoga. Nel III capitolo Krishna infonde forza e coraggio ad Arjuna, deve combattere, deve compiere il suo dovere, ma non deve farsi condizionare al frutto delle proprie azioni. Tutto ciò che è al di fuori non può mutare noi stessi e non può condizionarci perché il mondo materiale è impermanente, temporaneo, solo l’anima è eterna. Non bisogna attaccarsi al successo ma neanche al fallimento; soffriamo quando non raggiungiamo l’obiettivo, ma soffriamo anche quando abbiamo raggiunto quell’obiettivo e ci attacchiamo ad esso, impedendoci di concentrarci sul qui e ora, sul momento presente. Ciò che ci deve motivare, sempre, in ogni momento, è il nostro Dharma, e cioè seguire la propria via, i propri valori, anche se non otteniamo, nell’immediato, risultati. Il Dharma non è una missione, ma una vocazione naturale, una devozione (bhakti). Ogni nostro atto quotidiano è un atto di devozione, un atto divino: avere cura di sé stessi, meditare, mangiare alimenti sani, essere autentici ed equanimi, comprendere gli altri e fare ogni cosa con amore e dedizione.
Tutto ciò ci riporta alla nostra attuale vita quotidiana: siamo proiettati verso un obiettivo o tanti obiettivi, su tutto quello che ci viene proposto, talvolta imposto, dalla complessità del mondo esterno. Ma bisogna restare nell’adempimento quotidiano del proprio Dharma, nella nostra via, anche se imperfetta, piuttosto che camminare sulla via tracciata da altri.
Il Karma, tutte le nostre azioni, devono essere improntate alla consapevolezza, alla compassione, all’amore verso gli altri perché tutti facciamo parte dello stesso universo. Vivere una vita serena significa impegnarsi con amore e dedizione in ogni istante. Il desiderio di cose future è causa di sofferenza, seguiamo il nostro Dharma e raggiungeremo la serenità. “Perciò, compi scrupolosamente buone azioni materiali e spirituali, senza alcun attaccamento. Chi compie ogni azione con distacco ed equanimità raggiunge la meta suprema”, dice Krishna ad Arjuna.
C’è bisogno di una guida nella nostra vita per limitare il nostro ego. Nel IV capitolo Krisna dice: “Se ti abbandonerai al guru, se interrogherai (il guru è la tua percezione interiore) e se servirai (il guru), i saggi che hanno realizzato la verità ti daranno la loro saggezza”. Il guru è colui che dissolve l’oscurità (da gu, “oscurità” e ru “ciò che dissolve”). Il vero guru è colui che possiede l’illuminazione e la saggezza. Essere sempre con lui non significa solo presenza fisica ma vuol dire portarlo sempre nel nostro cuore, fare nostri i suoi principi, superando il dualismo, la separazione tra l’uomo e il divino, tra l’azione e la non azione.
Nel quinto capitolo Arjuna chiede: “ O Krishna, tu parli di rinuncia all’azione e allo stesso tempo raccomandi di agire. Quale fra queste vie è la migliore?”
Risponde Krishna: “La salvezza si ottiene sia con la rinuncia sia con l’azione. Tra queste due vie, però lo Yoga dell’azione (Karma) è preferibile alla rinuncia ad agire.”
La disciplina Yoga comprende anche la pratica della meditazione (dhyana); attraverso di essa la mente abbandona l’ego, ritrae i sensi e aggiunge il perfetto stato di unione con l’universo, con la parte divina che è in tutti noi. La mente è la forza dell’uomo, la sua amica; ma può diventare la peggior nemica quando i pensieri ossessivi e ricorrenti non lasciano spazio per vivere la consapevolezza di ogni attimo presente. Se non controlliamo la mente, essa ci controllerà.
Dice Arjuna : “In verità la mente è volubile, turbolenta, prepotente e ostinata! O Krishna, io considero la mente tanto difficile da domare quanto il vento!”
Krishna risponde: “O Arjuna, senza dubbio la mente è volubile e indisciplinata, ma con la pratica dello Yoga e con il distacco, la mente si può controllare”.
La Bhagavad Gita dedica il XIII e XIV capitolo ai “Guna”, le tre energie materiali che permeano l’universo e costituiscono la natura, la nostra mente, il nostro carattere: Sattva, Rajas e Tamas .
“Quando la luce della saggezza traspare radiosa da tutte le porte sensoriali del corpo, è segno che è sattva a prevalere. La preponderanza di rajas induce avidità, operosità, intraprendenza, irrequietezza e desiderio. Quando tamas è il guna dominante, ciò provoca oscurità, indolenza, illusione, trascuratezza nell’adempimento dei propri doveri. Dicono i saggi che il frutto delle azioni sattviche è l’armonia e la purezza; il frutto delle azioni rajasiche è il dolore; il frutto di quelle tamasiche è l’ignoranza”
Allora Arjuna chiede: “O Signore, quali sono i tratti distintivi di colui che ha trasceso queste tre condizioni? Qual è la sua condotta? In che modo riesce ad elevarsi oltre queste tre qualità?”
E Krishna risponde: “Si eleva da queste tre qualità raggiungendo un perfetto equilibrio colui che è imperturbabile dinanzi alla gioia e al dolore, alla lode e al biasimo, colui la cui mente non vacilla, ma è sempre concentrata sul sé, colui per il quale una zolla di terra, una pietra o un pezzo d’oro hanno lo stesso medesimo valore, che non si lascia influenzare dal rispetto o dal disprezzo altrui; che tratta allo stesso modo l’amico e il nemico”. E soprattutto, ricorda Krishna, è colui che è pronto a conseguire l’identità con il divino, con Brahman, con il fondamento dell’infinito, l’origine di tutte le cose.
Perché Krishna:
“ Tra tutti gli oggetti immobili è l’Himalaya, tra le armi è la folgore, tra i misuratori è il tempo, tra gli animali è il loro re, il leone, tra i corsi d’acqua è il Gange, tra tutte le lettere è la A, tra tutti i mantra è il Gayatri, tra le stagioni è la primavera, è il bastone di coloro che impongono la disciplina, il talento di coloro che ricercano la vittoria, il silenzio di tutte le cose segrete e la saggezza di tutti i sapienti”.
L’insegnamento della Bhagavad Gita, è, ancora oggi, quello di vivere secondo il proprio Dharma, secondo i nostri valori. Quando non sappiamo quale strada prendere, quando tutto ci appare oscuro e difficile, abbandoniamo il nostro ego, seguiamo il nostro sé più profondo, connettiamoci, attraverso la pratica Yoga, con la nostra interiorità e con l’universo intero, compiamo il nostro dovere e, soprattutto, facciamolo con gioia, con amore, con devozione, perché ogni atto umano è un atto divino. Ascoltiamo Krishna che ancora oggi ci consiglia:
“L’umiltà, la modestia, la non-violenza, la tolleranza, la semplicità, l’atto di avvicinare un maestro spirituale autentico, la purezza, la costanza, il controllo di sé, la rinuncia agli oggetti di piacere dei sensi, la libertà dal falso ego, la percezione che nascita, malattia, vecchiaia e morte sono mali funesti, il distacco dai legami familiari, l’equanimità in ogni situazione, piacevole o dolorosa, e la devozione pura e assidua per Me, il desiderio di vivere in luoghi solitari e il disinteresse per la società materialistica, il riconoscimento dell’importanza della realizzazione spirituale e la ricerca filosofica della Verità Assoluta – dichiaro che l’insieme di queste componenti forma la conoscenza e qualsiasi elemento che non ne sia parte è ignoranza.”