Noi che abbiamo vissuto

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Testo: Noi che abbiamo vissuto
di braskij

          Noi che abbiamo vissuto
i primi anni sotto gli Ateniesi
          siamo diversi (o siamo
stati diversi): il nostro immaginario
è differente. Siamo stati noi
          sulla Via Sacra a Delfi
ad erigere il primo monumento
ai Greci vittoriosi a Maratona.
          Non sentivamo, no,
quegli oneri impossibili: eravamo
fieri dei nostri liberi destini.
Non erano severi i mistagoghi
          di Eleusi con le loro
manie: le canzoncine edificanti,
          i fiori ad otto petali,
le sfilate allegoriche dei carri,
          le chitarre scordate,
i frontoni e le metope di Fidia
tutti quei mea culpa e le autoanalisi,
l’estenuante colloquio coi filosofi
          cortesi e rintronati,
i versi scritti sui taccuini a quadri
          a matita (analogici!) —
          invano conservati —
e tutte le tragedie e le commedie
          su rotoli perduti,
le danze circolari in paradiso,
il cha-cha-cha con Bacco e i suoi sileni
sfiniti all’imbrunire, già ubriachi
          fradici, smarriti
da qualche parte a terra tra i filari
e isole su isole su isole …

          Sono venuti dopo gli Spartani:
(Egospotami e il lutto per le Lunghe
          Mura abbattute!)
i flauti doppi, le scalette jazz
          cromatiche, gli ottetti
per ottoni (o, forse, per sassofoni?),
i rigori morali, il letto di Procuste
su cui finiva chi tradisse i sani
princìpi della Nuova Umanità
e fu l’epoca breve del terrore,
della virtù, della fraternità
in armi (o meno) predicata a iosa
da barbuti profeti, finché odiosa
sfumò ad un tratto in panico ed orrore…
          Fu lì che il nostro immaginario
si contrasse da solo, prugna secca,
          vescica di una bufala
braccata per le piane di Campania,
concerti per marimba ed ocarina
          e drammi satireschi —
con gli stessi ogni volta derisori
          e — va da sé — derisi
scritti su carta igienica, battuti
          con furia su quei tasti
          pesanti di una volta,
duri. Fu dell’amore l’epoca inclusiva
universale, a pioggia tutt’attorno,
straripante, aggressiva come l’acqua
insanguinata e cupa di tonnara:
          a Delfi il monumento,
eretto sulle ingiurie e l’impostura,
fu scolpito nel tedio e nel fastidio.

          Ma chi l’avrebbe detto che ai Tebani,
alla fine, toccò di dominare
in mancanza di meglio? Fu il momento
del senno e del rinnovamento
che avanza riposante e regolare;
fu il trionfo dell’etica, la gioia
dell’aurea mediocrità, la quieta
          vittoria del buon senso.
Il più grande Tesoro allora a Delfi
fu costruito ad eclissare gli altri:
          perché è sempre il mediocre
che scaccia l’eccellente. L’importante
          è arrivare per ultimi      
e chiudere la fila. Fatto sta
          che a noi adesso piace
davvero la normalità: ci stiamo
bene, ma soprattutto se rifà
le smorfie ad una qualche trasgressione,
se si traveste da rivoluzione,
se mima i modi di una ribellione.
          Ora che tutti gli angoli smussati
(anzi, perfino, arrotondati)
          sono stati, che tutto
è intelligente, facile e a buon prezzo,
che tutto si raggiunge senza sforzo
il nostro immaginario si è sgonfiato.
          come un pallone
dismesso dopo cinque settimane,
lasciato a terra senza più avventura,
forato senza meraviglie, ma chissà
se qualcuno sul muro della casa
di Pindaro avrà più scritto qualcosa.                

 

 

 

 

 

 

Noi che abbiamo vissuto testo di braskij
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