Lampone: son imperfetta, io…e tu?

scritto da Iole
Scritto 3 anni fa • Pubblicato 3 anni fa • Revisionato 3 anni fa
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Testo: Lampone: son imperfetta, io…e tu?
di Iole

Colorito lampone m’impregna le labbra
La tinta è decisa e marcata
(Esito inesorabile di strazianti sensazioni)
Vile, mesta, impietosa
-Chi?
Io-
Torturo e sevizio le mie labbra carnose
che
vorrebbero solamente stare
-tacite e serrate
immutabili ed incuranti-
a coronare il viso di un roseo vezzo
d’un vanitoso ed ammaliante gonfiore
(carnosità morbida all’amore adibita)

E,
invece,
(le mie labbra)
sono percorse da tagli profondi
da lacerazioni urlanti, stridenti, accusatrici
Ossessa le trafiggo,
le stravolgo di morsi folli

Detti tagli mi rimproverano d’avere profanato,
d’aver snaturato
il Disegno della man sapiente,
quello della man Creatrice

Queste parole?
Non altro se non Verità
Verità nuda e lancinante
Sentenza schietta che non indulge
Né indugia
Neppur s’adagia
sul fondo soffice di giacigli fallaci
fatti della materia stessa delle bugie
cui ci aggrappiamo
(oziosamente)

Da che l’amore ne dettava la forma,

le mie labbra

sono
ora
proiezione scabrosa,
son riflesso amaro,
son altoparlante crudele
degli oltraggi contro me perpetrati
-da me medesima feroce-

Perché, perché mai?
Mai?
Mai?
Mai?
L’eco,
assordante,
mi rimbomba nella mente prostrandone gli entusiasmi,
castigandone le velleitarie prospettive di spensieratezza:
-troppo improbabili-
raggi che illuminano altri cieli,
astri radiosi d’altre galassie, non della mia

E la risposta
(stupefacente affatto
inaspettata non direi)
la ho eccome

E’ lo slabbro esagerato che rimarco
-che noto lapalissiano com’assioma inconfutabile-
tra me e gli altri
(Slabbro che mi fa soffrire, che fa rabbrividire)

Perché l’altri,

a dispetto mio,

si sentono padroni

di sé

Si vedono Ideale fattosi carne

Si sentono paladini dei lor valori


-intramontabili,
indubitabili,
infallibili-


[Ma padroni di cosa, poi?]

Ed io

Io non vedo che

duttilità, che fluidità

Non scorgo monoliti di ferree intenzioni,

in me


Io

rifuggo la definizione,

non afferro e non m’afferro,

sprofondo in oceani burrascosi

-tempestati di tinte molteplici e variopinte-

Inorridisco dinanzi al binomio bianco nero:

non può che angosciarmi

non può che funestare la mia recalcitrante natura

M’affido alla culla delle correnti

Lascio che le onde mi solletichino il dorso

-Dolci o spietate
Amorevoli o iraconde-

Lascio che sia quel che è

(schiaffo o carezza
bacio o violenza)


Convulsi e avviluppanti, degli ideogrammi -celeri- mi traversano i pensieri:
M’immagino in una selva,
perduta,
afferrata (alle calcagna) dai mostri che fuggo

Nel più tetro degli anfratti,
nel più tenebroso dei miei sospiri,
vedo stagliarsi -radiosa- la mia effige

Eccola,
la me idealizzata
l’alter ego ipotetico (e poetico)

Ella
-nemica o sodale? -
esalta la mia sostanza imperfetta

Le sue carni son candide,
risplendono d’un bagliore sottile
stagliandosi come Prodigio contro fondo abissale

M’appropinquo,
silenziosamente
-confusa, sbigottita, allucinata persino-

Siamo, ora, l’una innanzi all’altra
con gli sguardi che non s’abbandonano un istante
Scorgo il mio riflesso nelle sue pupille portentose
(Che vedono chiaro ove io intravedo tenebra
Vedono lontano, dov’io figuro ostacoli insormontabili)

Gl’occhi si mescolano, gli uni negli altri sprofondano
Tutto, intorno, tace
S’ode solo il cadenzato respiro d’ambedue:
suono che non accelera mica
-matematico, prevedibile, rassicurante-

Poi

Risuona

[Immancabilmente]
risuona

L’ottuso schioppo
d’uno schiaffo fugace
che tradisce sofferenza:

E’ la mia rivalsa contro la presunzione, contro l’arroganza

Io
la perfezione
non la bramo
(figuriamoci se la ostento)

Intono, quindi, un canto d’elogio
(le note si susseguono prima che possa capacitarmene):

Il mio,
è il canto soave d’ode allo smarrimento,
alla perdizione,
al caos

Perché di genti piene di sé (e di sé soltanto!)
ve ne son innumerevoli

Io
preferisco reputarmi vuota,
ritenermi scrigno trafugato
pronto a farsi custode d’altre bellezze

Io
la pienezza la cerco fuori di me

Mentre
voi
permettete che gli attimi scorrano via
purché lascino imperturbato il vostro volto di sicumera

Io
voglio che sia uno scorcio di cielo notturno,
-magnifico-
a farmi sentire viva
(e non le verità che mi son forgiata e che predico innanzi al mondo)

Non odo le mie parole risuonare nell’aere
ma la melodia delle acque fluviali che
percuotono le sponde
-vigorose-

Non sono io il pilastro irrinunciabile della mia esistenza
Ma l’è piuttosto il prodigio che m’attornia:
la meraviglia che m’è concesso di sfiorare e d’adorare

Estasiata sono, silenziosa resto

Mi calo nella vita, non la lascio scorrere
-rapida e furtiva-

Alla fin fine,
quindi,
ricompongo pensieri e tormenti
Impedisco
il protrarsi della violenza

…e tornano ad esser rosate,
le labbra









Lampone: son imperfetta, io…e tu? testo di Iole
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