ALLA PERIFERIA DEL BOOM
ALDO ZECCA
Veniva giù così, da Scarpatetti, come ogni mattina, le mani in tasca e quella canzone tra i denti, che trovava spazio tra la gomma americana e la nazionale senza filtro. “Non c’è più niente da fareee….è stato bello sognaree…”. Teneva la voce profonda, come Bobby Solo, e le braccia tese verso le scarselle, il passo ondeggianteancheggiante, alla Maurizio Arena povero ma bello.
Che fosse inverno o estate, cantava sempre quel motivo catastrofico, e forse anche lui pensava che no, non c’era più niente da fare, e che sì, era destinato a restare lì, in quella città di confine, accontentandosi di essere il bullo del quartiere vecchio e di vedere gli attori e i cantanti alla televisione, di sera, sul primo.
Passando da piazza Quadrivio si specchiava nella vetrata della macelleria Del Zoppo, allisciandosi i capelli indietro, le dita aperte come un pettinone, e tagliava attraverso i giardini Sassi, buttando sempre un’occhiata verso l’orologio del campanile.
Nei mesi caldi si sentiva più James Dean che d’inverno, perché i risvolti dei gins e quelli delle maniche corte della maglietta bianca lo facevano sembrare appena uscito da “Gioventù bruciata” e ringallendosi per questa parodia spostava il mozzicone verso l’angolo destro della bocca, fermandosi davanti ai vetri, i pollici nei passanti per la cintura s-cinturati, testa piegata, occhio semichiuso, (d’inverno collo del chiodo all’insù), molleggiamento da un piede all’altro (dentro le vecchie Adidas), e provava frasi truci tipo “Hai voglia di scherzare?.....”, “Hei, tu, ce l’hai con me?....”, “Occhei, ti aspetto all’angolo tra la quinta e la settima….”, “Regoliamo i conti fuori…..”. Se pronunciava questa minaccia, lo faceva con un lento spostamento della testa verso destra, fermandosi di profilo a sbirciare l’effetto hollywoodiano nel vetro, con lo spicchio finale dell’occhio sinistro.
In quei casi si sentiva pericolosissimo, e dopo una pausa studiata di tre, quattro secondi, riprendeva il cammino, lasciando l’omino dell’Antonetto mica più tanto sorridente, o, a seconda della vetrina, Gino Bramieri, col catino moplen tra le mani, piuttosto spaventato.
Lungo la via Trieste accelerava il passo, perché a furia di provini, prove e minacce, si erano fatte regolarmente le sette. Aveva ammaliato, affascinato ed impaurito tutti i personaggi dietro i vetri, e poteva alfine guadagnare la via Fiume soddisfatto per avere ricordato alla città chi era, lui.
Con una certa qual aria soddisfatta copriva le ultime centinaia di metri, come dentro a un film, praticamente convinto di essere James.
Tutto tronfio imboccava la via Chiavenna come se fosse il viale con le impronte delle mani dei divi per terra, e si può dire che in quel suo completo immedesimarsi nel personaggio ci fosse un vero professionismo, persino sprecato, visto che si esauriva in quelle pantomime.
“Alura? Svoda chi el lacc”.
No, non era Hollywood, e nemmeno in America.
Quello non era un set.
Anche quella mattina si trovava a Sondrio, Lombardia, Italia, e lui era un droghiere del premiato biscottificio Domeneghini, incaricato di portare il latte dalla stalla del padre alla sciura Gandossini, tacitamente incaricatasi a sua volta di ridestarlo impietosamente dai sogni di gloria, ogni mattina.
Imboccava deluso e con passo strascicato la via Caimi.
Lui era ancora e sempre il Palmiro Pelosi, detto Pelo, giovane dal bell’aspetto ma dagli orizzonti chiusi, aperti solo nella sua fantasia.
Correva l’anno 1965.
Alla mia generazione.
Agli amici Pelo, Piccolo, Bomba e Taleggio.
Mi lavo le mani
per fare il pane
per uno, per due,
per tre, per quattro,
per cinque, per sei,
per sette, per otto…..
biscotto!
1960
Da dietro la tenda della doccia lo psicopatico di “Psycho” di Alfred Hitchcock, appunto, strappa urla di terrore alle ragazze che succhiano Motterelli o sgranocchiano straunte patatine Pai, e Alain Delon le prende di santa ragione in “Rocco e suoi fratelli” di Luchino Visconti, dal povero ma bello Renato Salvatori. Abebe Bikila vince la maratona correndo a piedi nudi, alla diciassettesima edizione delle Olimpiadi, che mette in luce Cassius Clay e Nino Benvenuti nella boxe, Livio Berruti nei 200 metri.
Carlo Cassola pubblica “La ragazza di Bube”. Muoiono Camus, Fausto Coppi, Clark Gable e Adriano Olivetti.
Nikita Krusciov, segretario del partito comunista sovietico, ad una seduta dell’ONU si sfila una scarpa e la batte più volte sul banco.
Gli Stati Uniti eleggono presidente John F. Kennedy e mettono in commercio la pillola anticoncezionale.
Gli Italiani sono 50.045.000.
CAPITOLO PRIMO
La zona di Scarpatetti c’ha il suo fascino. Se la guardi dall’alto è un bel tappeto grigio, di piode che coprono abbaini e mansardine, e sotto il grigio c’è il maròn delle travi di legno, che stanno (si è portati a pensare) su camere da letto contenenti bei lettoni alti e molleggiati, di quelli su cui i bambini possono ancora saltare ridendo, e te li immagini così, dentro vestaglie bianche alla caviglia, che urlano, e mostrano i bei dentini con gli spazi tra gli incisivi.
Se attraversi Scarpatetti hai i due muraglioni delle case di pietra, ai lati della strada che sale lentamente, e ti accompagnano le macchie rosse dei geranei e le madonne disegnate, in quel tuttosasso un po’ umido, forse un po’ buio. Lo capisci che sei al nord dai profumi, perché un posto così lo puoi trovare anche nelle zone vecchie di tante altre città dello stivalone, ma inspirando fiuteresti gli odori del pomodoro, dell’aglio, delle olive, mentre qui le viuzze sanno di vino rosso e segatura.
Poi ci sono i suoni, i rumori.
Pochi.
Dentro la città riservata, il quartiere di Scarpatetti è una rocca di finestre chiuse e tapparelle abbassate, veneziane serrate.
All’ora di pranzo, se è bel tempo, attraverso gli spifferi arriva la musica delle fisarmoniche che esce dalle radio accese, o il notiziario regionale con gli auguri ai nonni, e salendo verso il Masegra si può sentire distintamente il cinguettare dei canarini nelle gabbie, il battere delle posate contro la ceramica dei piatti, il dialogo denutrito intorno ai tavoli.
Palmiro stava bene tra quei sassi, e, benchè non fossero il Gran Canyon di quando era piccolo, rappresentavano pur sempre la sua casa, il posto dove si sorrideva bonariamente della sua bullaggine congenita, il mondo dove era qualcuno.
Mina aveva inaugurato il secondo canale della RAI, dall’America e dall’Inghilterra arrivavano gonne sempre più corte, si creava la moda dei cappelloni, e alla radio era un continuo di Gigliola Cinguetti, Nicola di Bari, Celentano e Bobby Solo.
Andavano forte le seicento e i millecento, fortissimo le lambrette e i Motom.
La grande macchina del dopoguerra veniva mossa dai bicipiti del Sud: vite intere date al Nord per le rate della lavatrice, della Snaidero, a volte della Lancia. Si stava per andare sulla Luna, gli astronauti della Gemini 6 e della Gemini 7 si erano detti OK dagli oblò.
Al Pelo piaceva vivere in quell’epoca di progresso e rivoluzione, in cui il futuro sembrava pronto a dare ricchezza a tutti, bastava prenderla.
“Hai una paglia?”
Con ‘sto fatto che lavorava col padre a far sostegni di cemento armato per le vigne, il Marveggio non aveva una lira ed era sempre in giro a scroccare sigarette.
Il Pelo dava generosamente.
Con una smorfia ad occhi socchiusi per il fumo, tenendo la nazionale all’angolo destro della bocca, sfilava il pacchetto da sopra la spalla e lo tirava con un lancio ad effetto, forse un po’ sprezzante.
Quel giorno, erano le quattro del pomeriggio di un sabato di giugno, se ne stavano sul muretto del lungomallero, a pipare e a prendere il sole, le mani intrecciate dietro la nuca, i gins arrotolati fin sotto il ginocchio, belli spiattellati sul muretto dell’argine a fare gare a chi guarda il sole per più tempo, e naturalmente a fare proposte molto maschie alle ragazze che passavano.
Ecco quattro galli, o ramarri nella calura, o tacchinotti in crescita, nella loro città tra le Alpi, profumati di Linetti e Aisbluvilliams, in attesa di rimediare un po’ di compagnia per il fine settimana, o, chissà, per tutta la vita: il Pelo, il Piccolo, il Marveggio e il Bomba. Eccoli lì, in quell’inizio d’estate del ’65: sembrano quasi felici. Sono alla moda (pettine nel taschino dietro), sono ancora sani (sotto la peluria si vede bene il rosso delle guance da montanari, o, quanto meno, da abitanti di una città di montagna), non hanno grandi impegni (scuola abbandonata a sedici anni, alla fine della terza media), c’hanno pure due lambrette in quattro (rottami smarmittati, che quando passano fanno via via bestemmiare i quartieri, lungo il percorso) e una tecnica di abbordaggio molto efficace (il Pelo che è il bello, attacca bottone con la ragazza più gnocca, per strada o nei locali, poi, al segnale “ti presento i miei amici”, loro si fanno avanti fintostupiti e a quel punto la tipa chiama le amiche, a rinforzo: il gioco è fatto): non gli manca niente. Anzi, molto ce l’hanno in abbondanza: propensione a raccontare balle clamorose (“quattro, quattro minuti di limonata con la Sottovia, all’Odeon… come no?...Chiedilo al Palpa, che era dietro… chiediglielo”), attitudine al bulligallismo (“… io mia moglie la voglio vergine, e per essere sicuro controllerò prima…”), propensione all’esibizione estemporanea motociclistica: venti metri di impennata (con la nazionale all’angolo…sempre).
Dunque, in quel pomeriggio di sole, eccoli lì, impegnati nelle attività di adescamento-abbronzamento da poveri. E chi ti spunta all’orizzonte? (L’orizzonte è, più concretamente, il lungomallero, venendo giù dal Gombaro). Arriva un ragazzo strano, in calzoncini crem, cappellino di paglia, camicia besc a mezze maniche, smilzo, ginocchia in fuori, gambe magremagre lunghelunghe, con la radio accesa tenuta vicino all’orecchio. Si tratta di un giovane non del tutto registrato, a livello di cervello, s’intende, che non fa male a nessuno, buono, sempre intento ad ascoltare la musica e le notizie, ma soprattutto la musica, sia che cammini, sia che se ne stia seduto su una panchina dei giardinetti di Piazza Garibaldi.
Viene avanti abbastanza allegro, sembra canticchiare.
Il primo a vederlo è il Marveggio. Non è sdraiato, è seduto con le gambe tenute unite dalle braccia e il mento sulle ginocchia, il grugno tra le rotule, incazzato nero perché il Pelo lo ha zittito chiamandolo “Taleggio”: la cosa gli manda il sangue alla testa. Il ragazzo col cappellino si avvicina, allegrotto. Fischietta. Ripete… “Era uno sguardo d’amore, la spada è nel cuore, e ci resterààà…”.
Il Marveggio vede la sua opportunità di sfogo, e sveglia i compagnoni dal torpore (il Pelo no, meglio lasciarlo stare, hanno sfiorato di poco la rissa, e Palmiro Pelosi ha il sinistro alla Nino Benvenuti). Il Bomba e il Piccolo si sollevano: il Marveggio stende il braccio con l’indice allungato, indica il ragazzo, ormai a venti metri.
I tre amici si guardano. Si mettono a sedere con le gambe verso la strada. Passano la lingua sulle labbra, come tre gatti che assaporino la carne del topo.
Lui non si rende conto di niente, arriva davanti a loro sereno, anzi, sulle nuvole. A quel punto il Bomba scende dal muretto, e lui è costretto a fermarsi. Con uno sguardo interrogativo lo fissa negli occhi. Non che il ragazzo non si aspetti di essere in qualche modo colpito o offeso: ci è abituato, anche se mantiene, dopo tanti anni, un ingenuo non reagire, uno stupirsi ogni volta, come se non si capacitasse del perché debbano così spesso prendersela con lui.
“Dove vai?” fa il Bomba, con aria furba tipo “non pensare di fregarmi”.
Il ragazzo si aggiusta il cappellino di paglia alla Frank Sinatra, guarda oltre le spalle chi gli sta davanti, più piccolo di lui, non sa cosa dire. Balbetta “… alle bocce…”.
I tre spiritosoni sghignazzano.
Senza che se ne rendano conto, giorno dopo giorno i loro istinti aggressivi vengono alimentati dalla televisione, ma non dagli spettacoli veri e propri, visto che, al massimo, ci sono i film di John Ford che portano nelle case le pistole e i colpi di fucile, quanto dai telegiornali, che mostrano tutti i giorni la guerra del Vietnam, quei soldati che corrono con le foglie in testa e i mitra nelle mani mentre le bombe esplodono sullo sfondo. Chissà che non si sentano, in quel sabato pomeriggio, un po’ come l’America, bianchi e rossi, e forti, tirati su a casèra e pane di segale, pronti a difendere il territorio dal vietnamita con la radiolina e i calzoni corti.
Lui, la vittima, continua a tenere la musica vicino all’orecchio, anzi, se l’è proprio schiacciata contro la scatola cranica, cercando conforto in quell’amica allegra.
“Fammi vedere la radio!” ordina il Bomba.
Il ragazzo è spaventato, non vuole separarsi da quella scatola che per lui è praticamente tutto. Dice: “…No…”.
Dice: “…Si rompe…”.
Il Marveggio, che, tutti i sabato sera, prima di uscire guarda Alighiero Noschese che fa le imitazioni, ripete: “No…si rompe…”. Lo fa con un tono che il ragazzo non ha, non ha ancora quel lamento nella voce, per ora.
Il Bomba si spazientisce, allunga il braccio per prendere la radio, ma il proprietario fa un passo indietro, la allontana da quella mano rapace, e così senza rendersene conto, la consegna alle grinfie del Piccolo, che gli si è messo di fianco.
I tre ridono. Il Piccolo gira la rotella dei canali, alza il volume, si mette a ballare un motivo di Petula Clark, ancheggia, schiocca le dita, e gli altri due fanno come lui, sembrano i Piedi Neri attorno al prigioniero legato al totem, nella danza rituale prima di papparselo.
Il Marveggio, felicissimo di sfogare la propria frustrazione, balla scatenato, prende il cappellino di paglia, lo tira in alto mentre il ragazzo porta le mani sulla testa e dice: “Basta… basta…”.
Piange. Non capisce perché se la prendano con lui, soprattutto è triste, perché sa di non fare del male a nessuno, ma vede che questo non basta per tenere lontani i guai.
Cerca di prendere la radiolina, ma i tre se la passano, “hop…hop…hop”, allargano il cerchio, lui va da uno all’altro, la musica esce disperata, come chiamandolo.
A quel punto, il Pelo si ridesta. Rapide immagini di Ringo nella sua testa. Falde larghe sul poncio, su Giuliano Gemma. Scende lento dal muretto, spolvera i gins davanti e dietro, si avvicina all’area della danza tribale e … prende al volo la radiolina, dice “Taleggio ridagli il cappello”, lui obbedisce, lo toglie dalla propria testa, lo consegna al ragazzo, che preoccupato, sta controllando che tutti i pulsanti della scatola siano a posto.
Il Pelo gli dice: “Vai”.
Lui si incammina, ogni due metri piega la testa da un lato, per avere la sicurezza di essere proprio libero. Tiene stretta all’orecchio la musica.
Il Pelo accende una sigaretta, spegne con movimento lento lo zorfanello, tira una boccata, si incammina senza dire una parola.
Certo che l’eroe che se ne va via, solo, tirando dritto senza voltarsi, fa sempre un gran figurone.
1961
In Italia si producono quasi 700.000 automobili e ne circolano 3 milioni.
“Studio uno” lancia le gambe chilometriche delle gemelle Kessler, la RAI fa partire il secondo canale, Sciascia pubblica “Il giorno della civetta”.
I film importanti di quest’anno sono “Accattone” di Pasolini, “La Ciociara” di Vittorio De Sica e “Il posto” di Ermanno Olmi, ma la Palma d’oro al festival di Cannes va al rivoluzionario “Viridiana” di Luis Buñuel.
Muoiono Hemingway, Sironi, Cèline, Carl Gustav Jung, Luigi Einaudi, primo presidente della Repubblica.
Compare il bikini.
Yuri Gagarin compie un’orbita attorno alla Terra, si inizia a costruire il muro di Berlino, in Alto Adige gli autonomisti compiono i primi attentati a suon di dinamite.
In Vietnam vengono spediti 15.000 soldati americani.
CAPITOLO SECONDO
L’estate del ’65 fu un’estate calda.
In Bianchina (anche cabriolet), in Giardinetta, con la 600 Multipla o con l’Ape, molta gente, appena poteva, si rifugiava nelle baite su in montagna, e così si vedevano questa macchinine, piene come uova di provviste, nonni, bottiglioni di rosso, bastoni piatti levigati per la polenta, farina nera, cani, libri di “compiti per le vacanze”, arrancare sulla strada della Valmalenco, soprattutto nei fine settimana.
Il Maggiolino non era ancora un’auto di culto, ma era già una gran bella macchina, sulla Domenica del Corriere ogni settimana i bei disegni di copertina presentavano pezzi di storia italiana, Maigret era per noi il profilo con la pipa di Gino Cervi (preferito, tra tutti, anche da Simenon, per interpretare il suo commissario), il generale De Gaulle veniva rieletto, John Wayne continuava a scendere da cavallo e a camminare con quel suo passo strano (ginocchia in dentro, ancheggiare stretto) verso il saloon.
Sean Connery ti guardava dal manifesto del Pedretti, sempre in smoking, a braccia incrociate con la pistola puntata verso l’alto, silenziatore inserito, e tra cadaveri verniciati d’oro e biondone sulla spiaggia, riusciva a battere i cattivi sorridendo, esempio storico di eroe in grado di mantenere il vestito stirato e il capello impeccabile anche buttandosi da un idrovolante o da una Bugatti in corsa (si è saputo molto più tardi che aveva il parrucchino anti-calvizie, poco agente segreto).
Amedeo Nazzari e Marcello Mastroianni erano i più presenti sui ritagli di giornale nei diari delle ragazze, e Totò riusciva a rendere guardabile anche il film più superficiale e messo insieme in pochi giorni del quale fosse protagonista.
Palmiro continuava a sognare e mescolare l’impasto dei biscotti nel laboratorio, quando non serviva al banco. Era un factotum.
A seconda delle necessità, si dava da fare come mastro pasticcere, come commesso, magazziniere o fattorino per le consegne a domicilio. Quest’ultimo genere d’incarico era il suo preferito. Gli permetteva di andare con la Bianchi nera lungo le strade lastricate dai cubetti di porfido, senza mani e fischiettando con la cicca di traverso, un cesto pieno di sacchetti davanti e uno dietro. Era un bello spettacolo anche per i sondriesi, vederlo, perché quando passava lasciava dietro di sé non solo il profumo di savoiardi e di bisciola appena sfornata, ma anche quell’altro odore, quello di bullo gradevole, che ti sarebbe piaciuto avere come fratello maggiore, o anche come figlio, nipote, perché dietro il suo fare da spaccone si intuiva una forma di lealtà sicura, e perché la sua bellezza spavalda lo rendeva simpatico anche agli uomini, che sorridevano sentendo arrivare il suo fischio o la sua voce concentrata sui toni bassi, il pugno sulla bocca, nell’imitazione dei divi di San Remo.
Se si trovava a fare consegne dalle parti di via Bernina andava a trovare il Bomba, nella latteria. Era un mischiarsi di aromi: da una parte, quello di zucchero, farina, canditi, mandorle, vaniglia, dall’altra quello di latte fresco, gelato, burro, formaggio stagionato.
“Ehi, Bomba”.
Felice per la sorpresa fattagli dall’amico, quel martedì pomeriggio assolato e addormentato, il Bomba uscì da dietro il bancone, per battere la manona allegra sulle spalle del Pelo. Aveva un grembiule bianco allacciato in vita, e stava sistemando i bastoncini di liquirizia in un contenitore di vetro assediato dalle mosche, che lui allontanava con rapide frustate di straccio per pulizie.
Non correvano mai molte parole tra loro, era un rapporto fatto soprattutto di brevi contatti fisici e di sguardi timidi, subito allontanati da atteggiamenti da duro.
“Cosa fai stasera?”
“Avrei un mezzo appuntamento con la Piera, per andare a ballare alla Castellina”.
“Maa, intendi la … Piera?”.
Così dicendo, il Bomba portò al petto le due mani con le dita allargate, per dare l’idea dei ragguardevoli attributi per i quali era famosa la ragazza in questione.
Il Pelo sorrise, come per dire “sì, lei”.
“Non c’ha un’amica?”.
“Se è per quello… sono sempre in gruppo”.
Il Bomba sorrise.
Il Pelo se ne andò con una bella barretta di liquirizia in bocca e due sulle orecchie.
Il Bomba si presentò all’appuntamento con i due fidi scudieri, il Piccolo e il Marveggio.
Quando, alle otto e mezza, il Pelo li vide arrivare al punto di ritrovo, attorno alla fontana dei giardini Sassi, non disse niente, ma fu contento di poter dare ai suoi amici un’occasione per divertirsi. In fondo, se ne stavano sempre tra loro, era un mondo quasi totalmente maschile, in cui le presenze femminili si limitavano alle eventuali sorelle e a qualche loro amica.
Dovettero aspettare mezz’ora prima che arrivassero le ragazze, e quando finalmente il gruppo si compose, si incamminarono. Oltre i binari della ferrovia la città si scioglieva nei prati, e in quella bella sera di giugno era tutto un cantare di grilli e cicale, un lampeggiare di lucciole. Dove adesso sorgono i palazzi dei quartieri verso le Orobie, verso Albosaggia, allora c’erano pascoli, ruscelli, alberi e mucche. Dove adesso vedi un casermone puoi immaginare che c’era un uomo con la canna da pesca, o un orto, tutto il frinire dei campi attorno alle case di periferia.
Dalla Castellina arrivava la musica, sempre più distinta. Il Pelo e la Piera stavano davanti, dietro veniva la marmaglia, tra sguardi imbarazzati, spinte, risatine, e tentativi di discorsi tipo “tra un anno mi compro il Gilera centoventicinque”, “ah sìì?”.
Sotto la piccola torre che dà il nome a quella propaggine estrema e isolata della città, c’era una piccola pista da ballo circolare, sull’Adda, contornata tutto l’anno da luminarie natalizie, e d’estate si poteva ballare.
Mentre stavano per raggiungere il posto, cominciò a girare nel juke box una canzone molto nota dei Rolling Stones, e il Piccolo prese a canticchiarla nel suo inglese fortemente caratterizzato dall’inflessione dialettale di Mossini. Passarono tra Vespe truccate e biciclette Graziella, e andarono a sedersi.
Stettero a lungo così, stravaccati sulla plastica intrecciata, scambiandosi sguardi laterali, perché nessuno aveva il coraggio di formulare inviti al ballo.
Fu la Piera che prese l’iniziativa: quando incominciò a gracchiare sul disco dei Platters, portò il Pelo sulla pista si trattava di un ballo lento, per cui i due avrebbero dovuto stare allacciati, sennonchè c’era l’impedimento anatomico costituito dalla florida prorompenza di lei, che creava non poco imbarazzo in lui, combattuto tra l’abbandonarsi a quella morbidezza e il resistere in nome di (… di cosa?). Gli amici ridacchiavano e si davano gomitate, ma avrebbero voluto esserci loro al posto del Palmiro Pelosi detto Pelo.
“Guarda che bocce!”. Questo era il bomba.
“Adesso scoppiano” disse in risposta il Marveggio, sornione.
Comunque, la coppia diede l’esempio, e così, poco a poco, se ne formarono altre, che poi si disfecero, per dare vita a nuove coppie.
Molte ragazze ballavano tra loro, serie, prese da sogni romantici. Giravano Mottarelli e ghiaccioli alla menta. Tutto filava liscio, ma, verso le dieci, si sentì il rombo di molte marmitte truccate, e si vide un polverone avvicinarsi sulla strada sterrata. In breve la nuvola raggiunse la pista da ballo, ma già da qualche secondo il Pelo aveva riconosciuto in quei centauri una terribile associazione: il Marchi e la sua banda.
Tra il Palmiro e il giovane gangster non correva buon sangue. L’anno prima il Pelo aveva dovuto occuparsi della sparizione di numero due scatole di baicoli e numero quattro tavolette di cioccolato Icam dal premiato biscottificio Domeneghini, dopo un sopralluogo della banda all’ora della merenda, e siccome il proprietario del negozio aveva deciso “i soldi della roba rubata li tolgo dal tuo stipendio visto che sono tuoi amici”, e questo solo per il fatto che si erano salutati, il Pelo e il Marchi, all’entrata di quest’ultimo (pur senza simpatia), il Palmiro aveva poi voluto regolare i conti, aspettando l’altro sotto casa. Era venuto fuori un litigio bestiale. Il Marchi era stato salvato dalla madre, che si era buttata sul Pelo tirandolo via dal figlio per i capelli.
L’incontro alla Castellina veniva dopo quell’altro incontro, di box. Il Marchi, piccolo e tracagnotto, spianò il suo Morini sulla terra, e lo stesso fecero gli altri quattro.
La banda non salutò nessuno. Andarono verso il bancone del bar e ordinarono cinque frizzantini (avrebbero preferito cinque cornetti Algida coi croccanti, ma si trattava di un’ordinazione molto meno da duri).
Intanto sulla pista si ballava: i tre amici, piuttosto in ansia, guardavano il Pelo, e lui (ormai a proprio agio in quel ben di Dio della Piera) sculettava al ritmo di una rumba, non molto più tranquillo degli amici, ma consapevole del fatto che se avesse mostrato preoccupazione si sarebbe diffuso il panico.
I cinque erano usciti dalla torretta e si erano accomodati ad un tavolo. Osservavano ironici, come per dire “ma guarda che bello spettacolino inaspettato, proprio una bella sorpresa”.
Era veramente un sorpresa, per loro?
Non lo sappiamo.
Ciò che tramandano le cronache è che, alle dieci e venticinque, quando ormai il Marveggio si poteva considerare fidanzato con la Foppoli, il luogotenente del Marchi, certo Dalio Melè, detto Felix per la perfetta imitazione del gatto mattatore della “tivù dei ragazzi”, chiese di potersi anche lui abbandonare nelle sinuosità molto accoglienti della Piera (concretamente disse “ssignorina, permette un ballo?”), e siccome la signorina non ne voleva sapere, insistette a lungo, obbligando il Pelo a tollerare le continue manovre della compagna, volte allo scopo di frapporlo tra se stessa e il pretendente.
Poco a poco, le richieste si fecero sempre meno cortesi (il Felix non poteva rimetterci la faccia davanti alla banda, che era tutta uno strizzare d’occhi e un ammiccare, con movimenti ondulatori a due mani, alle curve paraboliche della Piera) e quando il corteggiatore se ne uscì con un infelice ed esasperato “Ehi, tettona, cosa avrà più di me il Pelo? Non vuoi provare un vero uomo?”, il Palmiro Pelosi si irrigidì, si fermò e guardò il Melè come un cobra che guarda un bel ratto grasso. La musica continuava (… Ah, rumbera, rumbera del mi corazòn…”) ma tutti si erano bloccati, aspettando l’alluvione.
E in effetti l’alluvione arrivò. Il Pelo era una persona carismatica e controllata, ma come ogni capo sapeva quando era il momento di attaccare senza indugio, per difendere i sottoposti e la propria posizione di guida. Fu così che partì un uppercut destro (nei racconti degli anni successivi venne più semplicemente descritto come “un cartone terrificante”) che alzò il Felix di dieci centimetri dal suolo, rendendolo ancora più simile al gatto delle cinque e venti pomeridiane.
Fu l’inizio.
L’inizio di quella che, negli anni a venire, sarebbe stara chiamata “la rissa del Pelo e del Marchi giù alla Castellina”.
Vedendo il Felix a terra, il Marchi sentì esplodere dentro quel sentimento di rivalsa che covava da quando il Pelo lo aveva insaccato, e così, con un urlo da scotennatore, saltò addosso al Palmiro. La Piera, risvegliata dal sogno, dando ai bicipiti (non meno voluminosi di altri organi più femminili) una forza comunque inattesa, gonfiata dall’ira, incominciò a menare pugni sulla testa già quadrata del Marchi, che, peraltro, stava rischiando un soffocamento tra le mani a tenaglia del Pelo.
I cinque da una parte e i quattro dall’altra se le diedero di santa ragione, e anche quando, buttati fuori dal proprietario del bar, si trovarono nei prati ai bordi della pista di autocross, continuarono a picchiarsi. Esistono varie versioni relative all’epilogo. Una porta a credere che tutto si fermò quando la Piera, coinvolta come i maschi nella rissa, restò (diciamo così) a torso nudo, con quei bei meloni bianchi catarifrangenti nella notte. Diciotto occhi guardarono ipnotizzati verso un punto (due punti, in verità), dopo di che tutti tornarono a casa con aria sognante. Questa è, senza dubbio alcuno, la teoria erotica dell’accaduto.
Qualcuno ha affermato che la rissa si sia conclusa quando il proprietario abbia sparato tre colpi in aria con la doppietta: versione alla quale non è difficilissimo credere, ma non provata (questa è la teoria del potere dell’arma da fuoco). Il racconto del Marchi porta in genera a far credere che gli altri siano scappati feriti, stracciati e umiliati, quello del pelo anche, magari è meno colorito, ma descrive un’ecatombe per i cinque.
Questa è la teoria dell’orgoglio guerriero.
Si è detto anche che tutti si sono buttati nella piscina all’aperto per un bagno serale di riconciliazione, e questa è la versione buonista, alla quale, comunque, preferiamo credere. Il nostro Palmiro ricorda sempre, più volentieri, la prima parte della serata, quella morbida, alla quale non può pensare senza sentire un calore piacevole all’addome, all’inguine.
1962
Dino Risi dirige lo straordinario “Il sorpasso”, Francois Truffaut “Jules e Jim”, e in ottobre esce “Agente 007 licenza di uccidere”.
Sono in edicola il primo numero di Diabolik e di Panorama, Bassani scrive “Il giardino dei Finzi Contini”.
Muoiono Marilyn Monroe e William Faulkner.
Si incomincia a parlare di Rolling Stones e Beatles.
A Milano si prova la linea 1 della Metropolitana. Il presidente della Repubblica è Antonio Segni e Amintore Fanfani presiede a sua volta il primo governo di Centro-Sinistra.
CAPITOLO TERZO
Una domenica pomeriggio i quattro amici decisero di andare a fare il bagno alle cascate di Arquino. Quando veniva concepito questo genere di progetti, le mamme, oltre a proporre, in alternativa, molti passatempi meno pericolosi (“Perché non vai a trovare lo zio Mario? È tanto che non lo vedi. Gli porti i denti di cane e lui ti dà il Toblerone”. “Vieni qua con i tuoi amici, ti preparo il pane e Nutella”. “Vuoi che andiamo insieme al cinema di San Rocco e poi ci prendiamo insieme la Spumador?”), una volta persa la partita cercavano almeno di non far distruggere i vestiti belli, e tiravano fuori “quelli che si potevano anche rovinare”. Fu così che il Piccolo si presentò con un paio di gins tagliati in verticale, a strisce, dal ginocchio in giù, a scoprire i polpacci: non si capiva se era una vestimento tribale africano, una maxi-gonna a frange o un esempio di pantalone dopo lo scoppio della bomba atomica. Era semplicemente l’ultima moda. La maglietta con la scritta “Rigamonti bresaola” toglieva ogni dubbio circa il fatto che si trattasse di un capo di abbigliamento del continente nero, e la patacca verde con l’immagine del Gianni Pettenati confermava che si, era proprio l’ultimi grido del prèt a portér.
Al Marveggio avevano dato ordine di portarsi ad Arquino vestito da lavoro, il che significava: spesso strato di cemento sopra tuta blu con cerniera anteriore. Un po’ rigido, un po’ soffocante, un po’ tanto “domani è lunedì”, ma resistente, e protettivo (sempre che il Taleggio non finisse così avvolto nell’acqua alta, poiché in quel caso la tuta avrebbe determinato un micidiale effetto zavorra, con trascinamento del contenuto verso il fondo). Il Bomba era un puzzle di pubblicità di derivati del latte: l’imperante cornetto Algida, il formaggino Mio, la mucca Carolina, il marchio Galbani. Molto firmato. Spandeva attorno un profumo di panna che era un piacere. Il Pelo in casa c’aveva poco da comandare o da essere carismatico, per cui dovette agghindarsi anche lui con “abiti sponsorizzati dall’industria dolciaria (Ercolino che sembra dare una mazzata ad una colonna dei biscotti Plasmon). Un capo, tuttavia, non rinuncia ad un segno del comando: Diabolik in tasca, “Morte di pietra”.
Alle cascate di Arquino si andava per svariati motivi.
Uno: per rinfrescarsi nei giorni caldi, giacché generalmente le vasche da bagno erano poco frequentate e comunque spesso adibite al ricovero di beni materiali fondamentali (cassette di pomodori, piantine di fagioli, porcellino d’India, quest’ultimo “bene materiale” per modo di dire).
Due: perché l’alternativa era rappresentata dal pozzone (placido ma infido) e dalla piscina alla Castellina (a pagamento e spesso chiusa, causa intervento della forza pubblica).
Tre: perché le altre cascate, quelle del Gombaro, erano sì più vicine per i sondriesi, ma sconsigliate, anzi, proprio vietate dai grandi (il divieto comunque veniva spesso dimenticato) in quanto erano belle e naturali docce colorate, grazie all’attitudine dello stabilimento Fossati a modificare il colore naturale del Mallero (probabilmente ritenuto scontato) con tinte di fantasia (voi non sondriesi ce l’avete avuto un fiume sempre diverso? “Oggi è rosa sciocching!”).
Quattro: perché ci si poteva tuffare dai massi attorno (“Ehi, Lalo, fa vedere il tuo tuffo di pancia!”).
Cinque: perché nessun adulto aveva mai raggiunto le cascate per verificare il reale grado di pericolo della situazione (roba da considerarsi miracolati se, alla fine di una giornata di scorribande e tuffi a filo delle rocce, si tornava a casa ancora con le proprie, pur sbucciate, sanguinanti e graffiate, gambe).
Ma perché dovevano sempre scegliere passatempi pericolosi? Non si vuole pensare che potessero entrare nel panorama dei loro programmi e nelle aree mentali dei loro progetti di svago opzioni come giocare a pallavolo, a dama, a briscola, o leggere una rivista (!), un quotidiano (!!), un libro (!!!), o dedicarsi a passatempi almeno pericolosi solo per la fauna (caccia ai passeri con fionda). No no, il pericolo era proprio una componente necessaria del loro divertimento.
Come medaglie, le cicatrici affermavano il valore, e non esisteva dubbio circa il fatto che più alto fosse il numero dei punti di sutura collezionati e maggiore fosse il prestigio del pluriferito.
Forse, un’analisi sociologica porterebbe a dire che l’Italia del ’65 era comunque una nazione ancora nel dopoguerra, perché i nonni e i padri avevano vissuto senz’altro tutto ciò che ha a che fare con una guerra mondiale, per cui, anche se un popolo guarda avanti e vuole costruirsi un futuro di ricchezza e serenità, resta con i piedi nelle trincee, o, quanto meno, nei ricoveri anti-bombardamento, e con le orecchie piene del non sempre simpatico timbro tedesco.
Che questo crescere tra i racconti di bombe, e spari, e fughe, e fucilazioni, e morti, avesse costruito una generazione che col pericolo andava a braccetto? Che si volesse dimostrare di avere coraggio, anche se non si era chiamati a marciare contro i panzer? Che si volesse far vedere di non essere da meno? È probabile che l’essere vicini alla guerra e vivere sotto lo stesso tetto che dava riparo a ex soldati, ex partigiani, ex prigionieri, madri di deportati, mogli o sorelle di dispersi, facesse vivere il rapporto con il pericolo in modo molto diverso rispetto a quello di chi non abbia mai conosciuto racconti bellici. Probabilmente se un padre parla di cannonate, fucilazioni e filo spinato, il figlio cresce pensando che buttarsi giù da sei metri per un tuffo alle cascate di Arquino non sia niente. Così, il pericolo è vicino, viene sottovalutato, e si rischia molto perché il metro di misura è, per così dire, distorto.
C’erano anche i tipi pacifici, certamente.
È probabile che la propensione al rischio nascesse da vari fattori: temperamento, condizione sociale (più diffuso tra i meno ricchi), crescita tra fratelli maggiori prepotenti, dentro una gerarchia di nonni che consideravano il crapadone un ottimo sistema educativo e genitori che vedevano nell’uso delle mani l’unico mezzo per ottenere un rapido e concreto risultato educativo, frequentazione di gruppi all’interno dei quali c’era sempre chi comandava e chi obbediva, e chi obbediva, se voleva comandare, doveva affidarsi alla forza fisica e alla propria aggressività. Così il corpo non era poi sto gran bene da tutelare, e una ferita non era una ferita, ma un segno di valore…Mah!
Il gruppo arrivò sul posto intorno alle sedici. Lungo il percorso il caldo aveva provocato progressive svestizioni, per cui il Pelo era semplicemente a torso nudo (maglietta della Plasmon in testa tipo turbante), il Marveggio trascinava la tuta cementata ed era pronto per l’acqua, in mutande già a due chilometri dall’arrivo. I rari passanti-turisti della domenica (pane e salame, cetrioli, vino rosso e caffè corretto, all’aperto) suonavano di brutto i clacson, scandalizzati, divertiti, un po’ invidiosi. Il Bomba procedeva lento, appesantito da numerosi panini preparati a casa (per forza che poi lo chiamavano Poldo Sbaffini, come il personaggio dei fumetti di Braccio di Ferro che cerca sempre di sbafarsi gratis un panino imbottito di carne. A proposito si era ancora negli anni in cui la parola americana “hamburger” faceva pensare ad un cibo strano, e non si parlava certo di “sandwich” con mezza fetta di prosciutto e una velina di formaggio, e nemmeno di “panino imbottito”: il “panino”, e basta, era un bel condominio di prodotti di salumeria, gonfio come un cuscino, anche lui testimone che non si era più poveri).
Seguiva la sua pancia, il Bomba, sudato, con la maglia allacciata ai fianchi tipo minigonna, e buffava, ogni tanto, dentro una bottiglia quasi vuota di chinotto, ritmando una marcetta militare. Buon ultimo, il Piccolo (espressione truce come sempre) chiudeva la sfilata tipo circo, sempre ornato dal vestimento tribale (almeno, le frange dei gins scacciavano i tafani), nudo dalla cintola in su, con quel suo torso da torello nervoso e il tatuaggio da duro sul bicipite destro (paracadute aperto su scritta LOVE).
Raggiunsero la pozza principale, quella intermedia, quella più grande, con i rami delle piante piegati verso l’acqua come cannucce verso un bicchiere, molto adatti a tuffi, giochi di equilibrio, imitazioni di Tarzan, appendimenti scimmieschi seguiti da urla selvagge e pugni sulla gabbia toracica.
Accaldati e fradici com’erano, si buttarono subito dentro quella bella piscina verde e fredda, ognuno a modo suo. Il Pelo procedeva sempre lento e rigido, con portamento da adulto, bagnandosi le braccia e la pancia con movimenti lenti, capace di dire “non fate scherzi” senza una parola, con quel suo comunicare da coccodrillo minaccioso fatto di sguardi laterali, spostamenti misurati e sicuri, incedere deciso e fermo. Il Marveggio si buttò come avrebbe fatto un beduino rimasto a piedi nel deserto causa morte del cammello: entrata fino alle ginocchia, poi tuffo di pancia a braccia aperte, sguardo estatico, “aaah” di godimento, bracciate lente a rana, bracciate rapide a stile libero, capriola in acqua, conclusione appeso ad un ramo spiovente sul cerchio liquido.
Molto soddisfatto.
Il Bomba, la cui attitudine a provocare il Piccolo non veniva sedata nemmeno da dosi massicce di cibarie, cosa fa se non aspettare che lui si avvicini torvo e cupo all’acqua (mani sui fianchi) e tirargli un boccione a venti centimetri dai piedi?
Rincorsa, il Bomba in acqua, il Piccolo sopra, strangolamento prolungato, sbattere disperato di braccia, il Pelo dice “piantala”, il Marveggio dice “varda che muore!”, il Piccolo non demorde, dice cavernoso “ti diverti così?”, a due secondi dalla morte molla, il Bomba tira fuori la testa di scatto, respira come per riempirsi di tutta l’aria del bosco, si riprende, guarda il Piccolo, sta per insultarlo, poi lo guarda meglio, no, meglio di no, nuota via brontolando.
Sono arrivati.
Un pomeriggio alle cascate di Arquino era sempre uno sballo. Dalla Valmalenco arrivava un’aria fresca che era un piacere, di gente non ce n’era quasi mai perché il luogo si era fatto la fama di pericoloso, e le pozze che si alternano alle cascate sono uno spettacolo che neanche la piscina più bella può eguagliare. Il tempo trascorreva così, tra nuotate, sonnecchiamenti al sole, scherzi del Bomba (non riusciva ad astenersi per più di venti minuti) e tuffi con urlo dopo volo con liana. I quattro amici stavano bene insieme. Guardarli su alle cascate di Arquino, in quella estate calda, significava vedere quattro ragazzi semplici, non destinati a chissà quale futuro, ma genuini, non complicati, con i ruoli definiti nel gruppo, sempre d’accordo quando si trattava di divertirsi. Dentro quel verde e nella schiuma bianca eccoli ancora sereni, ancora senza grandi preoccupazioni, per un po’, in quella natura e in quella terra viva e accogliente, che è la loro terra, e si vede, perché ci stanno bene, in quel verde liquido.
Quel pomeriggio accadde che trovarono un cane. Stavano sguazzando con urla ed esibizioni da tagliatori di teste quand’ecco uno scodinzolare tra le foglie, un guaire, un agitare la coda e un arf, arf, arf, lingua a penzoloni, tra i cespugli. Tutto contento un cagnotto sperlufito, incrocio iena-pastore bergamasco, sbuca fuori dal verde, procedendo di sghimbescio, tremante per la felicità di non essere più solo. Le costole bene in vista dicevano che era a dieta da tempo, ma l’energia che metteva in quel suo tremare di gioia e avvicinarsi di traverso frustando la vegetazione con la coda facevano pensare ad una forza naturale indipendente dal nutrimento, e poi gli occhi, neri, belli e grandi, comunicavano sentimenti più che umani. I quattro lo incitarono ad avvicinarsi, così lui entrò poco a poco in acqua e nuotò fiducioso verso il gruppo. Sembrava proprio contento di aver trovato compagnia, e soprattutto quella compagnia, perché era tutto un giocare, e abbracciarlo, e accarezzarlo, baciarlo, nuotargli sopra e sotto. E lui, desideroso di fare bella figura, pur denutrito si trascinava continuamente a prendere e riportare i pezzi di legno che venivano tirati in acqua con la convinzione che il gioco gli piacesse. Nel laghetto di smeraldo i quattro amici avevano sciolto ogni atteggiamento, ogni recita, non erano più né duri, né forti, né cattivi, erano quattro ragazzi con un cane, giocavano allegri, e lui regalava leccate a tutti, e nuotava per accontentare tutti, e se gli si metteva una mano sul torace si sentiva il cuore martellare forte, ma il cane non smetteva di accontentarli felice per le carezze e i baci sul muso che riceveva.
Verso le cinque il Bomba uscì dall’acqua per farsi un panino, così, quando si sprigionò dalla carta oleata il profumo di prosciutto cotto, il cane schizzò verso il Poldo Sbaffini carico di aspettative, e affamato nella sua fame abituale dall’esercizio acquatico, si sedette sotto il panino, con la coda che diceva “Che fame! Che buono!”. “Arf, ium. Io sono qui che aspetto…neh”.
Uscirono anche gli altri e misero mano alle merende. Incominciarono a girare frittate, e fette di casèra, pane di segale, Duplo, Ciocorì, salame di cantina, chinotto, vino rosso, mele, in un’orgia di cibi e bevande in cui il cane venne rimpinzato al punto che, con la pancia gonfia, alla fine si addormentò con i suoi nuovi amici, la mano del Pelo sul muso, le zampe posteriori in acqua sopra i polpacci del Piccolo, che ronfava a pancia in giù.
Mentre quel bel pomeriggio domenicale si scioglieva nella sera calda, i cinque dormivano un sonno invidiabile, giovane e pesante, di quelli che poi l’età adulta riduce, assottiglia fino a farli diventare dei ricordi, sostituiti da lievi assopimenti, da poche ore leggere dormite neanche sempre.
Il cane, beato, pensava probabilmente che quella nuova condizione sarebbe stata definitiva e che avrebbe avuto affetto e merende tutti i giorni, per cui era il più contento, sembrava quasi che sorridesse sotto i baffi, tra il pelo ispido, e muoveva la coda anche nel sonno, guaiva, pensando alla nuova famiglia, dopo chissà quali solitudini e digiuni.
Il frullare dei calabroni si mischiava alle ricognizioni dei tafani, mentre il rumore della cascata sovrastava ogni suono. Restarono così più di un’ora, e quando si svegliarono (il primo fu il Marveggio: aveva cercato di lavare via il cemento dalla tuta, non ottenendo nessun risultato positivo, anzi, trovandosi tra le mani un “indumento” che sembrava pesare un paio di quintali, per cui probabilmente uscì dal sonno a causa di un incubo nel quale lui era oppresso da quello scafandro terribile) trovandosi sudati decisero di ributtarsi nell’acqua. Il cane li seguì, contento ma pensieroso, portato via dai sogni per ricominciare il gioco che piace tanto agli umani, del bastone riportato.
Sembrava giulivo, affaticato ma felice, anche perché si era pure guadagnato un nome, il Pelo lo aveva battezzato Fulmine. Dentro l’acqua, tra la schiuma ribollente delle cascate, nel verde trasparente saltavano i quattro amici, nuotavano con il cane, risalivano in superficie dopo essere rimasti sotto per competere in gare di resistenza, lanciavano bei sassi piatti e rotondi, scelti con attenzione, sul profilo liquido increspato, ottenendo salti trasversali ripetuti delle pietre levigate, in un continuo sfidarsi e stabilire record.
Così tutto sembrava perfetto, in quel pomeriggio domenicale caldo e sereno, in cui i quattro amici erano ciò che dovevano realmente essere, cioè quattro adolescenti vivaci e forti, resi allegri dallo stare assieme nei colori della loro terra magnifica, dentro il rumore allegro e potente delle cascate di acqua ghiacciata, tra rive di salici, castagni, noccioli e ciliegi, guizzanti, liberi, con l’amico cane.
Accadde però che il Bomba spedisse il suo pezzo di legno in un punto pericoloso, dove l’acqua, dopo aver rallentato nel creare una pozza larga, riprendeva velocità e si lanciava verso la cascata successiva in quell’alternarsi di terrazze ampie e naturali.
Fulmine, la lingua penzoloni, si fiondò generosamente verso la barchetta galleggiante tra le onde, prendendo la rincorsa nei pochi metri di riva, che appena poteva guadagnava, con la speranza che lo lasciassero lì, che lo facessero giocare un po’ all’asciutto.
Si buttò, nuotò, ci mise tutta l’energia che aveva, faticò perché il lancio era stato lungo, il legno era lontano, trascinato ormai dalla corrente nel vortice di acqua che si avvicinava al salto. Raggiunse quel maledetto pezzo di albero, lo serrò tra i denti e fece per tornare, girando su sé stesso con rapidi colpi della coda usata come un timone, ma, se non fu difficile porsi in direzione della riva, fu impossibile guadagnare terreno e i suoi occhi, passando in un battibaleno dalla serena rassegnazione al terrore, dissero ai ragazzi che quel suo agitarsi nel combattere le onde, piccole ma potenti, senza guadagnare un solo centimetro, anzi, perdendo terreno, significava che era preda dell’acqua, la quale acqua faceva il suo lavoro senza cattiveria, , andava come sempre dai ghiacciai del Muretto e dello Scalino verso l’Adda, e così verso il mare, puntuale e forte, come sempre. Micidiale e subdola, ma senza volerlo.
“Fulmine! Forza!”.
“Vieni qui! Nuota!”
I quattro amici intuirono subito che il cane era in pericolo, ma, in un primo tempo, contarono sulle capacità di sopravvivere che evidentemente un animale con quegli occhi cisposi, arrivato fino a loro sbucando dal bosco come un pellegrino tenace, doveva avere.
Ma presto capirono che il torrente era molto più forte e deciso del loro amico spaventato, che non smetteva di nuotare, ma lentamente veniva trascinato verso il salto, che portava il letto sassoso dieci metri più in basso. Avevano paura di avvicinarsi troppo a quella zona infida e sfogavano la preoccupazione e l’ansia per le sorti del cane in continui esasperati incitamenti.
Il Piccolo salì a riva e incominciò a tagliare un lungo ramo di salice con la sua mèla. Lo portò in acqua, ma si rese presto conto del fatto che , perché raggiungesse il malcapitato, doveva avvicinarsi moltissimo alla zona pericolosa, e questo lo impauriva. Fece una serie di tentativi, allungando il braccio con contrazioni dolorose del volto, ma mancavano sempre quattro metri almeno, e per ridurre quella distanza avrebbe dovuto entrare in pieno nella zona violenta. Fu a quel punto che il Pelo prese in mano la situazione e disse: “Tutti qui facciamo la catena!”.
Nel punto più vicino alla riva venne posto il Piccolo, che, con quel corpo da torello, doveva fare da ancora. Lui teneva per mano il Marveggio, che teneva il Bomba, che teneva il Pelo. Ma non bastava. Mancavano sempre due metri. E intanto Fulmine perdeva terreno. Continuava a nuotare, ma era stremato. Il Pelo tentò di tutto. Si fece tenere per una caviglia, fece allungare i compagni e stirò se stesso all’inverosimile, ma era sempre lontano. Allora sciolsero la catena. Si guardarono. “I vestiti!” disse il Marveggio, e corse verso la sua tuta cementificata.
Lo stesso fecero gli altri, e così, tornando in acqua, ricostruirono la catena ponendo tra loro un capo di vestiario. In fondo si mise sempre il Pelo, con i jins tagliati maxi-gonna a frange del Piccolo fra le mani.
Mancava un metro.
Il Pelo, tenuto per una caviglia, si lanciò, brandendo l’indumento dell’amico con le due mani, e con esso avvolse la nuca del cane a mò di sciarpa, tirò verso sé, con una manovra sincronizzata disperata, a quel punto necessaria, perché l’amico quadrupede, messo in pericolo da loro, o veniva salvato, o si sarebbe lasciato andare, perché non ce la faceva proprio più, i suoi occhi si stavano chiudendo, i movimenti erano stanchi.
Il Pelo tirò a sé il cane, e gli altri tre trascinarono verso riva l’uno e l’altro, con un “tiraaa!” liberatorio.
E tutti nell’acqua bassa ad abbracciarsi, a darsi manate sulle spalle, a baciare Fulmine, che scodinzolava, si agitava felice, passava dall’uno all’altro per ringraziare, senza rimproverare, senza ricordare che erano stati loro a metterlo in pericolo. Aveva dimenticato l’aspetto brutto della faccenda, come solo i cani e i bambini sanno fare. Dopo un minuto buono di feste si rese conto di avere ancora tra i denti il pezzo di legno, ma non lo depose nell’acqua o suoi sassi. Lo videro salire verso un cespuglio e, dopo essersi voltato verso l’acqua, scavare, per nasconderlo bene, sotto un bello strato di terra.
Il Piccolo tagliò alcune frange dei jins, le legò tra loro, costruì un guinzaglio morbido. Guadagnarono la via del ritorno, pensierosi, stanchi, grati al nuovo amico che scodinzolava felice, dimentico di tutto, contento di leccare quelle otto mani che, a turno, si assicuravano che fosse lì, vivo.
1963
Grande anno per la cultura.
Primo Levi pubblica “La tregua”, Natalia Ginzburg “Lessico familiare”, Gadda “La cognizione del dolore”.
Luchino Visconti è regista di “Il gattopardo”, Kubrick gira “Il dottore Stranamore”, Fellini “8 e mezzo”, Hitchcok “Gli uccelli”.
A Venezia si istituisce il premio Campiello per la narrativa.
La Mira Lanza pubblicizza il detersivo Ava con il pulcino Calimero e Gino Bramieri pubblicizza il moplen, materiale che frutta il premio Nobel per la chimica al suo inventore, Giulio Natta.
Muore papa Giovanni XXIII, poco dopo aver promulgato l’enciclica “Pacem in terris”. Gli succede Paolo VI, arcivescovo di Milano.
“Ho un sogno…” è la frase più famosa del discorso di Martin Luther King, che sfila alla testa di duecentomila persone per affermare i diritti civili in America.
Muoiono duemila persone nel disastro del Vajont, in provincia di Belluno, per cedimento di una diga.
Il presidente degli Stati Uniti, J.F. Kennedy, viene ucciso a Dallas.
CAPITOLO QUARTO
Nella settimana di ferragosto c’erano le ferie. I quattro amici avevano già i ritmi degli adulti, perché, abbandonata la scuola dopo la terza media e dopo un numero variabile di bocciature, lavoravano, chi nel settore dolciario, come il Pelo, chi in quello del latte e dei derivati, come il Bomba, chi nell’artigianato cementifero, come il Marveggio, chi nella grande distribuzione, come il Piccolo (supermercato Scherini).
Aspettavano quella settimana di ferie facendo progetti quattro mesi prima, e come sempre questi progetti avevano un punto di partenza fortemente caratterizzato dalla megalomania e dalla esasperazione (Hollywood, in subordine Londra, in subordine Parigi, in subordine Imola, eventualmente Maranello, semmai Rimini, …allora Colico almeno, lago di Como), e un punto di arrivo piuttosto vicino, conosciuto, a buon mercato: sei giorni a Caspoggio.
Nell’estate del 1965 affittarono un monolocale con angolo cucina e persino pergolato di vite del Canadà, tavolo esterno con quattro sedie di plastica, possibilità di usare la fontana.
Madri e nonne avevano preparato vestiti e cibarie per due mesi, così, quando loro presero possesso della stanza, in men che non si dica quasi ogni centimetro fu coperto da sacchetti di polenta gialla, tocchi di formaggio incartato, scatole di cerotti, calzettoni, calzoni alla zuava, teglie di maccheroni ai quattro formaggi, berrette di lana con pon pon, mutande al ginocchio, Vegetallumina.
Come ogni branco di maschi liberi e in trasferta che si rispetti, anche quello aveva un progetto preciso: divertirsi il più possibile senza orari né regole, stare svegli di notte e dormire di giorno, avere di che raccontare poi, giù in città, nei lunghi mesi invernali, attorno all’argomento “donne”.
Molto ottimisticamente avevano anche posto fuori dalla porta un bollino autoadesivo giallo, che, se sulla maniglia, voleva dire: occupato, non entrare. Già la prima sera si misero in tiro, e, imbrillantinati e lucidi, passeggiarono per le vie del paese. Erano tutti esaltati e speranzosi, carichi di aspettative, con quell’abbronzatura messa a punto sui sassi dell’Adda leggendo Tuttosport o il Monello, e camminavano scrutando negli sguardi della gente se prendeva forma quell’ammirazione che ritenevano di dover suscitare in virtù del loro fascino cittadino.
Ma i caspoggini e i non numerosi turisti della bassa sembravano non accorgersi proprio di loro, ed, incrociatili, tiravano dritto, lasciandoli piuttosto delusi.
Eppure, tutti i dettami della moda erano stati rispettati, macchè dico rispettati, erano stati molto scrupolosamente seguiti.
Regole generali del 1965.
Capelli: lunghi, a coprire le orecchie e la fronte, stirati con il phon, imbrillantinati indietro o no, o liberi in avanti tipo pastore maremmano, assolutamente non corti, riga laterale, riga centrale, niente riga.
Vestiti: camicie sgargianti con colletti a punta o arrotondati ma sempre chilometrici, polsino lungo, volendo anche due bottoni, oppure gins e maglietta (meglio bianca) senza maniche, per dare spazio ai bicipiti (questo genere di vestimento era di solito accompagnato da una grossa dose di brillantina, in inglese “grease”).
Maglia a righe.
Pantaloni attillati.
Per le donne: mini e microgonne alla Patty Pravo, cinturone dodici-diciotto centimetri in vita.
Modelli: per le donne non più Marilyn Monroe, piuttosto Catherine Spaak.
Per i maschi: Mick Jagger e Brian Jones (Rolling Stones).
Trucco per le donne: spesso tipo prostituta anziana, collana, orecchini, vestiti in velluto o tessuto per tappezzare pareti, jabots, pellicce, calzemaglie, lamè, stivali, tacco alla gatto con gli stivali, tacco ammazza-malleoli, zatteroni che avrebbero poi ispirato i Cugini di campagna, colori da giostra. Ma l’universo anni ’60 era ricchissimo di modelli e attraverso le pagine di rotocalchi, settimanali, fotoromanzi e riviste proponeva vari eroi.
I Greasers, quelli alla John Travolta.
Gli Skins (o skinheads), testa rasata, gins corti, stivali Doc Martens, bomber, bretelloni, notevole diametro toracico, birra a fiumi, tifo calcistico.
Gli Hippies, o figli dei fiori, che al tempo della trasferta a Caspoggio del Pelo e dei suoi compari stavano per nascere, identificabili per il capello lungo e il vestito sgargiante. I Jefferson Airplain e i Greatful Dead erano i profeti di quel rock psichedelico, stimolato dall’LSD e dalla marijuana, che ispirava i “capelloni”.
I Rockabilly, variante dei Greasers, passione per il rock’-n’roll e il rockabilly. Stivali a punta, sempre un rifermento ad Elvis nel vestiario, macchine decapottabili.
I Bikers, pelle nera, tatuaggi, occhiali scuri ed Harley Davidson, identificabili nella banda degli Hell’s Angel (colonna sonora dei Deep Purple).
I Teddy boys, giacca con maniche di pelle chiara (Teddy) e gins, ciuffo e basette molto vistosi.
I Beats, droghe e viaggi, si ispiravano a Ginsberg e a Kerouak, Dizzy Giliespie e Charlie Parker.
I Mods, giaccone parka, scarpa firmata, cravatta, vespa o lambretta, anfetamine, propensione alla rissa (attitudine, questa, per così dire trasversale, tra i gruppi), musica degli Who.
Ma i quattro su a Caspoggio non erano discepoli di qualcuno in particolare, semplicemente scimmiottavano la moda come tutti, e soprattutto contavano sullo sguardo torvo, sul ciuffo, sul passo ondulante.
Prendevano un po’ di qua e un po’ di là, senza intellettualismi, seguendo la moda come si può fare quando si hanno pochi soldi e poche idee, anche quelle poche prese comunque dalla carta stampata.
Dunque, la sera uscirono come galli da combattimento, ben decisi ad inaugurare una vacanza tutta sesso e divertimento. C’era di mezzo la loro faccia. Giù al bar dell’Italo o al Kappa Due, nelle sere del lungo inverno sondriese, e la domenica, davanti al Campari o al Crodino con le patatine e le olive, tutti avevano da raccontare qualcosa, più o meno inventato, certo, ma qualcosa tiravano fuori.
Al Pelo, in particolare, non andava di propinare frottole, o aveva qualcosa da dire di vero, o preferiva tacere.
In realtà, poi, lui non faceva per andare a dire, ma si trovava spesso a fare da apripista, bello com’era, e si adattava così ad una caccia aperta ed allargata, a beneficio del gruppo, quando lui sarebbe stato un solitario, un predatore taciturno.
Dopo aver girovagato per mezz’ora si ritrovarono nel microscopico luna park che allietava Caspoggio nei mesi estivi. Quattro roulottes, la musica di sei anni prima, il tono falso allegro del gestore della piccola giostra per bambini, il gioco della pinza che ti fa credere ogni volta che hai vinto l’orologio, poi quando è lì, è appeso, e sta andando verso il buco, e sei convinto che è tuo, già te lo senti al polso, lui cade, ritorna tra i pelouche e gli accendini placcati finto-oro, e tu ti senti imbrogliato un’altra volta, dici “bastardo!”, dici “basta, non mi freghi più!”, dici “nooo!”, dai un pugno al vetro. Su a Caspoggio aveva molto successo il punching ball collegato con la freccia che si fermava su parole come “femminuccia”, “giovanotto”, “sposato”, “torero”, “superman”.
Attorno al perone di cuoio si erano radunati alcuni indigeni, che tiravano legnate in vari stili: con rincorsa, giravolta e pugno, a due mani, dall’alto, con urlo, con bestemmia, con minaccia, di testa, calcio, colpo di karatè. Erano in piena sfida.
Uno in particolare, formato armadio, testa rasata e portafoglio gonfio su natica muscolosa, si definiva “el prum de la Valtelina”, il primo della Valtellina, e tirava dei cartoni di diritto con rincorsetta che scuotevano tutto il baracchino e portavano la freccia a tremare fino in fondo, verso la scritta “superman”, cioè al massimo.
Continuava a mettere giù monete, quasi volesse fare a pezzi la macchina, e con quei modi da magilla gorilla dopo ogni mazzata faceva un paio di giri sul posto, come per dire “visto?”.
A turno, gli altri del gruppo si esibivano timidi, stimolati dal grosso compagno, ma non arrivavano mai oltre “mezzemaniche”, “pensionato”, “filosofo”.
Il risultato migliore venne ottenuto da un piccoletto tuttonervi con banana che portò la freccia a tremolare su “studente”.
Il Pelo, il Piccolo, il Bomba e il Taleggio si erano messi seduti sulla predella attorno all’autoscontro, e guardavano silenziosi quell’esibizione. Con gli occhi socchiusi e quel fare da cittadini (sigaretta tenuta tra le labbra, gambe accavallate) davano un po’ fastidio alla fauna locale, ma erano pur sempre un pubblico.
Si dice che a cominciare fu il Taleggio.
“Tu lo puoi battere”.
Non si era rivolto a nessuno, aveva solo impercettibilmente mosso la scatola cranica verso destra, ma non vi erano dubbi circa il fatto che si rivolgesse al Pelo, il quale Pelo non disse niente, mantenne la sua immobilità da serpente, continuò a succhiare lentamente la nazionale e a guardare i pugilatori, ma piuttosto assente, annoiato.
Il Bomba disse: “Il Piccolo e il Pelo possono batterlo”.
E il Piccolo: “Ma come batterlo? Non si può fare più di superman”.
Il Taleggio: “Sì, ma con meno rincorsa e anche meno scena”.
Un tipo alto e magro era arrivato a “fidanzato”, dopo di lui, un tracagnotto tuttocurve strappò un applauso grazie al piazzamento “vigile urbano”.
I quattro restarono lì a guardare.
Probabilmente nessuno si sarebbe mosso se non ci fosse stata una bionda slavata, una milanese (i turisti a Caspoggio provenivano in genere da tutta la Lombardia, ma erano identificati con il concetto omnicomprensivo e di taglio non elogiativo di “milanesi”) che, tra un giro e l’altro sull’autoscontro, aveva lanciato qualche sguardo al quartetto, portando il Piccolo (sempre molto eccitabile) al convincimento che vi fossero alte possibilità di intrecciare un rapporto proficuo con la metropolitana e le amiche, in caso di successo. Le testimonianze non sono concordi. C’è chi afferma che il primo ad alzarsi e a dirigersi verso il marchingegno fu il Pelo (e quando lo racconta sembra di sentire le campane di una colonna sonora di Ennio Morricone), c’è chi asserisce essere stato il Piccolo a sollevarsi per primo, a dare un’occhiata alla ragazza, ad incamminarsi lento verso il sacco, altri indicano nel Bomba e nel Taleggio i due temerari che diedero il via alla spedizione punitiva, ma una cosa è certa: quella sera, su a Caspoggio, i quattro cittadini non rimasero a guardare, perché se è vero che in montagna c’è l’aria buona e l’attività fisica, agricola e pastorale, stimola lo sviluppo muscolare, è anche vero che Sondrio resta il capoluogo, e i suoi figli possono doverlo ricordare (questo è ciò che si dice nei racconti, con sentimento campanilistico, ma è probabile che i motivi della sfida fossero diversi, e tra essi soprattutto la voglia di mettersi in mostra con le turiste).
Quando il Piccolo e il Pelo furono a cinquanta centimetri dal punching ball cessarono gli schiamazzi, tutti si fecero da parte, il Piccolo tirò fuori lento il portafoglio, tenne la moneta nella mano destra alcuni secondi, la inserì, la ruota si illuminò, calò il braccio metallico con attaccato il sacco, la voce disumana di ferro disse “fai vedere ci sei”, lui si sbilanciò sulle gambe forti, guardò la grossa pera come per disintegrarla, caricò indietro e sbam!
“Artigliere”.
Non male, ma il gorilla sorrise. Disse: “El prum de la Valtelina so sempri mì!”
Il Piccolo fece qualche passo indietro, il Bomba disse “prova tu” rivolto al Pelo.
Il Pelo guadagnò la piattaforma, lentissimo, inserì la moneta nel silenzio più totale, si concentrò (ebbe occasione di raccontare che in quei pochi secondi gli passarono nella mente immagini di Cassisus Clay, di Nino Benvenuti, di Monzon, i racconti del nonno su Carnera, il volto di Che Guevara) caricò secco, tirò: “Superman”.
Restò lì, fermo, mentre gli amici gli davano manate sulle spalle e dicevano “bravo!”, dicevano “lo sapevo!”, ridendo dicevano “sei sempre il più forte!”
Tutto ciò al campione locale non piacque. Naturalmente il Pelo non infierì, una volta bastava, così se ne andò via, verso l’autoscontro, seguito dagli amici. Salirono su due auto.
C’era poca gente quindi si poteva andare via veloci, si poteva puntare a media distanza una macchina tirando dritto indisturbati fino al tumpf conclusivo.
Era proprio quello che facevano i quattro, due su ogni veicolo, in un loro gioco privato. Il Pelo stava rilassato, seduto al posto del passeggero, col braccio sinistro disteso dietro alle spalle dell’autista, il Bomba, e si faceva portare così, con un mezzo sorriso da trionfatore, da imperatore romano sulla biga, reso benevolo dalla gloria.
Andavano avanti da sedici minuti (quattro gettoni), tra frontali, scontri laterali e rincorse, quando, proprio mentre girava il quarantacinque “24.000 baci”, la milanese bionda occupò una macchina, di fianco ad un’amica pilota, e le due cominciarono a giracchiare così, senza convinzione, a zig zag, con un fare tra l’accondiscendente e l’annoiato. Non che fossero delle grandi bellezze, ma a Caspoggio, nell’estate del ’65, non si poteva sperare in qualcosa di meglio, e comunque, in quanto a minigonne e relative cosce, le due ragazze non avevano niente da invidiare alle modelle di tante copertine.
La manfrina andò effettivamente avanti in questo modo per alcuni minuti, con i quattro sondriesi che facevano i finti tonti e le due milanesi che si atteggiavano a gran dame, in quella serata al luna park fatta di imbranataggine, semplicità, ormoni, voglia di sentirsi vivi.
Tutto filava liscio e creava un’atmosfera carica di aspettative e progetti, quando l’attrazione locale, il forzuto che era stato umiliato dal Pelo, scese in pista con un compare.
Non si sedette regolarmente, si mise sullo schienale, una gamba all’esterno, tenendo con la sinistra il volante e con la destra la sbarra di ferro che dava elettricità al veicolo, così disinvolto e tronfio che neanche un Manuel Fangio dopo il gran premio di Monza avrebbe potuto esprimere tanta pienezza di sé e dominio sul mezzo meccanico. Fu subito chiaro a tutti quali fossero le sue intenzioni quando puntò sparato sul Pelo, lo investì a tutta velocità aumentando l’effetto del botto con una sua spinta del corpo proiettato in avanti (manovra messa a punto nel corso di varie estati che avevano visto nella pista dell’autoscontro la massima attrazione delle serate noiose), e se ne stette lì tre secondi ghignando e godendosi gli effetti della botta. I quali effetti non erano dei più lievi, visto che il Bomba era stato sollevato di dieci centimetri e il Pelo, nella sorpresa, aveva potuto mantenersi al suo posto solo grazie ad una presa tenace al veicolo.
Non che questo genere di attacchi o sfide fosse una novità. Anche sulla pista dell’autoscontro si erano prodotti ed esercitati caratteri dei più diversi, da quello di chi era lì perché semplicemente gli piaceva guidare, a quello dichi amava soprattutto l’aspetto del botto, a quello di chi voleva trovarsi una vittima in ogni caso, a quello di chi evitava, a quello di chi utilizzava il rettangolo di plastica come terreno di abbordaggio, giacchè la timidezza, lì, poteva nascondersi sotto l’aggressività degli scontri, come da bambini, quando si esprime l’interesse verso l’altro sesso con spinte e goffi attacchi guerreschi.
Insomma, tutto avrebbe potuto restare dentro i limiti del socialmente accettabile, se non ci fosse stata la determinazione dell’energumeno a trasformare l’innocuo girovagare sulla pista in un’occasione di rivalsa nei confronti di quel cittadino che aveva offuscato un successo che si rinnovava ad ogni arrivo estivo del piccolo luna park.
Fu dopo il quinto attacco che il Bomba perse le staffe, scese dalla macchina e, senza dare il tempo a nessuno di capire, fermarlo, portarselo via, si avventò sul nemico che, benchè fosse il doppio di lui, colto di sorpresa volò all’indietro, gambe all’aria, con un “porc!...” che non si fece finire.
Il Bomba gli fu sopra, ed iniziò a martellare cartoni destro-sinistro, un po’ tecnici, (metodo da lotta urbana, non lasciare all’avversario il tempo di riprendersi e di reagire) e un po’ alla carlona (aveva accumulato odio fin da quando aveva visto quell’altro tutto pieno di sé davanti al punching ball, e poi quell’odio era lievitato creando lo spirito di rivalsa che aveva avvolto il Pelo nella sfida, per raggiungere il livello massimo a causa degli attacchi sull’autoscontro).
Ma non ci volle molto perché l’armadio si destasse dallo stupore, così il Bomba venne sbalzato di un paio di metri e si trovò, sopra, i novanta chili dell’avversario (lui ne pesava sessantatrè).
Da quel momento la rissa fu generale. Quando il Pelo si scaraventò sull’antagonista, gli altri due gli diedero subito man forte, attaccati a loro volta da un gruppo di cinque indigeni. Le milanesi e i pochi occupanti delle altre auto abbandonarono la pista, e tutti si sistemarono ai bordi, per godersi quel rissone gratis, mentre il gestore della pista sbraitava “Basta! Venite fuori! Chiamo i carabinieri!”. Questo, nel microfono, per cui scatenò una baraonda che richiamò l’attenzione di parecchia gente.
Il Pelo faceva volare crapadoni da par suo, l’altro, con gli occhi iniettati di sangue, saettava pugni con le mani chiuse a mantice, nello sfogo di quell’umiliazione che per lui rappresentava un cocente sentimento mai sperimentato, e ognuno degli altri dava il meglio di sé, su quella pista che vedeva disseminati gruppi disfacentisi e rifacentisi in modo diverso a seconda che si corresse in soccorso dell’amico in difficoltà, ci si lanciasse con urlo di guerra sul nemico, si fosse atterrati risolutamente.
Andò avanti così per parecchio tempo, perché i carabinieri, chiamati dal gestore, dovevano arrivare da Chiesa Valmalenco, e quando la camionetta frenò chiassosamente nello sterrato, sulla pista c’erano una decina di picchiatori con i vestiti a pezzi, graffi sulle parti scoperte, tumefazioni, sangue da naso e labbra, molti senza scarpe, quasi tutti sfiniti, in quella sera del 13 agosto 1965, a Caspoggio.
I due caramba, non molto piazzati (anzi, tracagnotti, causa latitudine di provenienza) raggiunta la pista trotterellando si trovarono davanti una situazione che avrebbe richiesto molti uomini per essere affrontata e risolta, e si diedero da fare, sì, questo lo ricordano tutti i presenti, per districare i grovigli e riportare l’ordine, ma alla fine solo i due colpi sparati in aria con la Beretta di ordinanza dal maresciallo Giarletta posero termine alla rissa.
Per trasportare tutti in caserma, a Chiesa in Valmalenco, dovettero attendere i rinforzi da Sondrio. Quaranta minuti dopo gli spari tre camionette lasciarono il luna park, portando dieci giovani infreddoliti e sbrindellati, silenziosi, seri, che nascondevano nella maschera rigida il dubbio circa il fatto di essere perdenti o vincenti.
Il convoglio lasciò sullo slargo davanti all’autoscontro una piccola folla di curiosi: turisti, soprattutto, che avevano avuto qualcosa da vedere, in alternativa alla noia di giornate piatte e tiepide.
In caserma gli interrogatori e i verbali andarono avanti fino al mattino.
Tutti risposero da duri.
Nessuno attribuì la responsabilità dell’accaduto ad altri.
Quando uscirono vestiti con magliette nemmeno integre nel freddo delle sette di mattina ( i carabinieri avevano avuto la buona idea di lasciare andare i due gruppi in momenti diversi) si incamminarono verso Caspoggio a braccia conserte, veloci, con la voglia di dormire e chiudere quella faccenda alla svelta.
Per il Pelo e gli amici questo fu l’unico accadimento significativo della vacanza, che, in quando al resto, non lasciò altro da ricordare se non, forse, un paio di spaghettate al tonno verso le due di notte, un poker-strip tra i quattro la sera di ferragosto, un paio d’ore liete trascorse nel boschetto di Chiareggio giocando a nascondersi, perché, alla fine, se dovevano scegliere tra il fare i bambini o superare il confine e mostrarsi uomini, quando erano tra loro preferivano ancora stare di qua.
1964
Tokio ospita le Olimpiadi, Cassius Clay diventa campione mondiale dei pesi massimi, l’Inter vince la sua prima Coppa dei Campioni.
Pasolini gira “Il vangelo secondo Matteo”, Sergio Leone “Per un pugno di dollari”: inventa spaghetti western.
Sartre rifiuta il Nobel per la letteratura e Bellow pubblica “Herzog”.
Nasce la minigonna, la polizia e la magistratura devono intervenire per la comparsa dei primi topless sulle spiagge.
Arriva in Italia la Barbie e viene fondata la SIP.
Presidente della Repubblica è Giuseppe Saragat, negli Stati Uniti è Lindon Johnson.
Paolo VI (prima volta per un papa) visita Israele.
A Gerusalemme viene fondata l’OLP.
CAPITOLO QUINTO
L’Italia del boom proseguiva la sua marcia verso i 3.000.000 di televisori, i 5.000.000 di telefoni, i 6.000.000 di radio e i 4.000.000 di automobili. Più di 300.000 italiani si erano trasferiti in Francia, Germania o Svizzera per essere occupati in lavori umili m meglio pagati che in patria, alla ricerca di quelle “tre emme” che costituivano lo scopo da raggiungere: moglie, macchina e mestiere.
La Valtellina era integrata in questo processo storico, e il fenomeno dei frontalieri, che superavano il confine elvetico ogni lunedì mattina per riattraversarlo il venerdì sera, si allargò rapidamente.
Mentre le Acli e il Movimento Studentesco lottavano per strapparsi ogni giovane che volesse costruirsi una coscienza politica, i nostri quattro vivevano un periodo di transizione che li portava lentamente verso l’età adulta, ma con una certa ritrosìa, una certa difficoltà, e poca voglia di abbandonare l’età del gioco per entrare in quella dei doveri e dei progetti.
Durante il giorno lavoravano come adulti, ma alla sera, e di sabato, di domenica, scivolavano sempre dentro quel mondo di bambini, che avrebbero lasciato solo lentamente e con una certa nostalgia di cui non erano consapevoli in quel tempo.
Giocavano a scala quaranta e a soldi, con le carte di “Le ore” (donne nude sul dorso), o fumare davanti al frizzantino fuori dal Kappa Due, come vedevano fare nei film, o truccare i cinquantini, erano tutte attività che svolgevano per sentirsi grandi, ma, in realtà, appena potevano si buttavano su passatempi ed avventure infantili.
L'episodio che ebbe come teatro il biscottificio Domeneghini ne è la prova. Il Pelo lavorava in quel laboratorio-negozio ormai da due anni, e riscuoteva la piena fiducia nel proprietario, il quale sentenziava volentieri "il Palmiro porta sempre a casa la sua giornata", intendendo con ciò dire che il giovane di bottega poteva anche essere lasciato libero di girare sul biciclettone nero con i due cesti davanti e dietro o di farsi una paglia a metà pomeriggio, perchè rispettava sempre i programmi dando soddisfazione al sciur DOmeneghini, che gli appioppava incarichi svariati e molteplici, vedendoli costantemente portati a termine.
Al capo piaceva quel ragazzo belloccio e con l'aria daa uomo, perchè riteneva che fosse una persona di cui poteva fidarsi. Gli aveva insegnato, in quei due anni di apprendistato, tutti i segreti dell preparazione della bisciola e dei brutti ma buoni, dei savoiardi e del panettone, instradandolo anche nell'attività commerciale propriamente detta: uso della cassa, ordini ai fornitori, compilazione dei libretti (già, perchè molte mssaie preferivano utilizzare il metodo della compilazione del libretto, con le voci delle merci acquistate giorno per giorno, e pagare poi a fine mese: retaggio delle tessere annonarie belliche, metodo più pratico del pagare ogni volta in un'epoca ancora priva di lettori automatici del prezzo, casse multiple e benefici della grande distribuzione organizzata, o impostazione del tipo "si paga il conto appena arriva il 27, così almeno il da mangiare è assicurato"?)
Avevano tutti fiducia in lui.
Dopo due anni, appunto, dall'assunzione, ricevette le chiavi dell'entrata, e così, da quel momento, se arrivava prima tirava su lui le serrande con disegnato il bambino paffutello che sgranocchiava il biscotto, allegro, sulle ginocchia della mamma sorridente.
Un giorno il Bomba gli dice: "Perchè non ci fai vedere il laboratorio?".
Era domenica pomeriggio (momento purtroppo sempre favorevole al concepimento di boiate e progetti demenziali). Si trovavano seduti sulle sedie del bar Italo, chiuso, avevano già asisstitito alla proiezione di "Una pistola per Ringo" (cinema Excelsior) e di "Il ritorno di Ringo" (cinema Odeon), il cielo era coperto e cupo, e non avevano nessuna risorsa per sfangare le ore di quella giornata di ozio, cosicchè la proposta del Bomba non apparve del tutto peregrina, anzi suscitò subito l'entusiasmo della combriccola, tranne che del Pelo, il quale si mostrò molto perplesso e poco disponibile.
Ma i tre, spinti dalla curiosità e dal timore di vedere sgomitolarsi un pomeriggio di noia, insistettero al punto che lui cedette, e siccome aveva le chiavi nel mazzo, s'incamminò verso il negozio, molto dubbioso, torvo, con quel suo sopraccigio destro sollevato, segno di preoccupazione.
Quando arrivarono, il Pelo si guardò attorno con moltissima circospezione, per poi decidere di fare entrare rapidamente il gruppetto, giacchè non si vedeva nessuno sui marciapiedi e alle finestre (...strano). Una volta dentro, dovette pronunciare con molta determinazione e con una non velata la frase "non toccate niente!", perchè la bramosìa di prendere, assaggiare, pappare a piene mani subito aveva illuminato gli occhi e stimolato l'acquolina in bocca, agli amici.
Dietro la vetrina del bancone si alternavano ventagli croccanti e lucidi, meringhe bianche e rosa, paste con la marmellata di albicocche, torte di lamponi e mirtilli, sfoglie lucide, cannoncini, teste di moro, strudel profumati, barchette con la spuma di cioccolato: il Bomba, il Piccolo e il Taleggio si sentiron dentro un sogno.
Il Pelo pensò che fosse meglio farli scendere nel laboratorio, sia perchè considerato meno stimolante, sia perchè era lontano dall'entrata, dalla strada, e i tre amici si erano fatti chiassosi, come se le papille gustative,stuzzicate, avessero a loro volta provocato l'attività delle corde vocali, in un ripetersi di "varda che roba!", e "posso assaggiare?", e "ne taglio un fettino col mio cortello, dai, che nessuno se ne accorge...", "fai mica il tirchio, Pelo...".
Sul pavimento del laboratorio troneggiavano enormi contenitori metallici dotati di pala rotante (in quel momento ferma) che accoglievano gli impasti lievitanti di varie preparazioni dolciarie. Sugli scaffali, allineati, barattoli di canditi, cioccolato fondente e al latte, zucchero a velo, noci, nocciole, confetti. Sui banconi, grandi bacinelle piene di confettura, cioccolato fuso, scaglie di cocco, mandorle, caramelle piccolissime e variopinte.
Il Bomba, ancora ancora, lavorando in latteria pur sentendosi come un dilettante passato nel mondo dei professionisti, manteneva la lucidità, ma gli altri due si trattenevano a fatica, volevano assaggiare tutti i colori di quel delirio beato, stimolati nella vista e nell'olfatto si sarebbero buttati più che volentieri su tutti quegli ingredienti prelibati.
Il Pelo riusciva a controllarli, ma solo tenendoli d'occhio molto da vicino.
Quando si assentò sette-nove secondi per salire le scale e controllare che nessuno dalla strada segnalasse un interessamento, trovò poi:
il Taleggio con la bocca chiusa ma piena, che lo guardava fisso (vicino ad una scatola di cartone ancora da chiudere con su scritto: "I biscotti al burro di Prosto"),
il Piccolo con la bocca chiusa ma piena, che lo guardava fisso (vicino ad una mega anfora ricolma di pezzetti di buccia d'arancia decorati con colate di cioccolato bianco!!),
il Bomba con la bocca chiusa ma piena, che lo guardava fisso (vicino ad una scatola rettangolare aperta della quale serpeggiavano stricia verdine e rosse, forse mela e fragola).
L'espressione dei quattro fu tale d ricordare molto da vicino quella di tre criceti in piena azione preparatoria per l'inverno di fronte ad un dobermann veramente incazzato, adirato, incredulo, effettivamente pericoloso.
I roditori, vistisi scoperti, temendo di doversi difendere o dare alla fuga con le guance gonfie, si affrettarono a manducare e triturare rapidamente, concentrati in quell'azione distruttiva parossistica, che poco lasciava al gusto delle prelibatezze.
Forse tutto sarebbe anche finito lì se il Piccolo, vittima di un raptus golosistico, non avesse allungato la mano destra verso quei pezzetti di buccia d'arancia del menga ricoperti di cioccolato bianco (accoppiamento miseria-nobiltà deflagrante vicino ad un torello di sedici anni).
Madonna!
Il Pelo scese le scale a zompi e si lanciò verso il Piccolo con l'intento di ucciderlo come minimo. Il Piccolo si diede alla fuga, e nel farlo ficcò ancora una mano predatrice e disperata nella buccia cioccolatata, come un condannato che fuma gli ultimi tiri, un annegante che tira l'ultima aria, un galeotto che spia l'ultimissima luce prima dei giri di chiave nella porta.
Ah, imprudente e sconsiderato!
Dalla gola del Pelo uscì un rantolo, una specie di urlo di guerra soffocato, e metre gli altri due, risolto lo spavento e stabilito rapidamente che la vittima era un'altra, davano via libera ad una serie infernale di assaggi, ingozzamenti, leccate, riempimenti di tasche, ebbe inizio una sarabanda di inseguimento, in cui il Piccolo correva e mangiava e il Pelo correva e cristonava, guadagnando terreno ad ogni secondo. La corsa tra bidoni di sciroppo e banconi infarinati ebbe fine solo quando il Piccolo, a causa della paura, dell'alto tasso glicemico e dalla rabbia per il fatto di trovarsi in tutto quel ben di dio senza la libertà di approfittarne, scendendo una scaletta che portava in un sottosuolo buio, inciampò e finì dritto in una mega-miscelatrice di pasta giallognola, che, all'assaggio, gli parve vaniglia ( un minuto dopo il Bomba, sceso a verificare, inserendo l'indice destro nel magma zuccheroso dal quale spuntava la capoccia del Piccolo, ebbe modo di affermare che invece era al gusto di zabaione). La condizone disperata, il finale grottesco, la faccia del Piccolo, giallo tipo epatite fulminante, l'incredulità che oognuno leggeva sul volto delgi altri, il non sapere se ridere o piangere, ebbero l'effetto di placare istinti e animi.
A quel punto il laboratorio-biscottificio Domeneghini si trovava in condiizoni come dopo la bomba. Il Pelo recuperò celermente la lucidità necessaria per impartire oridin molto decisi e restituire la struttura alla condiizone iniziale. Quasi.
Impiiegarono quattro ore. Attesero il buio, per uscire.
Quando lo fecero , se ne andarono uno ad uno, ad intervalli di cinque minuti.
Il Piccolo camminava rigido. In casa sua aleggiò per due settimane un caramelloso profumo di marsala all'uovo.
Tutto ciò accadde un pomeriggio domenicale del 1965, a Sondrio.
Il lunedì il signor Domeneghini e le maestranze si aggirarono sospettosi nei locali per tutta la mattina: sentivano puzza di qualcosa.
Forse ladri?
Eppure sembrava non mancare niente.
Nessuno sospettò del Pelo.
“Palmiro, controllato bene tutto?”
“A posto, capo, successo niente … manca niete …capo…”.
1965
Vittorio De Sica è premiato a Cannes per il film “Ieri, oggi, domani” (Marcello Mastroianni ulula sulle note di Abatjour”), in Russia è pubblicato, postumo, “Il maestro e Margherita” di Bulgakov.
Nino Benvenuti è campione dei pesi superwelter e Felice Gimondi vince il Tour de France.
Al Vigorelli di Milano, poi a Genova e a Roma i Beatles tengono concerti: i supporter italiani sono Peppino di Capri, Fausto Leali, Guidone e i suoi Amici, i Giovani, i New Dada.
Renzo Arbore e Gianni Boncompagni sono ideatori di “Bandiera gialla”, programma radiofonico che si allontana molto dagli schemi abituali dei palinsesti statali. Esce il primo numero de “Il Sole 24 ore”.
Si inaugurano il traforo del Monte bianco e il Piper a Roma.
Armando Testa è l’ideatore di Caballero e Carmencita, che pubblicizzano il caffè Paulista della Lavazza.
In Cina ha inizio la rivoluzione culturale.
Viene assassinato Malcom X, capo dei Black muslims.
Muore Churcill.
CAPITOLO SESTO
Al Bomba piaceva tanto ascoltare alla radio “Per voi giovani” condotto da Renzo Arbore.
Joe Tex, Martha and the Vandellas, il piccolo Stevie Wonder, Diana Ross, Aretha Franklin, i Temptations, erano voci nere, nuove, che a lui facevano venire la pelle d’oca.
Il Marveggio era un interista sfegatato, sapeva tutto di ogni singolo giocatore, e di Herrera, il “Mago”.
L’Inter era la squadra con i giocatori meglio retribuiti perché già allora aveva alle spalle un petroliere, Moratti, intenzionato a sborsare cifre enormi per portare a casa dei campioni.
Herrera li spediva a Parigi, per il massaggio, ma forse anche per la famosa “bomba”, che era un doping primordiale.
L’Inter era strategia e aggressività, ma soprattutto era spirito di squadra e, quando scendevano in campo, Suarez, Jair, Mazzola, Corso, e gli altri lavoravano veramente per il successo: difesa quasi impenetrabile e contropiedi per ottenere un vantaggio da amministrare fino in fondo.
Il Mago caricava i suoi giocatori facendo sentire ognuno come il più forte, come il migliore sulla piazza, e siccome era lui, ci credevano.
Al Piccolo piaceva Merckx, aveva il manifesto col fenomeno che pedalava in salita, sopra il letto.
Erano gli anni di fuoriclasse come Adorni, Gimondi, Motta, Anquetil, e del giro d’Italia diventato un evento d’importanza mediatica nazionale.
Il Piccolo era affascinato dal re Merckx, che si spostava con la moglie sulla roulotte e il medico personale. Quando fu trovato positivo all’antidoping disse che aveva preso un farmaco per la gola non sapendo che ci fossero dentro le anfetamine. Molti gli cedettero, e tra questi il Piccolo, che continuò ad indossare la maglietta con scritto E. MERCKX per tutta la durata del Giro.
Il Pelo non era il tipo da tifare per qualcuno, o da impazzire per qualcosa.
Era un misto di semplicità e durezza, di timidezza e affidabilità, gli piaceva fischiettare “Ogni volta che torno” di Paul Anka, e aveva visto due volte “I magnifici sette”, ma non impazziva né per la musica, né per lo sport, né per il cinema. Forse stavano bene insieme proprio per questo, cioè perché erano molto diversi l’uno dall’altro, e , siccome ognuno teneva a miti ma niente avevano a che fare con quelli degli altri, e il Pelo a nulla, non c’erano occasioni per litigare. Ma cosa fa litigare gli uomini?
Esatto: le donne.
Stai tranquillo che due amici, o un gruppo di maschi, passati senza ferite tra partite a carte fra bari, sfide a calcetto, a ping pong, a braccio di ferro, a corsa, a lotta, e assieme sempre, anche dopo le rogne più furibonde o le discussioni più esasperate, si scontrano in modo spesso irreversibile proprio quando c’è di mezzo una donna.
La ragazza in questione si chiama ( “si chiama” perché c’è ancora, a Sondrio) Patrizia.
A quei tempi era facile di nome e di fatto, tutto trucco e rossetto, ancheggiamenti, minigonne, tacchi alti e parlare a non fine, di quelle che fanno dire a tutti “ci sta”. E non che fosse falso. Dai quattordici ai diciassette anni era stata fidanzata di un rappresentante molto meno giovane, con la Mercedes e la passione per il canto nelle balere (non ci fosse il karaoke, semplicemente, dopo tre Negroni si toglieva la giacca, allentava la cravatta, si impossessava del microfono, e quando era sul palco tutto sudato a gambe larghe, con i capelli appiccicati alla fronte, era un grosso problema fargli capire che doveva andare a fare il Rocky Roberts da un’altra parte, anche perché pesava sui cento chili, era molto rissoso, e se pure due o tre lo strattonavano mentre apostrofava il pubblico pagante ritmando “Con tutte le ragazze sono tremendo” la probabilità che finisse male era molto alta).
Comunque la Patrizia con quel tipo aveva chiuso, si diceva in modo non indolore, ma non per lei, quanto per lui, arrivato, nella disperazione, a promuovere anche due serenate chitarra più fisarmonica più trombetta più voce sotto il suo balconcino in “piazza largo Stella” quattro.
Il rappresentante (non posso dire il nome perché era ed è conosciuto nel giro dei cantanti melodici locali nonchè dei suoi estimatori) ci mise tre mesi per raggiungere il minimo della rassegnazione, e in quelle settimane persino la moglie arrivò ad intuire che forse qualcosa non andava, tant’è che per ben due volte nei lunghi giorni di silenzio tra le mura domestiche (lui era a casa dal lavoro,”per esaurimento nervoso”) arrivò a dirgli, da sotto il casco, da sotto i bigodini, da sopra Grand Hotel: “Tu non mi piaci mica, sai? C?hai ‘na ceraa….”.
Comunque, con la Patrizia era finita, e lei sembrava ulteriormente rifiorita, andava via dritta sculettando e sorridendo, senza dare segno di dispiacere alcuno.
Ci si può immaginare quale effetto producesse quando entrava nel campo visivo o nell’immaginario di ragazzotti bianche e rossi, venuti su in modo genuino a Nembo Kid e Tex Willer, Mandrake e Tiramolla: bombardamenti di testosterone, progetti di contatto, sogni erotici contorti e complicati, come sono quelli di chi non ha mai agito, ma ha molto fantasticato.
Sondrio non era e non è una metropoli, per cui difficilmente lei poteva uscire senza che la cosa avesse una certa ripercussione, sia perché era una ragazza estremamente sensuale, sia perché si era fatta una fama consolidata di aperta e disponibile, sia perché, in assenza di argomenti più seri e sostanziosi, lei rappresentò, per tre anni almeno, ciò di cui si parlava volentieri, con facilità, per lamentarsene, scandalizzarsi, ammirare, infiorare,esagerare, sognare, vantarsi, sentirsi rubacuori per un suo sguardo.
L’incontro con il Piccolo avvenne presso la drogheria Scherini, che stava tra la piazza Garibaldi e la piazza Campello.
Quando la Patrizia entrò ed incominciò ad aggirarsi tra gli scaffali, il Piccolo stava scaricando cassette di Lemonsoda da un camion, per cui non la vide subito.
Lei ancheggiava tranquilla, su zatteroni di sughero con lacci a pois su campo bianco, su gambe non lunghissime ma ben disegnate, muscolose e abbronzate, dentro una minigonna molto ridotta tipo “se si piega si vede tutto”, in parte dentro un pullover rosa e attillato alla Marylin Monroe, fuori moda ma sempre molto efficace se indossato con vasta scollatura su seno generosissimo.
A quei tempi aveva i capelli corti con serie di tirabaci su fronte e guance.
Quel giorno era uscita con due grandi orecchini circolari, molto rossetto come al solito, smalto sulle unghie extralunghe, anello con rubino e la scritta “sempre tuo”, regalo del rappresentante (che lo aveva sottratto alla moglie quattro anni dopo ave glielo donato per il fidanzamento, sennonché la moglie un giorno in piazza vecchia se lo vide davanti al naso, al dito della Patrizia che palpava pomodori, per cui nacque una risa tra i cavoli che ruzzolavano e urla, banane, patate in terra, ma questa è un’altra storia).
E’ difficile spiegare quale effetto facesse su un maschio tra i quattordici e i settantaquattro anni, dotato di vista e olfatto e istinti normali. Diciamo che mandava messaggi tipo “sesso-sesso-sesso”, ecco, non si può dire né di più né di meno.
Comunque, lei è lì che osserva le confezioni di sottoli, quando entra quel torello del Piccolo, cupo come sempre, nero, sudato, e mentre cammina si allaccia dietro il grembiule. Il dardo lo colpì lì, tra i detersivi e l’inizio del reparto cancelleria, lo bloccò con le mani ancora affaccendate sulle vertebre sacrali, nel tentativo di fare la galletta (che non riuscì a confezionare, perché si ingarbugliò, poi lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, e stette col grembiule ciondoloni, le labbra aperte, a conferma del fatto che non era inappropriato il soprannome “maia-muschi!” affibbiatogli da sua nonna a causa dell’atteggiamento che assumeva in caso di sbalordimento).
Non spreco parole: il Piccolo venne fulminato in modo letale, e da quel giorno, per molto tempo, non fu più lui.
Aveva notato sì, la ragazza, quando eli passava impettita davanti al Kappa Due e alla relativa marmaglia da cui si levavano fischi da stadio e commenti da penitenziario, ma era sempre lontana sette-otto metri, proprietà visiva un po’ di tutti, facente parte dello spettacolo che, d’estate soprattutto, si offriva gratis agli avventori.
Quel giorno fu diverso, probabilmente l’incontro concretizzò uno stato di innamoramento latente.
“Ehi, Piccolo, te dormet?”.
Meno male che arrivò la sveglia del capo commesso Scilironi, altrimenti lui sarebbe stato lì in catalessi fino a farsi scoprire proprio da lei. Confuso, guadagnò il reparto vini, senza che la Patrizia si fosse nemmeno accorta della sua esistenza, e infatti continuò ad aggirarsi tra confetture e magnesia, come una pantera ignara.
Il Piccolo era bravo a: fare paura, minacciare, formulare complesse costruzioni figlie del torpiloquio snocciolandole in un torvo sottovociare di traverso, guardare di sbieco, lavorare duro se necessario, partecipare alla lotta a favore degli amici, bere birra e gassosa in quantità superiori a quelle normalmente considerate giuste per uno della sua età.
Non era bravo a: studiare, tenere discorsi, ballare, concepire pensieri o piani o progetti che fossero più che semplici, vestirsi affiancando colori coerenti, mangiare educatamente, entrare in rapporto con le donne.
Fu quest’ultimo fattore- handicap che gli procurò una serie di dispiaceri.
La Patrizia, quel giorno, continuò per un’altra mezz’ora buona a navigare tra bottiglie e barattoli, compromettendo seriamente il livello di resa ed efficienza del personale (tutto, tranne la cassiera). Poi uscì con due sacchetti, gonfiando una bolla con la cicca, facendola scoppiare e tirando dentro con la lingua, appiattendosi delicatamente un tirabacio, appoggiando a terra i due sacchi per lisciarsi la gonna, piegandoli per riprendersi mostrando le mutande rosa (il sig. Cesare, addetto al settore vini e alcolici, ebbe un mancamento, se ne andò di là nel suo camicione grigio con cavatappi incorporato, a riprendersi, a darsi una sciacquata di acqua fresca sul volto).
Ma il Piccolo restò interdetto.
Ancora oggi gli amici lo canzonano imitando lo sguardo ebete sulla strada del ritorno verso casa, e l’andatura lenta, il fare tra il sognante e l’assorto.
Trascorse giorni infernali.
Non sapeva più dove stare.
Quando lavorava, non smetteva di tenere d’occhio la porta, sperando che lei tornasse. Venne rimproverato più volte. Siccome tutti avevano pensato a quella apparizione come a qualcosa che avrebbero voluto possedere, toccare, aver, non “amare”, nessuno ipotizzò che il Piccolo fosse innamorato.
Prese piede la teoria che fosse semplicemente rimbambito, “come tutti i ragazzi della sua età: l’età della stupidèra!”.
Tre volte, dovendo fare delle consegne, allungò di molto il tragitto per passare sotto la finestra della Patrizia: ottenne solo nuove minacce da parte dei colleghi. Al bar dell’Italo o al Kappa Due stava seduto fuori aspettando che lei passasse, tra il cupo e il disperato, proprio vittima di quella pena d’amore cui uno non crede se non l’ha provata.
I compagnoni si prodigavano in consigli:
serenata (ma no, no, non aveva funzionato col rappresentante!);
fascio di rose (di che colore? Con o senza spine? Quante? Non è troppo? Non vuol dire grande amore? Dai Piccolo buttati! Provare coi garofani? Certo che i fiori costano! Ma il Piccolo è generoso, vero Piccolo?!);
invito a cena (eh? Ma dove? Come, al Cima Undici? Il Posta, ma vaah! Vuoi che la invito io, per te? Se dice sì, è fatta! Gli sciatt sono afrodisiaci! Come noo?!).
Telefonata (se risponde suo padre? O metti giù e fai la figura del vigliacco, o parli, ma se parli cosa dici? La musica di sottofondo? Boh, forse è una buona idea).
Lettera (ci scrivi una bella letterina, la metti dentro una busta profumata di Felce Azzurra Paglieri, e lei capisce…..Come chi te la corregge? Ma io, no? E poi la Patrizia non è una cima! … Dai, Piccolo, non arrabbiarti, ho mica detto che è una stupida…dai!).
Invito degli amici (io, il Giornali, il Paindelli grande se viene fuori il padre: lascia fare a noi! Come non ti fidi? Porto il mangiadischi col quarantacinque di Nicola Arigliano!).
Mettiti bello elegante (non hai visto come è sempre in tiro, lei? Una settimana fa era dal Tognolina con un vestito bianco a righine rosa e gialle che non ti dico! E le scarpe? Rosse! Eh, Piccolo, devi comprarti dei vestiti nuovi!). Si convinse.
Una sera arrivò con un obsoleto completo nero pesantissimo, calzoni con risvolto, cravatta con delfinetti, camicia bianca, scarpe di vernice, orologio del Genoa (gli era piaciuto lo stemma). Non che stesse male … Così conciato, rigido, inamidato, con la brillantina un etto per centimetro quadro, faceva la sua figura. Sudava, ma faceva la sua figura. E’ che non lo lasciavano in pace. Battute (il signore aspetta qualcuno?), imitazioni, persino caricature a penna sulla Gazzetta.
Quel giorno la Patrizia si era fatta i capelli cotonati stile Martha and the Vandellas, ed era uscita di casa con il proposito di trovare a tutti i costi un lavoro, anzi, si era detta “non rientro se non ho trovato un posto”. Le elucubrazioni del padre, che pontificava senza tregua sulla dissennatezza dei giovani, l’avevano ormai esasperata veramente, non ne poteva più, per cui mise insieme il suo guardaroba migliore, tutta la sua determinazione, e si incamminò spedita.
Credeva nei segni, così ritenne che il sentire attraverso una finestra di un secondo piano i Birds che cantavano California Dreamin’ fosse il vaticinio di un risultato sicuramente positivo: a lei quella canzone era sempre piaciuta tanto, quando usciva dalla radio a transistor la accompagnava col suo inglese subalpino, e il ritaglio dell’immagine dei Birds imperava sopra la testata del letto, tra gli Animals e il solista dei The Kool-Aid Acid Test (nel suo quartiere era considerata un’esperta, un’intenditrice di musica italiana e straniera, infatti fu proprio grazie o a causa delle sette note che aveva conosciuto il rappresentante).
Veleggiando spedita verso il parrucchiere Cesare, dove aveva ricevuto una mezza promessa per un posto di sciampista, passò davanti al Kappa Due, e quindi al Piccolo.
Il Piccolo, che non aspettava altro da giorni, reagì all’apparizione improvvisa con un involontario esplodere del battito cardiaco nel torace, e molte extrasistoli. Essendo le dieci del mattino, non c’era al bar quasi nessuno dei suoi conoscenti, e la cinquantina di pensionati che vociavano attorno ai tavoli da briscola non erano interessati alle sue disgrazie amorose.
Decise di agire.
Si alzò.
La seguì.
Mentre il sudore inzuppava i suoi vestiti migliori, le si mise alle calcagna, deciso a non perderla di vista, ma in uno stato di confusione totale che paralizzava ogni attività creativa in termini di produzione di qualsivolesse piano strategico.
L’uomo della catena alpina non è mai stato ciarliero e fatuo e, tanto meno, lo era nel 1965.
Il Piccolo, poi, torvo e cupo di natura, si classificava come particolarmente inadatto ad allacciare rapporti che trovassero nell’essere brillante e spiritoso la loro base naturale e spontanea.
Fu così che, semplicemente, le stette dietro, fino dal Cesare, fuori dalla cui entrata l’aspettò per un’ora circa, per tornare a percorrere la strada a ritroso, quando lei uscì tutta felice, assunta e contentissima di apprestarsi a dare gli anni migliori della propria vita alla esigente clientela dell’atelier, sciampo dopo sciampo, forse, in futuro, messa in piega dopo messa in piega.
La Patrizia davanti, il Piccolo dietro, la strana coppia stava ormai riguadagnando la di lei casa, e l’inseguitore si arrovellava pensando a cosa avrebbe dovuto dire, o fare, ma presto, che mancava poco.
Non voleva più rimandare, e, come ebbe a confermare in seguito, formulò una serie di ipotesi tattiche, che, nella condizione di parossistica tensione in cui si trovava, si avvicendavano, apparendo, di volta in volta, l’una migliore delle altre.
Non riuscì comunque a decidersi a fare niente, e tutto sarebbe andato in fumo se la Patrizia, raggiunto il portone d’entrata, non avesse dovuto fermarsi per rovistare nella borsa alla ricerca delle chiavi, e, nel farlo, non si fosse girata su se stessa, arrivando così a vedere lui, impacciato e con l’atteggiamento finto disinvolto di chi, in realtà, se la sarebbe data subito a gambe.
“Cosa fai qui?”.
“!?”.
“Beh? Hai bisogno?”.
“Noo, niente, sono qui per lavoro …..”.
“Per lavoro? Cosa devi fare?”.
“Una consegna… casse di vino ….”.
“E dove sono?”
“Ah, le devo ancora portare, sono qui in ricognizione … vedere l’indirizzo …”
“Ah sì? E chi cerchi?”.
Il Piccolo era nei guai.
“L’indirizzo è questo, via Bernina dodici (?), il nome ce l’ho in negozio, comunque torno dopo….”.
La ragazza mangiò la foglia.
Molto più esperta, sia perché donna, sia perché aveva alle spalle una lunga storia da amante di un adulto, pensò di non infierire, anche perché quel coetaneo muscoloso e duro non le dispiaceva. L’unico modo per non infierire era lasciare cadere il discorso.
“Ti vedo sempre al bar… con i tuoi amici …”
“Sì, ma non sono miei amici, ci sto poco … io lavoro”.
Restarono lì a parlare per dieci minuti, e quando lei disse al Piccolo “io devo salire, ci vediamo,neh?” Lui si sentì così felice ed appagato che tornò a casa come levitando, correva, saltava, e gli sembrava di non toccare terra.
Nei giorni che l’estate sciorinò dopo l’episodio famoso i due si frequentarono quotidianamente.
Il Piccolo, che aveva ripreso a lavorare, ogni sera si presentava elegante al portone di lei: aveva investito i risparmi in due nuove paia di scarpe lucide, nere, di pelle, con stringhe e con fibia, due pantaloni con riga e risvolto, tre camicie (bianca, azzurra, giallina) con punte del colletto allungate, una giacca a piccoli scacchi carta da zucchero e neri, due cravatte (marrone e fantasia su bordeaux).
Questo cambiamento repentino e pressoché radicale suscitò vari sentimenti: preoccupazione nel padre (“ma butti via così i risparmi? E la macchina? La macchina non la vuoi comprare, da grande?”), commozione nella madre (“ma varda he bel fiòòò… ma se l’eè elegante! L’è mei del Luigino dela piaza del Rusari!”), ilarità negli amici (“ehi, Piccolo, dove vai stasera, alla sfilata di moda?”).
La Patrizia passeggiava contenta a fianco di quel cavaliere, che era stato così intelligente da adattarsi subito al ruolo di accompagnatore in tiro e, siccome lui, per non sfigurare, e per non sbagliare, si picchiava in giacca e cravatta anche per andare a comprare due mottarelli da passeggio, pure lei calcò il pedale dello sfarzo, e giù con tacchi alti, rossetti alla ciliegia, gonne ampie e svolazzanti, e così via.
Divennero in breve una coppia famosa.
Il Piccolo venne invitato a salire su, per essere presentato ai genitori di lei, e così, ogni sera, invece di aspettare sul marciapiede, attese la fidanzata (ormai era ufficiale) davanti al marsalino. Fu un bel periodo.
Il Piccolo era innamorato pazzo, la Patrizia molto meno, voleva più che altro non guastare la festa, non ferire quel giovane taciturno ma gentile, godersi l’estate, e mostrare al rappresentante che la storia era proprio definitivamente chiusa.
Una domenica accettarono l’invito di unirsi agli amici per una scampagnata a Morbegno, e così si ritrovarono in sette, perché oltre a loro due, al Pelo, al Bomba e al Marveggio, c’erano due sorelle di Milano, mezze cugine del Bomba, sprovvedutamente sbarcate dalla metropoli a S.Anna per una vacanze tutt’altro che interessante.
L’idea era di trascorrere qualche ora sul Bitto.
Avevano portato i panini e le bottiglie grandi di gassosa e spuma, e già sul treno, con la scusa di fare un inventario degli approvvigionamenti, si erano messi a fare scambi (due alla frittata per uno alla “cotoletta”) e a mangiare. Il Marveggio, solito patito per il gioco d’azzardo, aveva con sé il mazzo da scala, ma era sembrato più virile mostrarsi alle ragazze impegnati in una serie di poker a soldi, e così la seconda metà del viaggio (lungo, in proporzione alla distanza da coprire, si trattava di un locale, che fermò anche a Castione Andevenno e ad Ardenno) fu tutto un “vedo”, e “passaparola”, e “servito”, con lanci e rilanci di improbabili somme di denaro (atteggiamento molto da duri).
In realtà, sia durante il viaggio, che nel corso dell’intera giornata sull’acqua e nell’acqua del Bitto, che nel ritorno, tutto andò liscio. I quattro amici stettero bene insieme, come al solito, e ognuno guardava l’altro con benevolenza e comprensione, quando quell’altro si prodigava e si impegnava in esibizioni da uomo a favore del pubblico femminile, per catturare l’attenzione (gare di tuffi, gare di resistenza sott’acqua, racconti molto gonfiati di avventure pericolose, racconti di barzellette piuttosto ingenue ed infantili, ascoltando le quali, comunque, le ragazze ridacchiavano clementemente). Insomma, il clima era bello, di grande armonia, e ognuno era contento di vedere gli altri felici.
Ma il diavolo ci mise la coda, e questa coda fu il fascino del Pelo, il quale si ritrovò tre o quattro volte con gli occhi negli occhi della Patrizia, e questo fu sufficiente per mettere lì una mina, per innescare l’inizio di una lotta, di un problema, di una storia che avrebbe fatto soffrire molto i due amici.
Quella domenica non accadde nulla, se non il fatto che tra due persone (ignare le altre cinque) si era costituito un legame, di quelli senza parole, ma più che sufficiente per stabilire di chi sarebbe stato l’altro.
Negli anni a venire, “gita a Morbegno”, o “scampagnata sul Bitto” divennero sinonimi di “occasione di tresca-viaggio pieno di secondi fini”, ma, in realtà, fu tutta una cosa molto semplice, e se il destino orientò le cose in un certo modo, non c’era né calcolo, né cattiveria. Tre giorni dopo, la Patrizia, attraverso un’amica che faceva la spesa al panificio Domeneghini, fece sapere al Pelo che voleva parlargli, e lui accettò, perché pensava di non fare niente di male, era convinto di poter controllare la situazione, e non gli dispiaceva stare vicino a quella ragazza che lo aveva colpito di brutto.
L’intermediaria fissò l’appuntamento per il giorno successivo alle nove, e la Patrizia fece dire al Piccolo che “era indisposta”. Dovette farlo credere anche ai genitori, che tenevano il ragazzo in palmo di mano, e sgattaiolare fuori con la complicità della sorella più piccola.
L’incontro avvenne alla periferia ovest della città, vicino all’entrata del campo sportivo, e non ci furono molte parole, perché dopo pochi secondi di occhi negli occhi la Patrizia infilò ventidue centimetri di lingua nella bocca del Pelo, e da quel momento lui non capì più una mazza.
Entrò in un’infelice condizione di conflitto, era la corda di un tiro alla fune, tirato di qua dall’amico e di là dalla ragazza che, da un momento all’altro, sentì di amare (così lui affermò anche anni dopo, si trattò di una schioppettata, di quelle dalle quali si guarisce in molto, molto tempo).
Quello che seguì fu un periodo difficile da definire: intenso, sicuramente, indimenticabile, anche, fatto di sentimenti forti, di grandi dispiaceri, , di acute delusioni, di incredulità, di lotte e pianti.
Il Pelo e la Patrizia incominciarono a vedersi di nascosto, e il Piccolo, nei primi dieci giorni, dovette mandare giù una serie incredibile di balle, che compresero malori della fidanzata, malori dei parenti della fidanzata, lutti, commissioni strane da portare a termine alle nove di sera.
In dieci giorni, il Piccolo stette con la Patrizia una sola sera, e in quella sera, fu tutto così diverso che lui aveva solo voglia di piangere, e lei di essere libera. Con le spalle grosse chiuse nella giacca attillata, la cravatta, perfino il fazzoletto bianco nel taschino, le camminava al fianco, senza dire parola, da buon valtellinese semplice, che non sa fare grandi discorsi, e parla con gli occhi. E negli occhi c’era tutta la tristezza di un giovane che sperimenta il dolore per la prima volta, e non sa cosa fare, si muove su un terreno che non conosce, smarrito.
Per lei non c’era mai stato un vero sentimento, aveva, in pratica, giocato, ma per lui il coinvolgimento era stato grande, totale, ed ecco che una storia destinata nel suo cuore e nella sua mente a diventare il progetto di una vita si sgretolava rapidamente, in pochissimi giorni.
La verità non tardò a rendersi nota. Gli “amici” del bar, con una serie di battute che il Piccolo, all’inizio, non capì, si premurarono di metterlo al corrente. Il Bomba e il Taleggio, se erano lì, e ascoltavano, magari, facezie come “il Pelo stasera fa lo sciampo” oppure “ultimamente la Patrizia è infarinata e inzuccherata”, cecavano di distrarre il Piccolo, che si guardava intorno, sospettoso e triste (molto triste), lo proteggevano, lo portavano via “dai, Piccolo, andiamo al Cima Undici … ci facciamo un panino col salame?”), ma la faccenda non poteva reggere a lungo, e infatti non resse.
Quando il Piccolo mangiò la foglia, saltò sulla lambretta del Luna senza chiederla e si mise a perlustrare la città come un matto, senza tenere conto dei segnali, a velocità da arresto e condanna a morte.
Non li trovò, la prima sera, e si mise davanti al portone della Patrizia, ad aspettare.
Il Luna arrivò cristonando a mezzanotte, e si portò via la moto. Nonostante la rabbia, al Piccolo non fece niente, perché si capiva che non era più in sé, aveva perso la ragione, in una ubriacatura di stupore e dolore.
Quando i due arrivarono e lo videro spuntare dal buio, si comportarono in modo diverso, perché la Patrizia aveva solo paura, paura di prenderle, ma non sembrava dispiaciuta, mentre il Pelo lo era, e tanto, e quando il Piccolo, senza parlare, e piangendo, lo martellò di pugni sul torace, in silenzio, lasciò fare, e pianse anche lui.
Quel tracagnotto buono e semplice capì un po’ di cose, quella sera, soprattutto che l’amicizia non è quel sentimento forte che qualcuno crede, e che lui credeva, poi che essere belli è sempre un vantaggio, e le donne, in particolare quelle meno intelligenti, ci badano molto, e capì anche che i sentimenti fanno parecchio male, meno se ne ha, meno si rischia, più si dà amore, più ci si espone a stare male. Tutte verità risapute. Agli altri, non a lui, fino a quel momento.
La storia tra il Pelo e la Patrizia durò solo tre mesi.
Non c’era amore, per lo meno di quello solido.
E’ vero che il Pelo se la portò nel cuore molto a lungo, ma mai come l’amico, che non l’ha più dimenticata. E se, ancora oggi, qualche spiritoso vuole ricordargliela, lui sorride, sì, ma è un sorriso malinconico, che si disegna mentre abbassa la testa, e dice “acqua passata”, piano in un sussurro, perché è ancora di poche parole.
1966
Gillo Pontecorvo vince il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia con “La battaglia di Algeri”.
Escono “Signore e Signori” di Pietro Germi e “Un uomo, una donna” di Claude Lelouch, vincitori ex aequo della Palma d’oro a Cannes.
Mario Monicelli è il regista di “L’Armata Brancaleone”, Adriano Celentano canta “Il ragazzo della via Gluck”, sulle strade compaiono la Fiat 124 e la Giulia Alfa Romeo. Viene introdotta l’ora legale in Italia.
Muoiono Walt Disney, Elio Vittorini, Carlo Carrà.
Indira Gandhi diventa primo ministro in India.
Firenze è invasa dal fango dell’alluvione.
CAPITOLO SETTIMO
Come un gatto raggomitolato ai piedi di un letto, sopra una morbida coperta di lana pettinata, attende, mentre gli uomini ancora dormono, il salire del sole, il bollire del latte, i raggi caldi sul manto giallo e marrone, le prime luci, lo schiarirsi della voce, il frusciare delle ciabatte in corridoio, così il Pelo indugiava tra le lenzuola con le moto rosse stampate, sopra al guanciale con la federa dalla scritta MV AGUSTA.
I rintocchi domenicali spedivano nell'aria vibranti colpi allgeri, e a lui piacevano perchè amati dal padre, che marciava in cerchio nel tinello, zufolando e ascoltando i dischi delle campane a festa.
Vincere la pigrizia di quella prima ora dopo il risveglio sembrava un'impresa impossibile, nuo sforzo come quello necessario per abbattere le mura di Gerico. Concionare fuori dalla Chiesa dicendo solo un mucchio di stronzate non era nel suo stile, non rappresentava un motivo sufficiente per alzarsi prima delle dieci.
Il Pelo stava vivendo gli anni dell'uccisione dei fratelli Kennedy e di Martin Luther King, dei Beatles e di Bob Dylan, di Woodstock, della Primavera di Praga, delle barricate di Parigi, della Rivoluzione culturale cinese, dei moti di Berlino, della guerra nel Vietnam, della guerriglia in Ameerica Latina guidata da Camillo Torres e Che Guevara.
Insomma, lui era lì, negli anni '60, il periodo dei grandi cambiamenti. La gioventù scriveva la storia, ma al Pelo tutto ciò interessava poco.
Gli piaceva scoltare i discorsi sepmlici del papa buono, Giovanni ventitreesimo, ma più in là di così non andava. E del resto, la sua vita non risentiva del tumulto nelle piazze delle grandi città europee, la ribellione e la protesta dei giovani contestatori nei confronti dei matusa non solo lo lasciavano indifferente ma lo avrebbero portato anche a esprimere il proprio dissenso, se qualcuno lo avesse interrogato, perchè lui rispettava i grandi, la gerarchia nonni-genitori-figli gli andava bene, e semplicemente ne faceva parte, aspettando di salire i pochi gradini della scala per anzianità.
A Sondrio gli echi dell'eslosione arrivavano ovattati, spenti, non era luogo di slogan e cortei, nè scontri. Qualche autogestione subito rientrata, ecco sì, poca roba, più che altro discussioni da bar e da piazza, fazzoletti rossi ma senza vittime per l'ideologia.
I ragazzi come il Pelo continuavano la vita di sempre, ai margini, è vero, ma era l'unica che conoscevano, per uscire dalla quale avrebbero dovuto prendere decisioni drastiche, andarsene proprio, e non ne sentivano il bisogno.
Squillò il telefono (laccato, nero, a muro, con la cornetta e i cerchietti dei numeri, duplex, che se quello del piano di sopra telefonava, tu non potevi usarlo, il fisso della bolletta a metà).
"Sei sveglio? Sono io. Ti devo parlare".
"COsa c'è?"
"Non posso dirti per telefono. Ci vediamo davanti al Sarotti alle undici. Va bene?"
"Occhei".
Per il Pelo non era un buon inizio di domenica.
Il Gionni aveva due anni più di lui, ma avevano fatto le elementari insieme ed erano cresciuti in case vicine, nell'umido di Scarpatetti. Dopo la terza media, aveva fatto la bella pensata di scappare di casa, e la sua foto era finita persino su Famiglia Cristiana, ma no è che i genitori si fossero disperati più di tanto, perchè averlo tra le mura domestiche era un problema più grave, visto che si alzava verso le due del pomeriggio, pretendeva il pranzo come diceva lui, poi ascoltava musica ad alto volume ("Gionni, Gionni, sbasa ch'el sciur Tireli el pesta cu'la scuva! Sbasa!), e usciva di sera dopo avere chiesto i soldi, per rientrare non prima delle quattro.
Si diceva che si drogasse e spacciasse. A volte venivano a prenderlo persone losche, con occhiali da sole, con la Giulietta o la 850 Coupè, con il finestrino abbassato, con il braccio fuori, anche loro con la misuca al massimo, tamburellata sulle portiere.
"Mah!".
Il papà e la mamma dicevano "mah!". I vicini da dietro le tende dicevano "mah!", il quartiere diceva "mah!", vedendolo passare, e anche la polizia pronunciava queste lettere di perplessità, sospetto e dispiacere, perchè si poteva prevedere la fine che avrebbe fatto, il Gionni.
Il commissario Geromel lo aveva avvertito più volte. Gli aveva fatto spedire la richiesta di comparizione presso la Questura vari venerdì pomeriggio, per il lunedì, così lui era stato sulla graticola tre notti e due giorni. Ma all'inizio, perchè poi ci aveva fatto il callo, sapeva che lo aspettava solo una paterna ramanzina.
Aveva sempre molti soldi in tasca, da spendere in boiate.
Braccialetti, patacche, collanine, catenine, magliette psichedeliche, inutili occhiali da sole, cinture col teschio, con la testa di leone, col simbolo della pace, col cappello da cow-boy, con lo sperone.
E viveva così. Libero, si potrebbe dire, e fuori dalle regole, ma anche vittima di se stesso, in polemica col mondo, ribelle a qualsiasi norma.
I traffici loschi ai quali si dedicava erano più o meno risaputi. Si trattava di furti di 33 o 45 giri, di mangiadischi, rasoi elettrici, portafogli dai cappotti appesi al bar (ma poi, quando entrava molti si rivestivano, per prudenza), accendini, oggetti vari, che poi rivendeva al ricettatore Ponfadoni, il quale li pagava con somme, diciamo così, simboliche.
"Ti devo proporre un affare".
Il Pelo si aspettava qualcosa del genere. Gli "affari" del Gionni erano sempre delle gran bidonate, il Pelo lo sapeva bene e se ne era tenuto costantemente alla larga.
"Non mi interessa".
"Come non ti interessa? Non ti interessa avere un milione di lire, così, facili comprarti una macchina?"
"Guarda non ho bisogno, c'ho il mio lavoro".
"Ah, ah .. il tuo lavoro, tutto il giorno a fare lo schiavo per pochi soldi, finchè sei vecchio!".
Il Pelo fece per andarsene.
Il Gionni lo trattenne per un braccio:
"Almeno scolta".
Trascorse una settimana. Una sera di noia, il Pelo si trovò a raccontare ai tre amici, così, senza intenzione, come per dire "ma guarda te che razza di stupidate uno si inventa".
"Però! un milione in un'ora ..." fu il commento del Bomba.
"A me sembra una bella idea" aggiunse il Piccolo.
"Con dieci testoni so io cosa farei!" escalmò il Taleggio.
Il piano era molto semlice. Si trattava di penetrare verso le cinque del pomeriggio nella cas di un'anziana signorina che abitava vicino all'ospedale, quando lei era in chiesa per la messa e il fratello avvocato non era ancora rientrato.
Il Gionni conosceva quella vecchia dimora a due piani proprio perchè era stato cliente del legale per una faccenda di contrabbando, e lo aveva pagato con due settimane di giardinaggio (a orario molto ridotto).
Si trattava di entrare, il che sarebbe stato facilissimo perchè all'uscita i due fratelli avevano l'abitudine di lasciare le luci accese per demotivare i ladri, ma la porta d'entrata, a vetri, era facilmente superabile, per cui, penetrati nel giardino, si era praticamente in casa, e dentro c'era parecchia argenteria, oltre che quadri antichi e oggetti di antuqiariato.
Il Ponfadoni aveva promesso di comprare la refurtiva a due milioni, e il Gionni avrebbe dato la metà al complice.
Ma il Pelo non ne voleva sapere, anzi, si sentiva offeso perchè era stato visto come potenziale collega in quel progetto scapestrato. E non aveva tutti i torti, perchè il suo fare da bullo poteva forse portare a credere che fosse anche disonesto, uno che disprezzava la legge, ma non era così, lui lavorava e viveva senza allargarsi.
Quindi, da parte sua nessun problema, aveva archiviato subito la pratica, ma non la archiviarono i tre amici, che incominciarono a vagheggiare i biglietti di banca, dentro sogni notturni o ad occhi aperti, ed associare quei foglioni neanche mai toccati agli acquisti più megalomanici, quasi che la somma in questione fosse molte volte più grande. E quando tre ragazzotti si sentono già in tasca le chiavi di un Honda CB7 50 vai tu a fargli cambiare idea, quando si gasano l'un l'altro, e ne parlano con gli occhi che diventano lucidi, e imitano il rumore, impennano le bici sognando!
Fu il Bomba quello che prese contatto col Gionni, e lui, prima sospettoso, poi tranquillo e fiducioso quando venne fatto il nome del Pelo, convinto appunto che quest'ultimo avesse accettato, fissò l'appuntamento quella sera stessa su davanti al manicomio "per parlare".
Non che ai tre aspiranti ladri quel luogo piacesse molto, sia perché molto isolato, sopra la città, sia perché correvano voci insistenti riguardo a malati incurabili chiusi in gabbia, urla disumane, infermieri pronti a fare l’elettroshock a chiunque, matti che uscivano di notte, ma fu chiaro a tutti che non potevano candidarsi ad un progetto di furto con scasso mostrandosi paurosi nei confronti della casa rossa.
Videro da lontano il Gionni che camminava avanti e indietro, nervoso. Con quel volto scheletrico, quei capelli lunghissimi, un mantello nero con borchia luccicante (e un tranquillizzante “FATE L’AMORE NON LA GUERRA”, ma ma questo i tre non lo potevano leggere da lontano), stivali con tacchi e bracciali da due etti l’uno, sembrava anche lui un matto, o un fantasma, un diavolo messosi davanti all’ospedale dei pazzi non per caso.
Si fecero coraggio.
“Ciao Gionni” fece il Bomba a voce bassa, piegandosi un po’ in avanti, con fare da carbonaro. Il Gionni si era fermato un attimo, con le mani sul tubo freddo di una recinzione, a guardare giù Sondrio già mezza addormentata, e a pensare che era un paesotto da lasciarsi indietro definitivamente appena possibile. Fu sbalordito dal vedere i tre, che non erano del tutto sconosciuti, ma nemmeno potevano farsi passare per il Pelo e disse: “E voi cosa ci fate qui? Io aspettavo il Palmiro!”
Il Bomba, al telefono, era stato sul vago, aveva detto “dobbiamo parlare dell’affare che hai proposto al Pelo”, e così la faccenda era stata lasciata in aria, senza stare a chiarire chi sarebbe andato all’appuntamento.
“A lui questo affare non interessa. A noi sì”.
Ombroso come sempre, il Piccolo fece capire al Gionni che non doveva aspettarsi di meglio, ma anche che loro non scherzavano, erano lì per impegnarsi seriamente.
Del resto, non avevano davanti un datore di lavoro, o complice, o capobanda chedirsivoglia che andasse troppo per il sottile: aveva pensato al Pelo perché gli ispirava fiducia e per fare il palo, ma, in fondo, se di pali se ne trovano tre, meglio.
“Sapete già come è il piano?”
“Sì” fecero assieme.
“La somma da spartire resta quella, neh, non è che aumenta”.
“A noi un milione ci basta” ribattè il Bomba, tra il conciliante e l’avido.
“Allora, domani pomeriggio alle quattro, dietro l’ospedale. Portate dei sacchi, e mettetevi i guanti”.
“…Per le impronte” aggiunse in tono professionale, allontanandosi.
Lo strano gruppo si sciolse. E’ probabile che a qualche matto della casa rossa, da dietro le inferriate, fosse apparso come il conciliabolo di un satanasso alto e nero con tre diavoletti paffuti. Più piccoli. Con atteggiamento da delinquenti scafati, ma, a guardar bene, tremanti. Si capiva un loro essere … come dire? … esposti…o meglio, sprovveduti, ecco, ingenui, anche nel camminare, nel gesticolare.
Trascorsero la sera coinvolti da previsioni, sogni, paure, reciproche promesse di scambi dei bolidi che avrebbero comperato.
La notte andò via in bianco, nessuno chiuse occhio. Il rimprovero silenzioso del Pelo aleggiava sulle loro teste, e poi, se non se l’era sentita lui …
Ma noi siamo in tre!
Il pensiero che si sarebbero trovati a sostenersi l’un l’altro dava il coraggio necessario.
All’appuntamento si presentarono come da par loro.
Il Piccolo indossava un toni e un passamontagna blu, e aveva una borsa a tracolla tipo postino, ma di plastica.
Le mani erano protette da guanti da sci misura extralarge, rosa, probabilmente della mamma, stile ultima guerra mondiale.
Al Bomba, quando aveva detto in casa che dopo il lavoro sarebbe andato a “fare sport” (lui e il Piccolo avevano lottato duramente con i capi, ma, alla fine, avevano ottenuto il “permesso straordinario per visita medica”), la madre, tra l’incredulo e l’orgoglioso (“che figlio sano ho messo al mondo, adesso fa anche sport!”) aveva imposto una tuta Dunlop più berretto con pon pon, più guanti di quelli che lasciavano le dita scoperte (gli unici ni casa, lui si ripromise di strofinare via le impronte, poi, come nei film), più galosce verdi corte tipo pescatore di fiumara calabrese (delle tre paia in suo possesso, tali calzature, secondo la madre, erano le uniche classificabili come brutte- da sport- da divertimento”).
Di soppiatto, infilò in una tasca tre sacchetti di carta di varie misure, del panificio Manzoni.
Il Taleggio si recò all’appuntamento con un casco giallo dotato di torcia e due guanti in tinta, di plastica, per lavare i piatti. Era vestito normalmente, ma in una cartella rossa che portava sulle spalle, residuato delle sue guerre con la scuola primaria, teneva un grembiule marrone, “nel caso mi dovessi sporcare”.
Quando il Gionni arrivando all’appuntamento, vide i tre così male in arnese, non seppe se ridere o piangere, disse solo “aspettiamo l’ora stabilita, che sarà anche buio”.
Per non dare nell’occhio si infrattarono.
Il campanile chiamò i fedeli alla messa e i quattro alle loro malefatte. Attaccarono il giardino da un lato scuro e poco praticato. Furono dentro in pochi balzi. Poi il Gionni ruppe il vetro con un pugno protetto da un guanto di similpelle, e aprì la porta.
Dentro, oltre alle luci accese c’era anche la radio che spandeva musica e parole, e, addirittura, la signora Elda aveva lasciato il rubinetto dell’acqua della vasca aperto: tutte misure anti-ladro, che i fratelli, già caduti vittime di due furti, adottavano, non fidandosi dei sistemi di allarme. Il Gionni ordinò al Taleggio di rimanere di guardia all’interno della porta d’entrata, e, con gli altri due, salì al piano di sopra.
Conosceva bene la casa perché era stato invitato più volte ad entrarvi, all’ora del tè, per cui disse ai complici “aprite i cassetti e gli armadi” e lui si mise a riempire di piatti e tazzine d’argento un grosso sacco con la scritta CAFE’ DO BRAZIL.
Storditi ed eccitati, il Bomba e il Piccolo incominciarono, con la massima professionalità possibile, ad ispezionare armadi e cassetti. Sembrava tutto oltremodo esagerato, molto interessante (poveri diavoli).
“Le cravatte le portiamo via?”.
“Il fon lo prendo?”.
Non essendo esperti di ciò che era (e forse ancora è) il mercato della ricettazione, e vedendo un’abbondanza certamente sconosciuta nelle loro case, erano attirati da tutto.
Il Piccolo aveva infilato nella borsa da postino un paio di scarpe lucide da uomo, un portacenere pesantissimo in pietra ollare, un tagliacarte in legno e due banane prese come bottino di guerra per il dopo furto.
Il Bomba andava riempiendo i suoi sacchetti da panificio delle cianfrusaglie più demenziali, dai cucchiaini finto metallo ricordo di Venezia al centrotavola uncinetto, dal cavatappi laccato verde al taccuino con penna, chiuso con elastico.
Quando il Gionni, passando veloce, si rese conto del fatto che i due stavano rubando materiale invendibile, li fulminò dicendo:
“Rimbambiti! I quadri, di sotto! Buttate via ‘sta roba!”.
A malincuore svuotarono su uno spesso tappeto davanti al camino (acceso) la loro spesa proletaria, e scesero.
Il Taleggio se ne stava tutto concentrato su un divano Chester, sfogliando un pacco di giornali che teneva sulle ginocchia.
Era successo che, per dare una mano, aveva aperto un po’ di cassetti, e ne aveva trovato uno zeppo di riviste porno, di cui l’avvocato era un collezionista, per cui era lì con la bava alla bocca che guardava quei contorcimenti mai visti e neanche immaginati, roba che se ne sarebbe stato seduto per una settimana, senza mangiare né bere.
Il Bomba e il Piccolo, quando capirono di cosa si trattava, si sedettero anche loro, presero la loro brava porzione di cosce e seni e reggicalze, e si misero a sfogliare senza pensare più alla rapina in corso.
Era tutto un “vardaa!”, “va’ che roba”, “fammi vedere!”, “nooo!”.
Negli anni 60 la pornografia, soprattutto quella pesante, non era così a potata di mano come oggi, per cui per i tre, come per chiunque altro, quel tesoro inaspettato era qualcosa di sconvolgente, ogni pagina una rivelazione, molto più attraente di qualsiasi quadro o sottopiatto d’argento e di qualsiasi moto, o altro sogno, in quel momento.
Solo quando il Gionni si catapultò giù dalle scale urlando, nel panico, “la polizia!” si destarono dall’ipnosi, ed effettivamente udirono la sirena inconfondibile che si avvicinava con rabbia, lungo le brevi strade della città.
Lasciarono lì tutto, e corsero dietro al Gionni, che trascinava il suo sacco.
Fuori lui disse:
“Io scavalco, voi buttatemi di là la roba”.
Sparì oltre il recinto, ma ormai i lampeggianti gli vorticavano minacciosi sul lato anteriore della villetta, per cui i tre, morti di paura, saltarono fuori senza occuparsi minimamente del sacco, e crollarono sul Gionni che non sapeva più cosa fare e, benchè imbufalito e desideroso di vendetta, si buttò anche lui nella fuga.
I quattro continuarono a correre a lungo, sparpagliandosi, chi verso il Trippi, chi su Colda, chi in direzione Albosaggia.
Per le strade di Sondrio le luci blu rotearono a lungo, silenziose, lente, alla ricerca di chi era sfuggito alla cattura per pochi secondi, per fortuna, per miracolo.
Rientrarono nelle loro rispettive case a notte alta e all’insaputa l’uno dell’altro.
Al Bomba venne la febbre.
Il Taleggio vomitò.
Il Piccolo continuò a grattarsi fino all’alba, in preda ad un’orticaria psicosomatica da stress.
La mattina successiva, sul Giorno apparve, a caratteri esagerati, un articolone dal titolo “Audace colpo dei soliti guardoni”.
Si dice che l’avvocato, chiamato a casa dalla sorella piangente, trovando alcuni poliziotti intenti a sfogliare con finta noncuranza le famose riviste, si vergognò molto.
I sorrisetti degli agenti lo irritarono parecchio.
1967
“Bella di giorno” di Louis Bunùel vince il Leone d’oro alla Mostra di Venezia e Michelangelo Antonioni presenta “Blow-up”.
Il giorno di Natale c’è la prima parigina di “Barbarella” di Roger Vadim.
Gabriel Garcia Màrquez pubblica “Cent’anni di solitudine”.
I Rolling Stones tengono un concerto a Milano, Nino Benvenuti è campione mondiale dei pesi medi, Eddy Merkx è campione del mondo di ciclismo.
Muoiono Magritte, Totò, Adenauer, viene ucciso Ernesto Che-Guevara, si suicida Luigi Tenco a Sanremo.
Nella guerra dei 6 giorni Israele sconfigge gli Stati Arabi.
A novembre l’Università Cattolica viene occupata dagli studenti.
In Grecia, dopo un colpo di Stato, ha inizio la dittatura dei colonnelli: re Costantino fugge a Roma.
I Doors di Jim Morrison si fanno conoscere nel mondo con “Light my fire”.
Il Consiglio superiore della Sanità si dichiara favorevole all’uso della pillola anticoncezionale.
Cassius Clay, che si fa chiamare Muhammad Alì, oppone un rifiuto alla chiamata per il servizio di leva e perde così il titolo dei pesi massimi, per essere poi condannato a cinque anni di carcere.
Christian Barnard realizza il primo trapianto di cuore su un uomo.
CAPITOLO OTTAVO
Non so se avete presente com’è una piccola città sotto le Alpi, nell’autunno inoltrato, di mattina.
Non c’è la nebbia della pianura, non c’è il clangore dei tram, il rumore del traffico intenso, il suono delle sirene, e nemmeno il vento salato che percorre le strade sul mare.
Non ci sono le voci urlanti, al mercato, i vigili urbani fischiano raramente, e spesso fanno un gesto, così, con la mano, di taglio, per rimproverare, su e giù, in modo obliquo, chi non ha rispettato il codice, e quasi sempre è un vecchio compagno di scuola, un avversario nelle partite di calcio, il cassiere della banca, la postina che parcheggia sul marciapiede.
Non ci sono code alle fermate, né colpi di clacson agli stop. Se ci sono, si guarda la targa e si dice: “ah, ecco”.
C’è silenzio.
Dalla stazione i ragazzi, molti bianchi e rossi perché vengono dalle montagne, scesi dai treni e dai pullman salgono verso le scuole, in gruppi, e gli impiegati entrano nei caffè col giornale sotto braccio, parlando delle ferie di Natale, della partita di ieri sera, dell’acqua che si è alzata, nel letto del fiume, e minaccia di invadere ancora le case e i frutteti.
La mattina è così: entro le otto e mezza ognuno è al suo posto.
A Sondrio, in quei novanta minuti dopo le sette, tutto è sistemato, e in ordine. Dietro alle bancarelle i venditori, esposta in ordine la propria mercanzia, nei giacconi e sotto le berrette di lana tengono tra i guanti colorati un panino sfrigolante, e lo mangiano a grandi morsi, in un balletto sui piedi, destro sinistro.
Nel furgone del girarrosto incominciano a dorare i polli ancora bianchi, le quaglie, i rosticini, e il venditore di insaccati di cinghiale ha già esposto il suo trofeo, dal testone con le zanne penzolano rosari di salsicce e salamini.
Sulle grucce giubbotti, calzoni militari, soprabiti fuori moda in similpelle e camicie scozzesi, di tessuto grosso, quelle che pizzicano, e ti arrossano la pelle del collo. File di scarponi con la suola a carrarmato, picozze, cappelli con la piuma, ma anche pantofole calde, trapunte con disegni di cani e cavalli, calzettoni grigi di lana grossa.
Nelle macellerie la carne è esposta dietro vetri puliti, la verdura nostrana si affianca quella esotica, il formaggio fresco o stagionato, bianco o giallo, color zafferano, quasi marrone, sta in vetrina, tra bottiglie di vino nero e forte.
Miele di rododendro, miele di castagno, miele di eucalipto, marmellata di more, fragole, lamponi, prugne sotto spirito, noci e nocciole nel miele millefiori, torte di mele, fette di mele disidratate, funghi porcini sott’olio, secchi, freschi e interi, orecchiette gialle, uva scura, a piccoli acini, uva passa, pane con l’uva, pane di segale, marroni nella grappa, bottiglie di grappa con la pera dentro, coppetta, caramelle balsamiche, farina gialla, farina nera.
Nel mercato quieto si vende senza strilli.
Il mercato a Sondrio è così.
Come il mercato sono le fiere, che sono poi mercati più grandi, e ogni paese o gruppo di borghi ne ha una, di solito intitolata ad un santo protettore.
Le bancarelle che richiamano un maggior numero di curiosi sono quelle in cui si vendono animali, tartarughine nei contenitori di plastica con l’isola e la palma, pesci rossi, canarini, cocorite, scoiattoli, tortore e topolini. La gente è attratta dalle gabbie in cui ciarlano volatili dall’aspetto orientale, o bianche colombe strette in poco spazio, che fanno venire voglia di comperarle per liberarle. SI chiede al venditore “quanto costa quello?”, “e una coppia?”.
Se compri ti porti via un sacchettino di mangime gratis, e ogni tre tartarughe hai diritto ad un piccolo pesce giallo che sembra abbia dei nastri neri, ondeggianti al suo nuotare.
Quasi sempre si vendono anche galline, galli, anatre, germani, oche, e, nelle grandi occasioni, addirittura caprette, maialini e cavalli.
Fu proprio in una di quelle occasioni che il Bomba si mise in testa di provare un cavallo.
Era un sabato pomeriggio, i banchetti erano lì dal mattino e nell’aria punzecchiante di fine ottobre qualcuno aveva acceso i fuochi per bruciare le cassette e scaldarsi le mani.
Lui aveva detto “mi compro il puledro maròn!”.
Il Pelo aveva detto: “ma se non hai i soldi!”.
Il Piccolo aveva aggiunto: “fai il bullo, poi vedi che voli ti fa fare!”.
Il Taleggio aveva proposto: “non è meglio un criceto, eh?”.
Giravano attorno a sto benedetto recinto, con le balle di fieno al centro, e due cavalli, uno nero e grosso, e uno più piccolo, marrone.
Il Bomba era partito per la tangente: quell’animale muscoloso e forte era il punto di arrivo dei sogni demenziali che aveva ricamato negli ultimi tempi, nel delirio incrementato dalle dosi massicce di film western all’Odeon e letture di numerosi Tex: dopo le visioni e le letture si perdeva sognando in duelli sotto il sole del Texas (speroni in primo piano – la macchina da presa si sposta sul calcio della Colt – sale verso il sigaro, indugia sulla visiera larga del cappello, inquadra l’avversario – fuoco!), in partite di poker sul panno verde del saloon (una biondona tutta boccoli freme di ansia alle sue spalle – il pianista distribuisce note allegre e incalzanti – il tipo secco con la barba dice “passo” – il sicario tutto vestito di nero dice “vedo” – lui mette giù quattro assi – l’altro fa per sparare ma sente la canna della pistola tra le cosce), in scontri con i Seminoles nella prateria sconfinata (il Bomba è quello con la freccia nel braccio – da sopra la diligenza spara a due mani – le ruote corrono all’inverosimile – dentro, sotto di lui, quattro ragazze tremanti – la pistola si inceppa – la lancia contro il capo con le penne di aquila nel vento –lui cade da cavallo – gli indiani si ritirano).
Come un coccodrillo colpito mortalmente agita la coda con violenza e non si rassegna ad abbandonare questo mondo, così l’età infantile lanciava segnali di ribellione, non voleva cedere il passo all’età della ragione.
Il Bomba, in verità, si era distinto, nel corso della sua, fino ad allora, breve vita, per una certa propensione al sogno nutrito della megalomania, per una certa attitudine a trasformare in vicende mentali entusiasmanti e per lui credibili le tante proiezioni di lungometraggi in costume o le letture amene di fumetti storici, o di cow-boy, o di marziani, o di soldati infagottati in tute mimetiche.
Chi non aveva visto il Bomba proiettarsi fuori dall’Odeon con andare sbilenco e fischio incorporato, concentrato nel guidare la biga gigantesca, lui centurione uscito direttamente dallo schermo di “Quo vadis?”? Chi non lo aveva ammirato galoppare fiero verso il Balilla, redini alla mano, stecca del Mottarello a mò di sigaro, gambe inarcate e sguardo assassino, lasciando il cinema la domenica pomeriggio?
Si trovava, tardivamente, in un periodo di esaltazione. I personaggi, più bulli erano e più gli entravano nel sangue, alimentando un’attitudine al gesto clamoroso ed eroico che prendeva spunto dal nastrone di celluloide come il fuoco dalla paglia nei pomeriggi di luglio, o, in subordine, dalla carta grossolana dei fumettoni made in Texas (“appena sistemata questa faccenda, voglio un bagno caldo e una bistecca alta quattro dita con una montagna di patate arrosto!”). Si era messo in testa di comperare il cavallo.
“Quanto costa?” Il Pelo aveva creduto opportuno porre fine al progetto cervellotico dell’amico riportandolo all’impossibilità concreta determinata dal costo, presumibilmente molto al di sopra delle possibilità dell’amico esaltato.
“Centoventimila” rispose pacato il proprietario.
“Io c’ho settemiladuecento. Mi fate un prestito?”.
Non sapevano se ridere o prenderlo a crapadoni.
Ma come? Aveva il coraggio di chiedere a loro i soldi (centododicimilaottocento in tre, trentasettemilaseicento a testa!) per l’acquisto di quel quadrupede culone, assediato da mosche e dallo sguardo stupido?
Il Piccolo, offeso nella sua tracagnottaggine stabile ed adulta, gli diede un papino, come dire “ma oh, se devi proprio dare i numeri dalli col tuo borsellino!”
Punto nell’orgoglio e nella stella da sceriffo, il Bomba propose al proprietario dell’equino: “E se le do settemila e due posso girare un po’?”.
Il furbone, che non aveva venduto niente, se non due capre della moglie e le uova della suocera, pensò “perché no?” pensò “che male c’è?”, pensò “settemiladue tutte per me, nessuno lo saprebbe, perché il cavallo tornerebbe nella stalla…”
Detto fatto.
“Va bene, ma dieci minuti, neh”.
“Venti, dai!”.
“Quindici”.
Un quarto d’ora di praterie per i risparmi di due mesi.
Misero la sella. Il Bomba si arrotolò i calzoni fino alle ginocchia, come per andare in bicicletta. Gli amici si sedettero sulla staccionata, osservando tra l’incredulo e l’ammirato il megalomane.
Salito per la prima volta su un cavallo, il cavaliere stava chinato in avanti, tenendo con una mano le redini e con l’altra la criniera arruffata, perché si sentiva al terzo piano di una casa, ma era un terzo piano in movimento.
Cominciò a girare in tondo, per niente rilassato.
Siccome il cavallo continuava a portarsi verso il centro per riprendere a mangiare, il proprietario lo costringeva con un lungo fuscello a mantenere la posizione di passeggio lungo lo steccato, e quei leggeri colpi sul deretano preoccupavano il Bomba, che temeva potessero indisporre, con rovinosi esiti, il pur placido quadrupede.
Andò avanti così per dieci minuti buoni.
Il cavaliere si rilassò, osando addirittura lasciare la criniera e dare piccoli incitamenti con i tacchi nella pancia dello stallone. Andava via con baldanza, sorrideva agli amici, salutava (mano aperta, saluto militare, pugno chiuso con pollice esteso, pollice ed indice a dire occhei: ad ogni giro, confermava la sua padronanza dell'animale).
Povero Bomba: settemiladue per quel giro di gloria da poveri: un furto bello e buono.
Il Piccolo disse: "Saludos, amigo!".
Il Taleggio disse: "Mi fai provare, Bomba?".
Il Pelo disse: "Goditi la passeggiata, ranger".
Tutto filava liscio.
Ma proprio in quel momento doveva passare di lì l'idraulico Pononi, noto esibizionista, a bordo di una cavalla elegantemente provocante nel galoppo lento e sculettante?
Mentre l'idraulico Pononi dirigeva il quadrupede zoccoluto verso il centro dell'abitato, onde offrire esibizione di sé, e nel fare questo circumnavigava il recinto, il cavallo del Bomba (proprio al quattordicesimo minuto!) incominciava a mostrarsi tutt'altro che tonto e spento, e aumentava rapidamente la velocità, passando dal trotto al galoppo (gli amici applaudono entusiasti, il proprietario si volta e allontana il mezzo toscano dalle labbra), dal galoppo alla corsa con nitrito (gli amici si alzano in piedi e urlano "forza Bomba!", il proprietario muove al rallentatore qualche passo verso la bestia, e si preoccupa), dalla corsa con nitrito al girare e rigirare su se stesso con impennata, doppio calcio indietro, scarto a destra, ripresa a testa bassa (gli amici dicono "ooohh!", smettono di applaudire, sono a bocche spalancate, il proprietario cade, vede sopra di sè gli zoccoli e due occhi furiosi seguiti da due occhi nel terrore più totale, prega la Madonna, invoca la mamma).
La situazione cadde nell'assenza assoluta di controllo.
Il cavallo era impazzito.
Guadagnato in ginocchio il recinto, il proprietario venne salvato dagli amici che si catapultarono all'esterno, mentre lo stallone prendeva la rincorsa e superava d'un sol balzo lo steccato, con un Bomba da rodeo che, compiendo un giro di centottanta gradi proprio all'apice del volo, planò ritrovandosi girato verso le natiche di quel figlio di... cavalla, ancora sulla sella, stranamente vivo, bianco di paura, con le redini a due mani sopra la testa, pregando come non aveva mai fatto.
Sballottato e dolorante, ebbe tuttavia la prontezza di spirito di spianarsi a ventre sul dorso del pazzo e afferrarne la coda, il che gli consentì di acquisire una discreta stabilità, nel pur inconsueto procedere dell'innamorato verso la puledra, che già era ormai in piazza.
I tre amici, seguiti dal proprietario e dai di lui compagnoni, avevano guadagnato ad ampi balzi lo slargo, su cui una cavalla con cavaliere indispettito cercava di sottrarsi alle aggressive attenzioni di un cavallo con cavaliere tramortito e rimescolato.
Gli amici fecero scendere il Bomba. Gli cedettero le gambe, dovettero sostenerlo, lui vomitò, volle imprecare, non ci riuscì, non gli uscì la voce, diventò ancora più bianco, poi giallo, si voltò verso l'animale trattenuto a stento dal padrone e dai vari altri balordi, alzò il pugno, abbassò il braccio, pianse.
Il Piccolo, mettendogli una mano sulla spalla, disse: "Daii...".
Il Taleggio, più spaventato dell'amico cavallerizzo, disse: "Ostia, che salti, mi sembravi Zorro!".
Il Pelo disse: "Così non ci pensi più, al cavallo".
Andarono a sedersi su una panchina. Il Pelo entrò in un bar e uscì con un fernet per l'amico sventurato. Si avvicinò loro il proprietario: "I miei soldi".
Così, senza neanche chiedere come stesse il Bomba, con la prepotenza di chi crede di farla sempre franca in virtù della propria faccia tosta.
Il Pelo si alzò, lo guardò negli occhi, gli disse: "Ringrazi se questa storia finisce qui".
Se ne andarono.
Nel lasciare lì il padrone del cavallo che li guardava interdetto, il Taleggio si voltò per dire: "...e ringrazia, tst!".
Si racconta che da quel giorno il Bomba fece:
-molto meno il centurione
-molto meno il pistolero
-molto meno il ranger
-molto meno il Kid Carson
ed eliminò dal proprio repertorio ogni qualsivolesse riferimento ad animali da sella.
1968
Gli Italiani incominciarono a conoscere Lucio Battisti.
Al cinema escono "C'era una volta il west" di Sergio Leone e "2001 odissea nello spazio" di Stanley Kubrick.
Beppe Fenoglio pubblica "Il partigiano Johnny".
Muoiono due premi Nobel per la letteratura: Salvatore Quasimodo e John Steinbeck.
Vittorio Adorni vince il campionato del mondo di ciclismo. Si svolgono a città del Messico le diciannovesime Olimpiadi: Tommie Smith e John Carlos, atleti afroamericani, sollevano il pugno guantato di nero al momento della premiazione, e Arthur Ashe è il primo tennista nero che vince il torneo del Grande Slam.
Drake e Schweitzer inventano il windsurf, Jackie Kennedy sposa l'armatore greco Aristotelis Onassis, papa Paolo VI promulga l'enciclica "Humanae vitae", nel contesto della quale esprime il proprio parere sui metodi di controllo delle nascite e sulla morale sessuale e coniugale.
In gennaio: terremoto del Belice in Sicilia.
Viene occupata l'Università Statale di Milano, polizia e studenti universitari si scontrano: il conflitto più grave è all'Università Cattolica.
A Memphis viene ucciso Martin Luther King.
Si alternano al governo i democristiani Rumor, Colombo, Andreotti e Moro.
Viene ucciso Robert Kennedy, le truppe sovietiche occupano la Cecoslovacchia a seguito del tentativo di Dubcek di promuovere una riforma.
CAPITOLO NONO
Ogni orizzonte, nella valle dell'Adda, si ferma contro una salita più o meno ripida, più o meno verde, più o meno abitata, e in alto consegna il testimone ad un cielo spesso azzurro, dopo un avvicendarsi di sfumature, verso il marrone, verso il bianco.
Dalla metà di settembre in poi è tutto un giallo che si alterna al rosso, che cede al marrone, al viola, all'arancione, e mentre si riempiono cucine e terrazze di castagne e noci, mele e uva, sulle travi di legno antico vengono appese pannocchie, e sui davanzali si mettono a seccare i funghi, rigorosamente porcini, al massimo orecchiette, perchè il valtellinese diffida dei tipi strani, più che mai quando si tratta di cibo.
Nel volgere delle settimane, verso i Morti, e poi verso il Natale, l'aria si fa punzecchiante, ruvida, e così secca da essere uno schiaffo, al risveglio, o se si esce di casa dopo cena.
Prova a tagliare una fetta di pane di segale, o di polenta, aggiugni una montagnola di pezzetti di Bitto, e metti sulla graticola, o nella cenere, direttamente, o friggi nel burro profumato le frittelle di mele, o taglia il salame di casa sul legno del tavolo, davanti alla cucina economica, con i cerchi che aggiungi o togli in base alla grandezza delle pentole, col fuoco che provvede, parsimonioso, dall'abete o dal castagno, a preparare le salsicce, il cotechino, o il brasato con le verdure dell'orto, e avrai l'essenza della Valtellina.
Incrocia quattro dita, così, l'indice e il medio di una mano con quelli dell'altra, forma un quadrato come fanno i registi, o i fotografi, e racchiudi un'immagine, e guardala: se vedrai quattro cavalli dal pelo lungo e folto, che soffiano dalle narici aria calda nel gelo dei prati sulla spessa brina del mattino, che si può scambiare per neve, mentre dalle stalle vicine, alle cinque, nelle prime luci calde arriva il suono dei campanacci e il profumo del latte grasso, ecco, lì avrai il cuore semplice di questa terra.
Se osserverai sorridendo un vecchio col bastone nodoso che scende lungo un sentiero ripido raccogliendo nello zaino logoro, e imprecando, lattine e buste di plastica lasciate dai turisti avidi, e se questo vecchio salirà sull'Ape portando verso la baita un carico di foglie secche, avrai avuto davanti a te uno degli ultimi quadri di una valle che vive tra le rocce e il fiume.
Il nonno preparava ancora al Pelo il "fugascìn", una palla di polenta farcita di pezzi di formaggio grasso e scaldato sotto la brace. Lo facevaa da anni, dentro quello stesso camino in cui il ragazzo, da piccolo, faceva la pipì, per la paura di andare in bagno, prima di dormire.
Fette di polenta fredda nel latte caldo, castagne bollite nel latte freddo, pizzoccheri filanti con le patate e le verze, sciatt con un goccio di grappa nella pasta, bresaola con olio e prezzemolo, cùpeta con il miele denso: i nonni erano legati ai cibi tradizionali, e quando il Pelo andava a trovarli si avvicendavano ai fornelli per riempirgli il piatto di leccornie. Di fianco alla loro casa c’era quella del Moroni, un uomo anziano, iroso ed attaccabrighe, che non perdeva mai e poi mai l’occasione, anche piccola, anche minima, per procurare guai ai nonni del Pelo.
C’era un muro di cinta, alto poco più di un metro, che divideva i due giardini. Se i rami di piante delle mele andavano di là, nel suo spazio aereo, o se un po’ di verde rame dato ai pergolati di uva americana sporcava i sassi della recinzione comune, lui si vendicava subito, tagliando in modo turpe ogni prominenza, o spandendo a sua volta liquido verde sulle piante del vicino.
Aveva una stalla, di poche mucche, ma che mandava un odore soffocante, soprattutto nei mesi estivi, e lui si lamentava con il vigile urbano – messo comunale per l’odore proveniente dal pollaio del nonno del Pelo: quattro galline in croce.
Così il vigile lo aveva obbligato a costruire mura di assi di legno, e una porta, per segregare gli animali e ridurre, almeno di un po’, i lamenti e le vendette. Due giorni dopo un litigio durante il quale, come sempre, il nonno, al di qua del muro, aveva taciuto, e il Moroni, salito su una scala, al di là del muro, inveiva, il tutto per una storia di cachi piovuti da rami altissimi e fuori controllo sul motocarro, praticamente un rottame, del vicino rissoso, il nonno aveva trovato le gomme del suo Guzzi tagliate, e aveva dovuto starsene zitto e buono, essendo, com’era, senza nessuna prova.
La domenica successiva il Pelo era a pranzo.
Dopo il Braulio, come faceva sempre, uscì in giardino per fumare una sigaretta, passeggiando.
Entrato nella legnaia vide la Guzzi con le gomme a terra e chiese spiegazioni ai nonni, , i quali, non portati né all’accusa, né al lamento, diedero del filo da torcere al nipote, finché, dopo tanti “ma non fa niente”, Palmiro, non ci importa”, e “lasel buii, quel lì, nel so brood, che l’è na bruta bestia” (lascialo bollire quello lì nel suo brodo …), arrivarono a raccontare tutta la storia.
Il martedì sera i quattro si diedero appuntamento nel giardino dei nonni del Pelo.
Il Piccolo aveva portato una catena pesante, poichè da due anni covava un sentimento assassino di vendetta nei confronti del sciur Moroni, responsabile di averlo accusato ingiustamente di rottura di un bottiglione di vino rosso, dentro una cesta di metallo che lui aveva consegnato a nome del supermercato Scherini.
Non spinti da motivazioni specifiche, ma mossi da un generico, ed altrettanto virulento, sentimento di rivals nei confronti di tanti vicini di casa che, nel corso degli anni, avevano contestato le manifestazioni estemporanee del loro estro pittorico lungo mura esterne di case e scale interne, avevano osteggiato le conseguenze della comune attitudine a sparare tastiere e chtarre elettriche (su 45 e 33 giri) oltre i 130 decibel (e 8.000 Hertz), avevano calunniato le loro persone attribuendo responsabilità dirette in merito alla scomparsa da cantine ed autorimesse di pezzi di Morini 125, Dingo 50, Grazielle e, più lontano nel tempo, tricicli e monopattini, il Bomba e il Taleggio si erano uniti agli altri due con uno spirito di scorribanda genericamente procacciatrice di giustizia.
Penetrare nel territorio del signor Moroni non era un problema, se non per il pattugliamento di uno strano animale, metà porco e metà iena, legato ad una chilometrica catena e costantemente incazzato: l'iracondo e spaventevole cane Benito (il sciur Moroni era un nostalgico del ventennio, il nonno del Pelo, come tutta la famiglia, aveva nel cuore, tatuate a lettere di fuoco, la falce e il martello, e il nome Palmiro non era stato dato, infatti, così per caso).
Al quadrupede aveva pensato il Bomba, estendendo la propria esperienza in qualità di scotennatore di lucertole e seviziatore di gatti al mondo animale in generale.
Aveva portato le classiche due polpette farcite al veleno per topi ("ci ho messo anche la noce moscata, neh") ma a nulla erano valse contro quel mostro immondo che ne aveva reclamate altre, schiumando a destra e a manca.
Il Taleggio aveva detto: “Ci penso io!”.
Era tornato con: sei aspirine, una scatola di tonno, un rimasuglio di candeggina Ace in un bidoncino di plastica, un boccetto di ittiolo, il flacone delle gocce per dormire di sua mamma, un pugno di chiodi di garofano, la “schiscèta” del padre con i maccheroncini avanzati.
Si misero a miscelare il tutto. Quando il cane si avventò assatanato sulla pietanza, i quattro stettero col fiato sospeso.
Lui sbafò tutto, guardò in alto, verso le quattro teste che spuntavano dal muretto, scodinzolò per due-tre minuti, e si allontanò satollo.
Nello spazio di tempo che seguì: incominciò a zigzagare, appoggiò un ginocchio, si risollevò, guaì, si voltò a sbirciare i carnefici, proseguì a sghimbescio, abbaiò, vomitò, cadde nel proprio vomito, si addormentò deluso e dispiaciuto a zampe in su, nella brezza notturna.
Via libera!
Si avvicinarono quatti quatti alla finestra del pianterreno, l’unica illuminata. All’interno si vedeva il Moroni in pantofole e pigiama, con una specie di vestaglia sbrindellata, intento a leggere un settimanale bisunto davanti al camino. Dentro un bicchiere d’acqua le due dentiere.
Non avevano un piano, se non quello di fargli pagare le sue vigliaccate e quelle di tutti coloro che li avevano perseguitati dalla prima infanzia.
Stettero un po’ ad osservare.
Il Moroni leggeva, parlava da solo, buttava un pezzo di legno nel camino, chiudeva gli occhi, li riapriva dopo ronfate sempre più lunghe.
Ai suoi piedi un bottiglione di rosso da due litri, ormai vuoto.
Bofonchiava frasi alcoliche tipo “….en…vedrà…vori…minga!” (vedremo, non voglio), o “…chi cumandi mì, numa mì,…finchè ghe so…” (qui comando io, solo io, …finchè sono in vita).
La porta non era chiusa a chiave. Per primo entrò il Pelo, poi gli altri.
Si accovacciarono dietro il divano, e dopo pochi minuti il Moroni incominciò a russare profondamente. Il Bomba provò a tastarlo con la scopa: niente, neanche mollando bei colpetti in testa: tac, toc, toc … CRAC!
Dormiva di brutto.
Si rilassarono. SI guardarono attorno. Era la cucina nera, affumicata, di un povero cristo che viveva solo, e tirava avanti grazie ai bottiglioni di rosso.
Il pavimento ancora di terra battuta, il lavello in pietra stracolmo di pentole, bicchieri e piatti, la tavola coperta di pelli di salame, croste di formaggio, briciole e giornali, il tutto illuminato da una lampadina sporca che pendeva dal soffitto con strisce di carta moschicida, tutte coperte da carcasse di insetti.
Si ritrovarono a guardarlo. A vederlo così, nel baluginìo fioco del magro fuoco, senza denti, con quel labbro inferiore vicino al naso, spinto in fuori dal soffio vibrante del russare, scarmigliato e stracciato, il sciur Moroni non stimolava il rancore, ma la pietà.
Però la lezione dovevano dargliela. Non poteva mica continuare a tiranneggiare il nonno del Pelo e ogni malcapitato che si trovasse sulla sua strada!
Pensarono.
Intanto il Bomba si era messo a tagliare castagne e cuocerle sul fuoco, in una pentola coi buchi che aveva trovato appesa di fianco al camino.
Fu il Pelo a dire: “Cosa facciamo?”.
Il Taleggio propose:
“Portiamogli via le dentiere e lasciamogli un cartello con scritto SMETTILA DI ROMPERE LE BALLE, SE NO TORNO E TI PRENDO ALTRI PEZZI. Firmato: IL DIAVOLO”.
Gli altri mossero la testa per dire “mica male, come idea”.
Il Piccolo propose:
“Lo leghiamo bene e poi lo spalmiamo con tutta la roba che c’è in casa: colla, detersivo, farina, vino. Gli mettiamo in testa le carte delle mosche.”
Il Bomba intento a far rullare nella pignatta i marroni, disse:
“Io dico di mettergli un bel cerotto sulla bocca, poi spogliarlo, legarlo, e portarlo nella stalla, e mollarlo lì, per terra, così quando lo trovano tutto sporco e puzzolente, dopo dovrà abbassare la cresta!”.
Ci pensarono su.
Intanto il Bomba si mise a distribuire i braschè, e il Taleggio a riempire quattro tazze di un vino nero e denso.
Trascorsero un paio d’ore. La situazione era irreale: c’era un condannato che ronfava inconsapevole, e sparava aria, e parole, e minacce, e tossiva, si girava sulla poltrona, dentro un sonno profondissimo, e c’erano quattro carnefici avvinazzati, ormai proprio brilli, troppo buoni per decidersi a fargli del male, troppo semplici per escogitare vendette complicate, contenti di essere lì, loro quattro, a sbafare castagne calde e bere vino, e ancora di più di non avere procurato danni a un povero vecchio solo.
Tornarono a casa. Il Pelo chiuse la porta del sciur Moroni, dopo avere spento la luce. I sentimenti contrastanti di pietà e voglia di punire, l’aggressività e la tristezza nell’osservare come solitudine e vecchiaia riducano un uomo, il gonfiore da castagne e i proponimenti omicidi si stemperarono nel fresco della notte.
Il Bomba andò ad assicurarsi che il cane Benito fosse ancora in vita.
L’accarezzò.
Lo mise a braccia dentro la sua cuccia.
Battendo i tacchi ed estendendo braccio e mano destra esclamò: “A noi””.
1969
Dennis Hopper è il regista di “Easy Rider”, con Peter Fonda e Jack Nicholson, Luca Ronconi rappresenta l’ “Orlando Furioso”.
Muore Jack Kerouac, Samuel Beckett vince il Nobel per la letteratura.
Primo volo dell’aereo Concorde.
I Doors e Jim Morrison, gli Who, Jimmi Hendrix e Janis Joplin suonano nel concerto di Woodstock davanti a quattrocentomila giovani.
Bob Dylan si esibisce, tra gli altri, al festival di musica pop sull’isola di Wight: partecipano duecentomila hippies.
In Italia si celebra la prima messa con il nuovo rituale in lingua italiana, abbandonando il latino.
Silvio Berlusconi inizia la costruzione di Milano 2.
Jan Palach si appicca fuoco per protestare contro la repressione del regime sovietico. Arafat viene eletto presidente dell’OLP, Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Muore l’ex presidente americano Eisenhower.
Referendum in Francia: il generale De Gaulle perde il referendum sulle riforme e si ritira.
In Italia ha inizio la “strategia della tensione” con una serie di attentati sulle linee ferroviarie.
Attentato a Palazzo Marino a Milano.
Neil Armostrong è il primo uomo che calpesta il suolo lunare: fa parte dell’equipaggio di astronauti americani che raggiunge per la prima volta la luna.
Mohammed Gheddafi, colonnello, destituisce il re Idris I e diventa presidente della Libia.
Nel corso dell’autunno caldo” si organizzano grandi manifestazioni studentesche e operaie.
Il socialdemocratico Willy Brandt è il nuovo cancelliere tedesco.
Viene firmato il contratto nazionale dei metalmeccanici, e nelle industrie pubbliche l’orario settimanale è di 40 ore. Sono riconosciuti i consigli di fabbrica. Poco più tardi verrà firmato anche il contratto delle industrie private.
Strage in piazza Fontana a Milano: una bomba innescata presso la Banca dell’Agricoltura provoca sedici morti e novanta feriti. Muore in questura, a Milano, l’anarchico Giuseppe Pinelli e, per la strage di piazza Fontana, viene arrestato l’anarchico Pietro Valpreda.
CAPITOLO DECIMO
“Mondocane galeotto, dov’è il prode Lancillotto?”.
Negli anni sessanta la pubblicità, non più statica, non più detta, parlata, quindi non più dei giornali e dei manifesti, né della radio, ma per immagini in movimento, diventa realtà della casa e della famiglia ed incomincia a veicolare i consumi e i comportamenti.
Carosello diverte ed informa, depreda bonariamente cinema, cabaret, musica e teatro, si piazza lì come rito e appuntamento: dopo, i bambini vanno a dormire.
Carosello è una piccola festa quotidiana che fa da vetrina ai consumi, nell’epoca in cui nascono supermercati e magazzini. Città e campagna si ritrovano accomunate dall’incontro serale con fiabe e scenette, ritornelli e micro-cortometraggi, il tutto confezionato nell’elegante contenitore che innesca l’abitudine di fare propri i modi di dire, i tic e le battute dei personaggi della pubblicità.
Carosello è un laboratorio di immagini, creatività e idee: nascono Unca Dunca di Bozzetto per la marca Riello, l’ippopotamo Pippo per la Lines, Jo Condor per la Ferrero, Caballero e Carmencita per la Lavazza, la Linea per Lagostina, Calimero per Ava, Cocco Bill di Jacovitti per Eldorado e Lancillotto per Pavesi.
E se, per quanto riguarda il mondo, gli anni sessanta sono stati il Che e Mao, Godard e Marcuse, la Polaroid e la Xerox, Kennedy e Krusciov, Cassisus Clay e il diesel, il Vietnam e la Primavera di Praga, per l’Italia sono stati il design italiano e i supermercati, l’autunno caldo e il Piper, i preti operai e gli studenti in piazza, la Dolce Vita e gli spaghetti western, il maggiolino e il Duetto, ma sempre, ogni sera, atteso come un premio, il Carosello.
Guardare loro, il Pelo, il Piccolo, il Bomba e il Taleggio, verso la fine del decennio, significa avere un’immagine che assomiglia molto a quella dei quattro di Liverpool: la beatlesmania ha coinvolto tutti i giovani. I “matusa” chiamano figli e nipoti “capelloni”.
Restano dei buoni diavoli.
C’hanno quell’andatura un po’ da montanari, un po’ a gambe larghe, lievemente piegate alle ginocchia, e se li guardi da dietro vedi queste quattro zazzere che fluttuano nell’aria su corpi da torelli, che si spintonano ancora.
Li puoi immaginare a Woodstock, tra quattrocentomila come loro, ma stanno bene anche così, presi dall’imitazione dei modelli del cinegiornale, piuttosto pacifici, non complicati.
POST-SCRIPTUM
Gli anni 60 sono stati un periodo di creatività e rivoluzione anche nella nostra provincia.
Qui da noi, gruppi musicali come i Cherubini, gli Archei, i Nuovi Archei, le Spine, gli Storks, gli Angeli Selvaggi, i Gatti Neri, i Copains 60, gli Scratchs, i Falchi, i Randagi, i Paggi, sono nati sull’onda della nuova corrente di denuncia sociale che ha caratterizzato il cosiddetto beat italiano.
Non è possibile, oggi, a distanza di vari decenni, sapere quanta consapevolezza ci fosse e se chi cantava e suonava con capelli lunghi e collane si rendesse conto di cosa diceva e faceva o se invece seguisse semplicemente la moda.
Un fatto è certo: al centro come alla periferia, nelle metropoli come nei piccoli paesi, si incominciava a mettere in discussione il sistema, e l’essere capelloni stava a significare, quasi sempre, non solo sentirsi adeguati alle correnti che attraverso la televisione e i cinegiornali arrivavano dagli Usa e dall’Inghilterra, ma anche opporsi al conformismo di una società che, dal dopoguerra in poi, cercava rassicurazione negli status symbol e nel fare gruppo, meglio ancora se si trattava di un fare gruppo di ricchi, o almeno benestanti, o almeno borghesi, in subordine almeno legati dal possedere gli stessi elettrodomestici e andare in vacanza nei medesimi luoghi.
Francesco Guccini scriveva “nelle auto prese a rate Dio è morto, nei miti dell’estate Dio è morto”, ma io ricordo ancora la felicità mia e delle mie sorelline nello scendere a rotta di collo dal nostro primo piano in via Ercole Bassi per salire sulla Simca 1100 arancione del papà, che strombazzava sorridente giù in strada sulla sua auto nuova, presa a rate, appunto.
E il rito “cabina+ombrellone+due sedie a sdraio – ottava fila al mare” è un ricordo bellissimo, per me, mille e mille volte meglio dei tragici mesi della colonia “climatica” di Borghetto Santo Spirito.
Chi, come me, era bambino, non si rendeva conto di crescere in un periodo speciale e forse unico nella storia moderna italiana, ma gioiva senz’altro nel godere di tutto ciò che rappresentava quanto la nuova borghesia inseguiva e i capelloni contestavano, dai beni presi a rate ai quindici giorni a Rimini (per me, alla pensione “bistecca-formaggio-prosciutto”, dalla cantilena della cameriera che, al momento della cena, proponeva le costanti tre alternative a noi, scottati dal sole ma freschi di doccia sabbia nei capelli e congestione da “tutto in due settimane”).
Per chi, negli anni sessanta, era bambino, tutto, ma proprio tutto, dalle patacche multicolori con simbolo della pace ai giri in Lambretta, dal frigorifero alla televisione, dai quarantacinque giri al Cantagiro, dalle camicie a fiori ai grandi foulards, tutto era bello.
L’Italia era uscita a brandelli dalla Seconda Guerra Mondiale e cercava una condizione di stabilità, in difesa della quale si stringeva attorno alla costruzione di stili di vita ritmati dall’acquisizione di beni materiali assolutamente necessari per fare parte del gruppo: se oggi, in America, il livello di ricchezza di una famiglia è comunicato dalla marca del tagliaerba parcheggiato in giardino, negli anni 60 e in Italia non avere il secondo canale televisivo o peggio ancora, la televisione, era un marchio (chi non possedeva il televisore e ascoltava la radio ricordava la guerra, le trasmissioni proibite di Radio Londra.)
I nuovi generi musicali diffusi attraverso i jukebox, i flipper, i blue-jeans (proibiti in alcune scuole della nostra nazione) preoccupavano gli adulti, i genitori, impegnati nel costruire nuove solide tradizioni che fossero la base di una società ricostruita sulle macerie dei bombardamenti.
E’ da scrittori come Lawrence Ferlinghetti e Allen Ginsberg, Jack Kerouac e Ken Kesey che arriva un nuovo modo di pensare e scrivere, basato sull’improvvisazione e sulla povertà.
Sono proprio Kerouac, J.C. Holmes e Ginsberg che inventano il concetto di “Beat Generation”, movimento al quale appartennero coloro che fecero del vivere senza possessi, ineleganti e in condizioni di continua contestazione verso la società costituita, una scelta precisa, basata sulla non violenza, sul vivere all’aperto e nelle strade, contro il perbenismo.
“Beat” come “beati”, ai margini della società ma ricchi di spiritualità e voglia di cambiare.
Ma sono i ragazzi normali, come il Pelo, il Piccolo, il Bomba e il Taleggio, è la moltitudine che non vive sulla strada col sacco a pelo, ma si accontenta di essere zazzeruta e alla moda, che diffonde il movimento beat.
Ed i giovani incominciarono ad essere interessanti per l’industria.
Se nel 1964 vengono venduti 22 milioni di 45 giri, nel 69 arrivano a 34 milioni, ed è proprio questo l’anno record per il mercato discografico italiano.
I jukebox in Italia sono 4.000 nel 1958 e 40.000 nel 1965.
Nel generale movimento di protesta giovanile, i giovani stessi sono vittime ed accusatori, contestano il consumismo e consumano dischi, vestiti, occhiali, gadget di ogni tipo, manovrati da chi ha capito, come sempre, che si possono fare molti soldi grazie alla moda e alla sua diffusione.
Colni Mac Innes, autore di “Absolute Beginners”, scrive: “In Inghilterra esistono almeno due milioni di ragazzi che hanno in tasca una cifra media settimanale da spendere di circa tre sterline.
Questo significa che muovono ogni anno la somma di 312 milioni di sterline e le loro esigenze in fatto di vestiti, dischi o film vengono tenute ben presenti dagli operatori del settore. I teen-ager hanno un nuovo reale potere economico”.
Se a Londra i nuovi luoghi mitici sono Portobello, Carnaby Street e Chelsea per la moda, Denmark Street e Soho per la musica, in Italia dal 1965 in poi nascono i locali come il Piper (prima a Roma, poi a Viareggio, Milano e Torino) e il Beat 72: costo del biglietto d’ingresso 3000 lire per il primo, 500 per il secondo.
Gli architetti stessi devono pensare in modo diverso, perché i nuovi locali non sono più luoghi da arredare, come i night club, ma vaste aree rivolte alla collettività, con una grande pista centrale e pedane luminose.
Claudio Cintoli è l’ideatore del “Giardino di Ursula” e pone un grande pannello che mostra un’enorme bocca femminile che sorride sul palco destinato ad accogliere i complessi del Piper romano.
Luigi Tenco protesta di fronte alle provocazioni di chi gli fa notare che “….anche la canzone di protesta è una merce di consumo…tu ci campi sopra, dunque anche tu sfrutti” e risponde “ma io dico: Bob Dylan, Barry Mc Guire quando vende un milione di dischi di Eve of Distruction fa qualcosa che non poteva fare se non avesse fatto parte di un tipo di società”.
In Italia ci furono molti casi di censura nelle scuole superiori, ad opera dei presidi, per contrastare articoli malvisti sui giornalini degli istituti. Si scriveva contro la guerra in Vietnam, l’apartheid, l’evasione fiscale, a favore dell’educazione sessuale, contro i politici, ecc.
Il caso più famoso è quello del giornale “La zanzara” del liceo Parini di Milano.
La Procura incriminava tre redattori, ragazzi di buona famiglia, e il preside, colpevole di mancata censura.
L’accusa prende spunto dall’inchiesta “Che cosa pensano le ragazze d’oggi?”, apparsa sul numero del febbraio 1966. Le risposte delle giovani donne mettono in evidenza l’autoritarismo dei genitori, il moralismo con cui sono affrontati i temi sessuali, l’ipocrisia di chi parla di temi considerati pericolosi difendendo il proprio quieto vivere.
Risposte come “Se potessi usare liberamente gli anticoncezionali non avrei problemi di limiti nei rapporti sessuali” creano uno scandalo nazionale clamoroso, per non parlare di testimonianze come “La posizione della Chiesa mi ha creato molti conflitti fin quando non me ne sono allontanata”.
Il processo per direttissima si conclude con l’assoluzione degli imputati.
In questa Italia di tabù e contraddizioni, di rate da pagare e minigonne, io ero piuttosto contento di passare la lucidatrice sul pavimento in legno della nostra casa in affitto, ascoltando nel mangiadischi verde “Pietre” di Antoine o “Applausi” dei Camaleonti, “Insieme a te non ci sto più” di Caterina Caselli o “Ragazzo di strada” dei Corvi, “29 settembre” degli Equipe 84 o “La bambola” di Patty Pravo (23 settimane al primo posto in classifica), “E’ la pioggia che va” dei Rockes (26 settimane al primo posto),”Soli si muore” di Patrick Samson.
Io, più che altro, guardavo, e ascoltavo, e imitavo, come il Pelo, il Piccolo, il bomba, il Taleggio.
Vedo il loro futuro.
Avranno morbide mogli cotonate e grandi simbolici frigoriferi bianchi, margarina e crackers, formaggini Mio e carne Montana, fiducia nello sviluppo economico e nel progresso, digestivo Antonetto e Fortunello, la Giulia Alfa Romeo e la Spider, o forse solo la due cavalli.
Cresceranno nel Rock’n’roll e non è escluso che arriveranno a provare hashish e marijuana, o LSD.
E conosceranno le crisi economiche, il divorzio, le delusioni di promesse sociali non mantenute, ma ci passeranno attraverso, sbucando nella loro età adulta con qualche frammento di sorriso sulle labbra.
A me piace ricordarli così, attorno al juke-box, mentre i Corvi cantano “sono un ragazzo di stradaa…”, mentre ballano dinoccolati, tra loro.
Loro erano così, in bianco e nero e a colori, in città e alla periferia, duri ma buoni, spacconi ma timidi.
Non so se siano cresciuti sereni, sicuramente dentro un mondo semplice, questo sì.
Accendere un televisore 27 pollici Singer, vedere in diretta Totò, ballare il twist e l’hully gully, mettere la moneta nel juke-box della latteria nel profumo di panna, spiare i bikini, entrare nei primi supermercati, lucidare la 850, avere la Candy a rate, sognare Brigitte Bardot e guardare la réclame di Walter Chiari: secondo me è stato un privilegio vivere dentro tutto questo.
Sul Gelosino, economico registratore a bobine inventato da John Geloso, si raccoglieva la musica della radio, si andava in treno alla Fiera Campionaria, dai cappotti incominciavano a spuntare i tascabili.
L’Italia cambia, vuole fare l’americana, ma i quattro crescono nel loro mondo: le immagini arrivano anche ai loro occhi, ma poi ha la meglio la semplicità, l’adeguarsi, sì, ma senza scaldarsi più di tanto.
Li rivedo attraverso il tempo, amici, mentre sguazzano nell’acqua di smeraldo, su alle cascate, col cane Fulmine, e si buttano con le liane, imitano Tarzan, nuotano nell’acqua fredda, rossi, sorridenti, vivi, semplici.
Liberi.
Sondrio, 1 gennaio 2004
30 settembre 2006
INDICE
5 Mitici anni sessanta
9 PREFAZIONE
19 CAPITOLO I 1960
29 CAPITOLO II 1961
39 CAPITOLO III 1962
53 CAPITOLO IV 1963
67 CAPITOLO V 1964
77 CAPITOLO VI 1965
95 CAPITOLO VII 1966
109 CAPITOLO VIII 1967
112 CAPITOLO IX 1968
131 CAPITOLO X 1969
133 POST-SCRIPTUM
ALLA PERIFERIA DEL BOOM testo di doctor