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Una volta arrivato in hotel, ti accorgi che la valigia non è la tua. E’ simile: stesso colore, stessa forma, stesse dimensioni; stesso tutto, praticamente identica; ma non la tua. Il codice numerico prevede un numero in più da inserire e far girare: una semplice cifrettina piccina piccolina, una quantità infima ma sufficiente a totalizzare un disastro.
Non è la tua.
La posi sul letto con la mente annebbiata. E adesso? Bisogna fare… che cosa? Tornare indietro, pensi debolmente. Martellarti. Piangere. Signore e signori, ecco a voi lo scambio di valigie. Fischi dal pubblico. Vittima di un cliché.
Alla fine ti decidi a fare un tentativo e chiamare l’aeroporto. Assistenza-bagagli-buonasera-mi-dica, sì, come dice, la sua valigia non è la sua valigia, ah, mah, almeno è solo una valigia, pensi se fosse stato suo figlio a non essere suo figlio o suo padre a non essere suo padre, sì lo pensi bene, o se fosse stato lei a non essere lei stesso, o lei a essere suo figlio o suo padre, quello sì che era un problema, come dice, ma come che vuol dire, vuol dire, ecco, vuol dire, però non posso aiutarla, la privacy sì, esatto, buona fortuna e buonanotte, certo.
La chiamata si interrompe. Ma che cazzo, pensi, quando torno gli faccio un bel reclamo. Un bel reclamo, così pensi: come esistesse un’estetica dei reclami. E intanto la valigia non è la tua. Conviene cambiare tattica.
Magari ad aprirla scopri chi è il suo vero proprietario; forse anche lui ha commesso il tuo errore, anzi, sicuramente è così; e se trovi il proprietario trovi la valigia e se trovi la valigia… trovi la valigia, punto. La valigia non ha sufficiente importanza nella tua vita per generare altri eventi degni di nota. Strano, poco fa dicevi che perderla fosse un disastro. Martellarti, piangere, dicevi; eppure ora non contiene niente di indispensabile. Solo foto di viaggi con lei. Eravate così diversi tu e lei, sospiri, così diversi dagli altri. Lei chi, non ce lo spieghi ancora e ci lasci con un dubbio; però adesso sei triste e vorresti farti una doccia e una dormita.
Invece ti accanisci su quello stupido lucchetto: cinque cifre da zero a nove per un totale di centomila combinazioni. Non male. Ne provi qualcuna partendo dalla base, zerozerozerozerozero, clac, zerozerozerozerouno, clac; ad ogni clac perdi un po’ di pazienza. Dopo circa trenta combinazioni, scopri che la pazienza ne misurava forse quindici o poco più, e che finita la scorta si perdono le speranze. Quelle sono anche meno della pazienza. La fortuna deve accadere subito per essere tale.
Chissà perché, decidi di provare con la tua combinazione personale: il tuo anno di nascita, ma al contrario e con le cifre in centro sommate e ridivise; insomma, un numero che con il tuo anno di nascita non c’entra poi un granché, ma tu te lo ricordi e va bene così. Siccome ti serve una cifra in più gli aggiungi un bello zero - ecco un’altra estetica bizzarra. Clic, dice la valigia; la serratura scatta.
E’ un fatto così inaspettato che per qualche istante perdi il filo e non ricordi più che stai facendo, ma ti riprendi in fretta.
Ciò che scopri non si spiega: la valigia è diversa, ma il contenuto è uguale. Sembra quasi una metafora di vita, non fosse che ci sono i tuoi calzini, dentro, e le tue mutande lise, e il tuo libro di Buzzati che dici di leggere da dieci anni a questa parte.
Però a ben guardare non è proprio tutto uguale. Con pollice e indice prendi un paio di mutande e lo sollevi un po’ perplesso. Le righine appaiono verdi, ma sei abbastanza convinto che prima di quel viaggio il colore fosse il blu: blu marino, blu cobalto, blu qualcosa, insomma. Anche i calzini hanno tonalità differenti da quelle che ricordi, pur conservando gli stessi orribili motivi geometrici; e il libro era Il deserto dei tartari, non La boutique del mistero, o almeno ti sembra, perché non l’hai mai aperto e non sai di cosa parli.
Ti gratti il capo perplesso e ti chiedi se tu non sia forse impazzito; così cadi vittima del secondo cliché. Il terzo arriva quando ti dici che questa non è proprio la tua serata.
Quando però vedi il vestito a fiori dimentichi i cliché e lo afferri sbalordito. L’impressione che ti fa è così grave che non puoi stare seduto sul letto e scatti in piedi. Lo distendi alla luce e lo squadri sbalordito; lo giri, lo scuoti, quasi ti aspetti di vedere balzare fuori la versione di lei in miniatura. Con entrambe le mani lo stringi e te lo porti al naso: inspiri con forza, rumorosamente, avidamente. Ha lo stesso profumo di spezie che aveva lei: cardamomo cannella zafferano. Potrebbe addirittura sfuggirti una lacrima, se non fosse che ripensi: niente di indispensabile, niente a cui tu sia legato particolarmente. Allora ti trattieni e decidi di conservare un briciolo di coerenza.
Eppure anche il vestito ha qualcosa che non va: un’analisi più approfondita ne risalta le differenze. I fiori sono rose, tu ricordi tulipani; i bottoni erano tondi, questi sono ottogonali. Non è lei, ti dici, non è la mia valigia; ma le parole nella tua testa sono come immerse nella colla ed escono a fatica, ingarbugliate.
Sotto il vestito c’è dell’altro. Già sai cos’è, ma ancora non sai perché invece non lo è. Un album di fotografie con la copertina di plastica a pois. E’ l’album dei viaggi. Il tuo non aveva pallini, ma stelline. Con mani tremanti lo sfili dalla valigia e lo apri. Stai trattenendo il respiro da così tanto che da pallido stai diventando del colore delle melanzane. Fai un po’ impressione con quegli occhi spalancati, sembra che ciò che vedi è troppo grande per te e non riesci a farlo entrare.
La prima fotografia è Parigi, proprio come te la ricordavi. Ci siete tu e lei, e sullo sfondo la torre Eiffel. Ti viene da pensare che non sia molto diversa da una foto qualsiasi di una coppia qualsiasi in una Parigi qualsiasi e la cosa ti disturba. Troppa gente fa viaggi troppo uguali, ma i tuoi erano diversi. Osservi lei; ma a ben guardare lei non è lei, e naturalmente nemmeno tu sei tu. Vi assomigliate, certo, ma lui porta gli occhiali e ha i capelli lunghi, intanto.
Nella seconda fotografia i tuoi capelli sono ancora più lunghi, mentre lei ha un sorriso un po’ stanco. Non ricordi dove l’avete scattata con esattezza: Vietnam, Cambogia, Laos. Vedi palafitte su un grande lago. Con la mente viaggi tra ricordi che non ricordavi: i bambini hanno occhi a mandorla che a lei piacciono tanto; per andare a scuola prendono prima una barchetta e poi un pullmino; la gente pesca pescini che poi frigge nell’olio di cocco. Dove mai eravate?
Osservi con attenzione lo sfondo in cerca di un dettaglio e poi ti blocchi. Ragioni sull’assurdità di quello che stai facendo e per la paura ti senti mancare il respiro. Non sei tu, pensi, non sei lui; tu sei diverso.
Ma il tuo sguardo passa alla terza fotografia, alla quarta; giri pagina e sveli la quinta, la sesta, la settima, l’ottava. I tuoi occhi riflettono tutti i luoghi che hai visitato con lei: curve colline toscane, rigide cataratte di Dolomiti, incensi caldi nel deserto dell’Oman, templi giapponesi dove il tempo non avanza, non arretra, non fa nulla; tutto il tuo viaggio così speciale, così unico. Dimentichi dove sei; ti senti come non ti sentivi da tanto tempo, al diavolo i cliché; come quando ancora lei c’era e volavate oltre ogni cosa. Eri sempre tu a volere andare in giro, vagabondo da strapazzo; lei ti seguiva, perché ti voleva bene. Anche quando era stanca e non lo diceva; anche quando era stanca e tu lo sapevi.
Con la mente prendi il volo: vagoli viri precipiti sali. Visiti memorie che non ti appartengono, ricordi ricordi che non hai vissuto, ti immergi in un viaggio che non è il tuo, e tutto questo con un’innocenza che ha dell’incredibile, con una naturalezza che fa quasi ridere.
Ma non è la tua valigia.
Ritorni in te con un’angoscia nuova che ti chiude la gola. Chi è quest’uomo il cui viaggio è uguale al tuo? Uno sbaglio, ecco chi è; una coincidenza; un cortocircuito statistico assurdo, un improbabile scivolone probabilistico. Ha i tuoi stessi calzini e le tue stesse mutande, santo cielo. Ha visitato i tuoi stessi posti nel tuo stesso ordine.
Ma chi ti dice che i posti siano tuoi? Se invece fossero i suoi posti e tu li avessi usurpati? Se stessi percorrendo le strade di un altro, nelle città di un altro, nel mondo di un altro? Non ti passa nemmeno per la mente che i posti non siano di nessuno e che tutti noi si faccia lo stesso identico viaggio.
Riponi l’album, sconfitto. Solo in quell’istante noti l’adesivo appiccicato all’interno della valigia. Ma certo, dici: ce l’hai messo tu. Solo che il nome riportato non è il tuo, né lo è il numero di telefono scritto appena sotto con la tua calligrafia minuta e precisa.
A questo punto hai un grande mal di testa e una paura ancora più grande. Ma devi sapere e perciò decidi di chiamare.
Pronto, risponde la cornetta.
Non sai più cosa dire.
Chi è, chiede il telefono aspramente, chi parla.
Io, rispondi stupidamente.