Contenuti per adulti
Questo testo contiene in toto o in parte contenuti per adulti ed è pertanto è riservato a lettori che accettano di leggerli.
Lo staff declina ogni responsabilità nei confronti di coloro che si potrebbero sentire offesi o la cui sensibilità potrebbe essere urtata.
Alice Pt.5
Quando Alice si era materializzata nella sala, a darle il benvenuto c’era “Since I’ve Been Loving You” dei Led Zeppelin.
Nulla di più adatto a celebrare il nostro ritrovarci.
Alice era splendida: trucco leggero, orecchini alla schiava che le conferivano una nota selvaggia, indossava un lungo montone rovesciato nero con ricami indiani, un jeans di panno viola e una lunga sciarpa dello stesso colore che le sfiorava le ginocchia.
Mi ero precipitato a riceverla: aveva un’aria felice in quel verde luminoso dello sguardo; il mio cuore saliva in gola per la felicità.
Dopo il nostro lungo abbraccio di saluto, l’avevo stretta a me passandole un braccio intorno alla vita e ci eravamo avviati verso un séparé della sala.
Nel passare davanti al tavolino di Giulio, avevo fatto le presentazioni: anche lui era rimasto colpito dall’avvenenza di lei, le aveva stretto la mano con calore, forse anche troppo per i miei gusti.
Gli avevo fatto cenno che ci saremmo visti più tardi; lui mi aveva strizzato l’occhio e fatto il segno della “V” con le dita.
Con lui non c’erano mai problemi di riguardo quando c’era di mezzo una donna: sapevamo riconoscere le priorità.
Seduti al tavolino del séparé, avevamo ordinato due consueti Johnnie Walker Black: con la scusa dei long drink, qui servivano beveroni alcolici ai minorenni già di prima mattina.
Sedevamo fianco a fianco sullo stretto divanetto; al sentire il tepore del suo corpo accanto al mio, una corrente di desiderio mi correva dalla testa ai piedi: il cuore aveva stabilito primati olimpici nel tuffo ritardato-carpiato con avvitamento.
Il divanetto su cui eravamo accomodati era stato progettato al risparmio.
Era stato ideato per accogliere il culone di un obeso o, in alternativa, una coppia di acciughe inappetenti.
Di fatto, eravamo costretti a occuparlo come se fossimo incollati col Bostik.
Non mi lamentavo, anzi, benedicevo chi lo aveva creato, permettendoci di stare come due gemelli nella placenta materna.
L’ambiente del locale era saturo di due cose: il profumo dell’essenza di patchouli, ormai usato diffusamente da giovani maschi e femmine, unito all’aroma inconfondibile del fumo di cannabis.
In quel séparé eravamo immersi in una sorta di ambiente amniotico: la luce era soffusa, le lampade di Wood creavano effetti di fluorescenza sui vestiti, sugli occhi e sui denti nel sorridere.
Pareva di essere sospesi in uno spazio celeste: faretti con filtri a disegno stellato proiettavano l’effetto di un cielo notturno, trapuntato di centinaia di stelline luminescenti sulle pareti del locale.
Il fumo e i drink alcolici mi mantenevano in uno stato di rilassato benessere; mi sentivo ricco e pazzescamente fortunato: la ragazza più bella che avessi mai desiderato mi sedeva accanto, col suo corpo voluttuosamente morbido e profumato.
Ero tentato di darmi un pizzicotto sul braccio per accertarmi che non fosse un sogno da cui svegliarmi sconvolto per l’overdose di emozione provata.
– Che bello che tu sia riuscita a venire – le avevo detto, mentre sorseggiavo il mio cocktail. – Sai, ti ho pensato fin da quando, ieri, ci siamo separati.
Le parole mi uscivano goffe e rapide, come se scottassero la lingua.
Non ero bravo nei discorsi sentimentali: infatti, avevo rischiato di strozzarmi con la bevanda gassata andata di traverso.
Lei non aveva risposto, forse provava la mia stessa emozione; si era limitata a sorridere con gli occhi.
Poi, senza dire una parola, aveva preso l’iniziativa: posato il bicchiere sul tavolino, mi aveva affondato le mani tra i capelli e mi aveva avvinto a sé.
Mi ero trovato incollato alle sue labbra come per l’attrazione di una potente calamita che aggancia con forza inarrestabile una monetina di metallo.
Avevamo entrambi labbra carnose: nel congiungersi era un trionfo di turgore e morbido velluto.
Ci baciavamo con foga a occhi chiusi; il suo profumo era soavemente stordente, desideravo stringerla a me fino a fondere i nostri corpi, fino a toglierle il respiro, ma il bicchiere in mano me lo impediva.
Per liberarmene avevo cercato alla cieca il piano del tavolino, ma avevo calcolato male la distanza: lasciandolo, il bicchiere era piombato senza rumore sulla moquette del pavimento.
Il liquido si era sparso ai nostri piedi, seminando una costellazione di cubetti di ghiaccio tutt’intorno.
Non ce ne eravamo curati, avevamo ben altro a cui pensare.
L’avevo avvolta in una stretta bramosa, baciandola con una frenesia delicata e vorace; provavo il desiderio atavico di mangiarla, poiché la sentivo simile a un goloso bignè colmo di crema pasticcera.
Continuavamo con lingue frenetiche e ingorde: in breve avevamo labbra tumefatte da quel lavorio selvaggio di mucose.
I nostri volti erano infiammati di un calore vitale simile a febbre; il desiderio ci faceva ardere, in questo vortice dei sensi il mondo intorno era scomparso.
Stavo vivendo una sensazione esaltante e meravigliosa; da troppo non mi sentivo così vivo, non volavo così in alto.
“Cazzo! Io amo questa donna!” mi ripetevo in un turbine di emozione e ormoni scatenati: il sangue martellava insistente alle tempie.
Nell’urgenza di quella passione, ci torcevamo come bisce in amore sullo scomodo esiguo divanetto.
Baci e carezze crescevano d’incandescenza, mani ansiose si spingevano sotto strati di vestiti in carezze sempre più intime.
Senza timore di smentita potevo affermare che possedesse il più bel paio di tette che mi fossero mai capitate tra le mani.
Ci affondavo viso e labbra, inebriato dal tepore della sua pelle, dal sapore eccitante che possedeva, da quel profumo che prometteva infinite delizie.
A un certo punto, per un attimo, eravamo emersi dal nostro appannamento sensuale, ritrovando il contatto col presente.
Senza dircelo, ci eravamo resi conto che rischiavamo di iniziare a fare sesso, indifferenti alla moltitudine che, al di fuori del séparé, affollava il locale.
Il posto in cui stavamo appartati, in effetti, non assicurava alcuna reale intimità.
– Che ne dici, cerchiamo un posto più tranquillo? Andiamo nei bagni? – avevo proposto esitante.
Lei non aveva risposto, si era abbottonata la camicetta e l’aveva sistemata, tirando su la zip dei jeans e rassettando alla meglio i capelli, quindi mi aveva preso la mano:
– Andiamo – aveva detto soltanto.
I servizi erano posti al fondo del locale, ma già sulla soglia la nostra delusione era cocente: l’idea di rifugiarci lì era stata troppo ottimista.
L’antibagno sembrava una coda di indigenti in fila alla cucina della Caritas.
C’erano, a occhio e croce, una trentina di persone.
Coppie di amiche che andavano consuetamente al bagno insieme, coppie di fidanzati che pensavano di usare il bagno per pomiciare come noi, singoli di entrambi i sessi in attesa di mingere, e una certa quantità di tossici in attesa di fiondarsi in vena o di tirare una pista di coca senza spettatori.
Tra loro c’era anche Ciano, che si era trasferito lì per continuare la discussione con due ceffi di prima.
Da quel che dicevano, mi sembrava di capire che gli avesse dato della roba schifosa e quelli reclamavano indietro i loro soldi.
Non glielo stavano chiedendo gentilmente, minacciavano senza giri di parole di attenderlo fuori e spezzargli le gambe.
Era salutare andarcene prima di veder scorrere il sangue.
Ce n’eravamo tornati al nostro scomodo divanetto con la delusione scritta sul volto.
Ci eravamo calmati, ma ogni bacio rischiava di far nuovamente avvampare la brace, solo coperta, ma non spenta.
Per distrarci avevamo ordinato dei caffè e acceso una canna.
Godendo della musica e del nostro stare insieme, parlavamo del nostro presente, pensando al futuro: era presto per dircelo, ma era nelle cose che pensavamo di averne uno insieme.
La voglia di stare insieme era pressante, dovevamo farlo al più presto: trovare un posto per stare soli e senza i minuti contati.
Non ci bastava quello scarso pomiciare di quella mattina, avevamo bisogno di fare l’amore e farlo in maniera completa.
Restava da capire dove e quando sarebbe stato possibile.
Per il posto non c’era problema: avrei chiesto la soffitta a Giulio; per il quando, l’unica era di “tagliare” insieme da scuola, in una giornata in cui avevamo lezione al mattino e anche al pomeriggio.
Saremmo stati giustificati con i nostri per il restare fuori casa anche al pomeriggio.
Avremmo potuto rintanarci, senza pensieri, in soffitta dalle nove del mattino alle diciotto del pomeriggio, facendo l’amore per nove ore di fila.
Con Alice avevamo deciso che la cosa fosse fattibile dopodomani, perché entrambi avevamo lezioni al mattino e al pomeriggio.
Non si poteva fare il giorno seguente, che pure avrebbe avuto lo stesso orario, perché lei aveva un compito in classe.
Eravamo rimasti d’accordo che a fine pomeriggio dell’indomani ci saremmo incontrati per confermare che la cosa si poteva fare senza problemi e dove ritrovarci.
Il tempo della mattina era volato rapido come un battito di ciglia.
Troppo rapido, come sempre avviene per le cose che ci rendono felici.
A fine mattina la musica era cessata e la gente iniziava a sciamare fuori.
Giulio ci aveva raggiunto per darci la sveglia: il locale stava chiudendo i battenti del matinée e fra un po’ sarebbero arrivati i camerieri a buttarci fuori.
Avevamo rapidamente raccolto i nostri cappotti e ci eravamo portati alla macchina di Giulio.
L’aveva parcheggiata alla bell’e meglio e, sotto il tergicristallo, il foglio giallognolo di una multa per parcheggio vietato ci aveva dato il bentornato.
Tra le bestemmie del mio amico e il traffico convulso di fine mattina, avevamo accompagnato a casa Alice, che stava in una traversa di via Cibrario.
Con lei non riuscivamo a dividerci; separare due sanguisughe in amore sarebbe risultato più facile.
Giulio aveva minacciato di spararci con un idrante per sedare i nostri bollenti spiriti e farci staccare.
(Continua)