Quante volte l'ho sentita raccontare... solitamente avveniva nelle feste, soprattutto quando si era tra parenti. Allora papà, approfittando dello stordimento post pasto dei commensali, chiedeva d'autorità l'attenzione. Oppure faceva che prendersela, alzando la voce più degli altri, per poi censurare severamente chiunque lo interrompesse, e iniziava a ricordare...
E ne hanno potuto godere tutti, compreso i fidanzati e via via i mariti e le mogli, ma anche più tardi i nipoti, che negli hanno arricchito la nostra famiglia.
Si tratta dell'avventura epica, (come in effetti lui ama trasformare tutto ciò di cui è protagonista), di quando, ancora scapolo e poco più che ventenne, affrontò il suo ritorno a casa per le festività. Nel corso degli anni, man mano che mio padre la raccontava, si è arricchita di particolari e aneddoti. In occasione di ogni narrazione il racconto è andato strutturandosi maggiormente, finché arrivò ad assurgere, questa è una mia libera interpretazione, alla qualifica di una vera e propria novella picaresca. Sì è vero, il protagonista non è uno spagnolo ma è comunque un sardo e vi possiamo trovare delle analogie nelle etnie. Non è un navigatore, certo, ma è un emigrante, pur sempre una persona in viaggio vero l'ignoto. Pertanto mi pare che vi si possano davvero riscontrare tutti gli ingredienti per renderla tale. Purtroppo, essendo destinata ad un ambito familiare, non vi troveremo nessun accenno libertino: peccato, ciò avrebbe potuto essere un ulteriore ingrediente per nobilitare ancor più la già gustosa trama.
Col passare degli anni, papà ha iniziato progressivamente a dimenticare buona parte di ciò che aveva aggiunto per infarcire ed arricchire la cronistoria, tanto che ora, quando ha ancora voglia di ricordarla, sono io a fargli sovvenire tutti i particolari, calandomi nelle vesti di un improvvisato suggeritore teatrale che bisbiglia dalla sua buca.
Per non finire di scordare poi tutto pure io, voglio fissare per iscritto quest'avventura, perché ne ero e ne sono ancora affascinato. Diciamo che quella che ho qui cristallizzato è la versione del periodo aureo: il racconto integrale, che a volte poteva richiedere l'attenzione dei commensali per circa un'oretta. Quindi potrete leggere la versione che grosso modo lui raccontava verso il finire degli anni ottanta, circa vent'anni dopo l'accadimento dei fatti.
Immagino che quella mattina di dicembre, quando tutto ebbe inizio, ci fosse un sole del tutto inatteso a Intra. Qui da noi, sul lago, non è raro poter ancora godere di splendide giornate a ridosso delle feste natalizie. In effetti l'inverno, quelle vero e duro, con neve e piogge, solitamente ci raggiunge verso la fine di gennaio, per poi il più delle volte protrarsi sino alla fine di febbraio.
Le nuvole della sera prima si erano dissolte e c'era stata quindi una gelida nottata. Il sole faceva ancora fatica a intrufolarsi tra i tetti del centro storico che è stretto intorno alla basilica di San Vittore ed alla sua via omonima, quella che in leggero declino porta al lago. La caserma dei gloriosi Carabinieri, già reali in quanto gruppo scelto dell'esercito sabaudo, che ha poi inciso su tutta la storia del nascente Regno unitario e poi come tutti sappiamo della Repubblica, ai tempi si trovava proprio nella stretta Ruga. I mezzi allora in dotazione, una Campagnola e una Moto Guzzi, percorrevano proprio la stretta via per raggiungere i luoghi dove erano richiesti.
Mario, quello che diventerà mio padre, deve sbrigarsi perché è già in ritardo, così allunga ancora di più la falcata. C'è Giovanni, immagino potesse chiamare così uno dei suoi amici del tempo, che lo aspetta con la sua Seicento, posteggiata proprio davanti a quel capolavoro Liberty che è l'imbarcadero di Intra. Forse questo Giovanni è uno di quelli che si possono definire buoni amici, magari un ragazzo di ottima famiglia, visto che ha un'auto, cosa non da tutti per quegli anni. Sarà stata una delle prime persone con cui ha legato e che per questo, senza esitazioni, si è offerto di accompagnarlo alla stazione ferroviaria.
Intanto, tra i vicoli della contrada, il paese fatica a svegliarsi: i negozianti ancora assonnati e con lenti movimenti, si affaccendano ad alzare le serrande e a spazzare la soglia, in attesa dei primi clienti; più su, una donna timidamente apre le imposte, facendo prendere aria alle lenzuola ancora tiepide. Mario, è un giovane Carabiniere nel suo primo giorno di ferie. Con le sue nuove, lucide e scricchiolanti scarpe, calpesta velocemente il porfido della via. I suoi passi rimbombano tra le mura che si stringono intorno alla viuzza, svegliando chi ancora non si era deciso ad alzarsi. C'è da darsi da fare, l'Intra di allora è una città industriale ed artigiana, molto operosa e ricca.
Mario non indossa la solita divisa, ma può essere che un ometto all'angolo, uno di quelli consumati dall'alcol e con l'immancabile mozzicone tra le labbra, lo riconosca. Allora lo saluta in quel dialetto per lui ancora incomprensibile, sottolineando il tutto con un ossequioso piegare del capo. In effetti sono quelli che hanno più da temere i più gentili con loro: a chi si guadagna da mangiare contrabbandando sigarette dalla Svizzera su veloci Giulietta, oppure commerciando merci dalla dubbia provenienza, in fondo fa sempre comodo vantare conoscenze tra i Carabinieri.
Intra era ai tempi bellissima. Fortunatamente, almeno nel centro storico, cosi è rimasta. Mio padre non può non amarla ed affezionarvisi. Dal 1939, con Regio Decreto ed in piena era fascista, è diventata una frazione del grande Comune di Verbania, fondendosi con altre varie località, (su tutte Pallanza), che vanno dalla foce del Toce sino al San Giovanni. E' situata nell'alto Piemonte ed è quasi lombarda e un poco svizzera, delimitata dai suoi due fiumi, il San Bernardino e il San Giovanni, (appunto: in tra), con le verdi montagne della Val Grande alle spalle e uno splendido Lago Maggiore di fronte, che la divide dalla ricca provincia di Varese. E' tanto diversa da Tonara, il paesino da dove arriva Mario, che invece è arroccata alle falde del Gennargentu, come una cucciola che non si stacca dalla tetta della mamma, una madre però, sempre più magra e indolente.
Tutto qui a Intra, a Mario appare nuovo, ricco e bello. Sembrano tutti benestanti e felici. C'è soprattutto la Montefibre che dispensa ricchezza a chiunque, città nella città è parte della vita di tutti. Così il padre lascia il posto al figlio: sono sempre di più contadini e gli allevatori che abbandonano le ingrate montagne per infoltire le fila di quell'esercito in tuta blu, in vero formato anche dai molti immigrati che dal sud si stanno stabilendo in tutto il nord. Il suo stipendio da Carabiniere Semplice neanche avvicina quello dei tanti operai intresi che nei giorni di festa scorrazzano spensierati sulle Vespa con le ragazze all'amazzone sul sellino posteriore. Lui è contento lo stesso, è più di quanto si aspettasse. Lasciato il suo paesino nel centro della Sardegna è ormai riuscito a dimenticare i buchi nei pantaloni e i morsi della fame. E' stato facile, come per molti altri, fuggire indossando il cappello con la fiamma, per diventare il braccio di uno stato che lui stesso non riconosceva.
Siamo nel glorioso 1961, il centenario dell'Unità d'Italia. Una volta arruolato, dopo aver raggiunto Roma era stato trasferito a Torino. Per via delle celebrazioni, una città ancora radiosa e grande, riaccoglieva proprio quell'anno nuovamente la capitale. Proprio lì si era spalancato davanti ai suoi occhi un mondo che neanche immaginava, che lo accolse a braccia aperte e lui ci si tuffò senza timori, con tanti bisogni e desideri da saziare.
Ma non sempre erano bei momenti. Davanti alla Fiat lanciavano loro le monetine, li chiamavano servi dello stato. Bandiere rosse di gente ostile, sassate e sputi, ma i veri proletari, come ebbe a dire Pasolini, erano loro. Erano loro, giovani Carabinieri, in maggioranza meridionali, quelli che in realtà avevano fame, che non avevano nulla se non la loro divisa e lo spirito di corpo; non erano che degli stranieri lassù a Torino... ma poi arrivava l'ordine, a quel punto si caricava, a testa bassa e senza più alcun indugio. Qualche mese più tardi la destinazione: dal Battaglione alla Territoriale, da Torino a Intra. E a Intra aveva incontrato una vita più semplice e gente affettuosa. Sì è vero non si respirava l'aria della grande città, ma Verbania era comunque più mondana di Tonara.
Se un poco ci si assomigliamo, posso immaginare quale attrazione avranno potuto avere su di lui le giovani donne del nord, così emancipate. Qui le ragazze già lavoravano, per questo a lui poterono apparire molto indipendenti, forse disponibili e molto sensuali al confronto con quelle della sua isola. Ed avevano gonne così corte alle quali immagino lui non fosse per niente avvezzo, se considero che in quegli anni in Sardegna ancora moltissime donne vestivano i lunghi costumi del loro paese. E allora può essere anche, che loro gli sorridessero, senza inibizioni, attratte forse dalla divisa, che pare alle donne faccia sempre un certo effetto. La sua gioventù di brillantina poi, e un portafogli, non rigonfio, ma finalmente mai vuoto, poterono sicuramente molto altro.
Ora il suo Lorenz placcato oro, di cui va molto fiero, comprato a Locarno con il primo stipendio, lo conferma: è veramente tardi! Ma finalmente sbuca dai vicoli, per emergere sul lungolago. Il sole che si specchia sul lago lo acceca: è una bellissima giornata per tornare a casa!
Giovanni lo attende da un po', seduto nella sua Seicento. Inganna il tempo e dondola la gamba dalla porta controvento, aperta solo un poco. Un occhio distratto è per la pagina sportiva della Gazzetta del Popolo, l'altro, più interessato, è invece per le mattiniere ragazze che già passeggiano sul lungolago. Probabilmente si salutarono così:
Mario, ti te voeuri propri ciapà mia el trèn incoeui? Il Maresciallo ci ha ripensato e ti ha stracciato le ferie?
Non dirlo neanche per scherzo Giovanni, è un anno che non torno a casa!
Beh, che ti manca qui, non mi dirai che le sarde sono meglio delle nostre: ma dai, che se da te solo la guardi una donna, i suoi genitori ti obbligano a sposarla!
Ma Mario non lo ascolta già più, è impegnato a cercare il biglietto del treno e a verificare che non si sia scordato di nulla. E poi quanti ne ha già sentiti di questi discorsi stereotipati, fatti da gente che purtroppo non ha mai avuto la possibilità di poter girare l'Italia. E poi qualcuno lo chiama pure sardegnolo, derivando il termine dal dialetto, lui spera ignorando che sardegnolo è solo l'asino autoctono dell'isola.
La piccola Seicento, che allora non pareva così minuta, con il rumore tipico del motore posteriore a sbalzo raffreddato ad aria, si fa largo tra la piccola folla, che nel frattempo è sbarcata dal traghetto per il giorno di mercato. Percorrono la statale polverosa, ancora non asfaltata, per raggiungere la stazione di Fondotoce, la Verbania Pallanza, per la precisione.
Saluta Giovanni con riconoscenza e sale sul treno affollato di emigrati che per le feste natalizie ritornano al loro paese. Tornano dalla Svizzera, dalla Germania, o chissà da dove. C'è gente ovunque, gli scompartimenti sono gremiti di gente e bagagli, di ogni tipo e foggia. Voci e parlate diverse, odori indefinibili, profumi di cibi vari e afrori i più variegati, lo aggrediscono. Mario si deve sistemare per terra, accomodandosi come meglio può: in quelle condizioni, il viaggio sarà veramente lungo sino a Genova.
Sicuramente si sarà seduto sulla valigia marrone, quella che l'Arma dava in dotazione. Avrà ripensato a quel fantastico millenovecentosessantuno che stava per finire, un anno che lui ricorderà (e ci ricorderà) per tutta la sua vita: Torino '61; la rivista e le ragazze di Macario; Gagarin nello spazio; Spartacus al cinema con tanti altri Kolossal girati a Cinecittà; le goliardate con i commilitoni; ecc. ecc. ... A volte, dai suoi racconti, sembra che per lui ci sia stato solo il 1961. E chissà se al momento avrà potuto afferrare la gravità di quei blocchi che stavano posando davanti alla Porta di Brandeburgo, per costruire quello che poi diventerà il Muro, o dei battibecchi per quei minacciosi missili che si vorrebbero piazzare nei Caraibi, che contrappongono gli americani ai russi nella Guerra Fredda, quelli che lui ha sempre identificato rispettivamente nei bravi e nei cattivi?
In effetti mi sono sempre chiesto, se si è davvero in grado di afferrarla la Storia quando ti passa vicino. Insomma l'uomo medio, noi, con le poche informazioni filtrate dai vari poteri che arriviamo a ricevere, possiamo davvero arrivare a capire effettivamente cosa sta succedendo nel momento specifico, o sono poi le analisi che vengono fatte a priori, a bocce ferme, con la verità che è poi in fondo quella di chi ha vinto o che comanda in quel momento, a farci capire cosa realmente è accaduto?
Io sono arrivato alla conclusione che no, non è possibile. E poi mio padre, per esempio, a ventidue anni avrà pensato a tutt'altro che a concentrarsi sugli equilibri mondiali. Quella di quegli anni era un'Italia nel pieno del boom economico. Mai una generazione come la loro aveva avuto la possibilità di poter cambiare così velocemente e radicalmente la propria vita. Bastava darsi da fare, cercare un lavoro fra i tanti disponibili, e poi con l'aiuto di qualche cambiale si potevano realizzare tutti i propri sogni. Sicuramente avrà anche pensato a sposarsi, ancora non aveva conosciuto mia madre di Zoverallo, (paesino nei pressi di Intra). Magari avrà pensato di poter trovare una moglie sarda, forse proprio del suo paese. Non me lo ha mai detto e non abbiamo mai affrontato l'argomento, però forse ai tempi la sua vita se l'era prospettata in modo diverso. Forse programmava di mettere da parte un po' di soldi per poi tornare in Sardegna... Invece si sposerà e verrà trasferito ad Aosta e poi solo dopo molti anni tornerà sul lago, e non parlerà mai di tornare al suo paese che nel frattempo ora è agonizzante, vittima di un'emorragia di persone e di idee che probabilmente tra qualche hanno lo renderanno una località fantasma.
Intanto il Piemonte scorre veloce fuori dai finestrini, campagne e paesini si alternano senza sosta, poi la lunga sequenza di gallerie che bucano le Alpi lo lasciano al buio, l'illuminazione sicuramente non sarà funzionata come si deve. Finalmente all'orizzonte, dopo molte ore di viaggio, gli si palesa la linea blu continua del mare.
Scende a Porta Principe. Genova, che nei secoli si è arrampicata sui ripidi rilievi non trovando altro spazio, lo guarda dall'alto. Si dirige allora verso il mare, sicuramente attraversando le vie alla moda e le piazze grandiose della città, dove tutto avrà annunciato sfarzosamente l'imminente prossimo Natale. Gli italiani stavano sperimentando uno dei primi natali dell'era consumistica, quell'oppio che li avrebbe poi lentamente avvelenati sino a renderli soltanto dei consumatori. Non più che delle entità, solo dei meri numeri sulle statistiche, da convincere, per obbligarli a continuare a spendere, individuando per loro sempre nuovi bisogni, sino a renderli quello che ora noi siamo diventati.
Scende i gradini della Stazione Marittima, come abbiamo fatto poi noi con lui tante altre volte. Il porto si para davanti a lui con l'inconfondibile odore di salsedine, ma anche di oli, grassi e sporcizie varie. E' ancora un porto commerciale, in pieno funzionamento, e non quella meraviglia del Porto Antico che si è poi recuperato per le Colombiadi. Lassù c'è la Lanterna, il simbolo di Genova, che da secoli rincuora i naviganti e i genovesi. Davanti a lui solo l'enorme distesa di acqua, viva e pulsante, che certamente gli avrà fatto un altro effetto, rispetto al nostro piccolo lago.
Ora tutto è grigio, il cielo si fonde con il mare: il tempo è peggiorato. Un vento gelido, contro cui i gabbiani lottano per non essere trascinati via, gli fa battere i denti. Il mare è gonfio di rabbia e gli incute un certo timore, ma non avrà potuto non ammirare quanto fosse infinitamente bello. Respira a pieni polmoni. L'acqua è un richiamo irresistibile per un sardo, sono le sue radici, quelle di chi nasce in quell'isola sperduta nel Mediterraneo, che come una palafitta è ancorata solo al fondo del mare, isolata dall'Italia e dall'Europa tutta. Ma pure dall'Africa, ed è per questo che è così unica e inconfondibile, come i sardi del resto. E se poi, come pare, siamo noi la vera Atlantide di Erodoto e Platone; e pure la tredicesima tribù di Israele, quella perduta di Dan; e se i sardi sono in realtà quel misterioso popolo dei Shardana; ma anche uno dei primi nuclei italici; e tanto altro che la dottrina greco-latina ha voluto invece cancellare e riscrivere a suo piacimento...
All'imbarco per Porto Torres avrà ritrovato molti vecchi amici dei tempi del Battaglione, d'altronde, salvo quei pochi sfortunati che erano obbligati a presidiare le caserme per le festività, tutti gli altri volevano assolutamente tornare a casa per Natale. Immagino ci possa essere stato qualcuno che potesse chiamarsi Soddu, e anche Atzori, magari tutti e due piccoletti. In effetti, al di là dei luoghi comuni, ai tempi c'erano veramente molti sardi di bassa statura, a volte scuri come il carbone, proprio come ho immaginato siano loro due, nativi di Ovodda. Poi ci sarà stato un Dejana di Sorgono. E per completare infine, ecco lì dietro, un po' defilato, Arcangelo Saba di Orotelli. Lui è quello che non vuole assolutamente essere chiamato per cognome, cosa che invece i colleghi continuano a fare innervosendolo. E davvero Arcangelo non è cambiato, è rimasto quello dei tempi di Torino, agitato e impulsivo.
Fanno subito gruppo come una volta, anche perché sono tutti della provincia di Nùoro: barbaricini della Bargagia più ostica, testardi e resilienti, ma gente di parola che tiene all'amicizia. Sono tutti in tiro, a modo loro, con vestiti dall'eleganza chiassosa, che li fanno rassomigliare a giovani gangster della Chicago anni trenta. Vogliono, anzi devono, fare la migliore impressione al loro ritorno in paese!
Nell'immaginario degli amici e parenti rimasti in Sardegna loro sono come i ricchi emigrati di ritorno da New York, quelli che una volta in paese strombazzano per le viuzze gettando dollari dalle Cadillac. E loro non vogliono assolutamente deluderli, devono rispettare le loro attese e suscitare la loro ammirazione. Tutti devono sapere che loro si sono sistemati, che in continente si sono fatti una posizione.
E' la notte del 23 dicembre quando la nave salpa, lasciando le ultime luci di Genova per il buio di un mare senza luna né stelle; ma domani, quando si sveglieranno, saranno già nell'amata Sardegna.
Finché navigano nelle acque ancora riparate del grande golfo, un mare pacato pare cullare la nave, solo a tratti qualche onda la strattona più violentemente. Purtroppo, non appena si trovano al largo, tutto inizia a dondolare, ed un mare ora inferocito prende tra le sue braccia l'imbarcazione, iniziando a sballottarla come se volesse schiantarla. Le enormi onde raggiungono il ponte esterno, la pioggia batte violentemente contro gli oblò, dai quali si possono vedere solo quegli spaventosi lampi che squarciano le tenebre, sennò impenetrabili. Le bottiglie vuote, abbandonate sul pavimento, rotolano da una parte all'altra del ponte. Le porte sbattono. Tutto ciò che non è fissato si muove scompostamente, animato dal moto del mare.
E pure intorno a Mario tutto gira. Lui non può che cercare di rimanere tranquillo, in modo da offrire un punto fisso al suo povero stomaco, martoriato dal saliscendi continuo. Ma perde il controllo e finisce così per smarrire ogni certezza. Sempre più ha la sensazione di essere sulle montagne russe. Cerca di concentrarsi, mentalmente segue il percorso delle onde, per assecondare il movimento. Si sale fino all'apice per poi ricadere, poi di nuovo da capo, senza sosta: ma non c'è fine!
Si è seduto al bar del ponte interno insieme ai suoi compagni di viaggio. Ostentano tutti indifferenza, nonostante siano molto preoccupati: hanno davanti almeno dieci ore di navigazione e se saranno tutte così, non c'è da stare molto allegri...
A volte si riprendono e cercano di distrarsi. Riemergono vecchi aneddoti del Battaglione ma su tutti i ricordi della comune terra hanno la meglio, così la malinconia mai sopita delle case lontane li ghermisce in un abbraccio di tristezza e malinconia. Ma sì dai, devono farsi forza, si rincuorano a vicenda, manca davvero poco. Domani potranno abbracciare tutti i loro cari e calpestare di nuovo il suolo natio.
Inevitabilmente, nonostante i loro tentativi e la loro strenue resistenza, il malessere comune aumenta. Tra loro cala il silenzio, ed ognuno rimane solo con se stesso a combattere la propria personale battaglia contro il mare in tempesta e la sensazione di nausea montante.
Mario si sente lo stomaco in gola, è una vera tortura: ormai è così debole e impotente... La fronte gli si imperla di uno strano sudore freddo e la nausea continua a salire come se fosse del latte in ebollizione.
Ora avverte di essere allo stremo, non riesce più a controllarsi, si sente lo spuntino del pomeriggio ancora in gola. Tenta allora precipitosamente di guadagnare i bagni più vicini. Lungo i corridoi c'è gente appoggiata alle pareti che si sostiene come può, e tutti inevitabilmente iniziano a sboccare. Ovunque è sudicio ed imbrattato. I passeggeri, in balia del mare furioso, ora vomitano a più riprese e nessuno ha più la forza di osservare un comportamento dignitoso. Raggiunge finalmente i bagni, ma qui è ancora peggio, lo spettacolo è raccapricciante. Lo assale un odore acre ed è allora che arriva il primo dei tanti e successivi conati di vomito che lo scuotono tutto: vi si arrende senza combattere, ormai è esausto, come tutti del resto.
Si ripulisce come può, esce dal bagno schifato e inizia a vagare per la nave come un fantasma, mischiandosi alle ombre degli altri esseri che vagano confusi. Nonostante le condizioni del mare, pensa che gli farebbe bene uscire sul ponte esterno per prendere una boccata d'aria, ma scopre con disappunto che le uscite sono state bloccate. Hanno sbarrato le porte e sigillato tutte le aperture: il mare è diventato troppo pericoloso! Ritorna allora tra i suoi colleghi, dove stramazza a terra ormai davvero senza forze.
Trascorrono le ore senza che la situazione migliori. Il suo stomaco non riesce assolutamente a stabilizzarsi e quel continuo malessere lo tortura. Fatica ormai anche solo a pensare. E' oramai privo di ogni iniziativa e volontà. Totalmente sconfitto è in mano agli eventi.
Forse delira, ogni tanto si addormenta o forse sviene. Gli pare, o forse accade davvero, che ogni tanto manchi pure la luce e che tutto diventi improvvisamente buio...
Ma per fortuna che il tempo comunque scorre e che la nave continua a viaggiare, macinando miglia su miglia...
Sono ormai le sei e un quarto quando qualche passeggero ben informato sparge la voce che stanno per doppiare la Corsica. Mario si ridesta, la notizia gli procura un certo sconcerto: lo attendono le tristemente famose Bocche di Bonifacio. E' il canale che divide la punta della Corsica da quella della Sardegna, perennemente percorso da venti violenti e forti correnti marine. Anche se il mare è liscio come l'olio, se lo ricorda bene, quando lo si attraversa si balla comunque, figuriamoci in quelle condizioni.
Infatti, come aveva temuto, la nave inizia ad oscillare in modo pauroso, sembra che si spezzi sotto la spinta delle onde. Il Primo Ufficiale, giustamente preoccupato ed ignorando le proteste dei passeggeri, comunica che in quelle condizioni preferisce fermarsi. Così rimangono in mezzo al mare, abbandonati alla mercé della violenza delle acque, immobili proprio in vista della meta ormai prossima, ma impossibilitati a raggiungerla.
La nave si posiziona in modo da offrire meno resistenza possibile alle onde, forse getta l'ancora e ferma le macchine. La gente inizia ad essere preda dal nervosismo, qualcuno viene colto da attacchi di panico e la nausea comunque continua a non risparmiarli, torturandoli come una sadica aguzzina.
Arriva anche mezzogiorno e chiaramente nessuno pensa al pranzo. La situazione non si sblocca né accenna a migliorare. Mario si sarà sentito come un naufrago, proprio come uno dei personaggi di quei libri di Stevenson, che ancora ci sono nella nostra biblioteca, che lui aveva iniziato ad apprezzare nelle ore di ozio in caserma.
Non si sa più nulla, non arrivano più informazioni e la nave non accenna a rimettere in moto le macchine per ripartire.
Finalmente, quando ormai sono le quattordici del 24 dicembre 1961, il mare allenta la presa e la nave a fatica riprende la navigazione. Non riescono a gioire perché non ne hanno più le forze. Si guardano intorno, tutto ormai è ridotto a uno schifo. Nessuno si è più curato di pulire e l'equipaggio si è volatilizzato, sicuramente anche loro non sono stati in grado di sopportare la situazione, si dice che al mal di mare non ci si faccia mai l'abitudine.
Verso le quindici arrivano a Porto Torres. Distrutti trovano la forza di trascinarsi sino alla passerella appoggiata alla murata e finalmente sbarcano sulla terra ferma.
Non piove più, ma il cielo è sempre coperto. Mario è felice, gli pare di sentire il caratteristico odore del mirto delle sue montagne arrivare sino a lì. La gente intorno a lui ora parla la Limba, le donne più anziane indossano il costume tradizionale e gli uomini sono vestiti di fustagno. Riconosce i loro modi riservati ed il vezzo di calarsi la berritta sugli occhi. E' a casa, non deve più sforzarsi di tradurre i suoi pensieri in italiano, non vede che la sua gente. Camminando finalmente su di una superficie che non ondeggia, si sente però come un cosmonauta sbarcato da un razzo interplanetario. Stenta ad abituarsi alla stabilità del suolo, dopo tutte quelle ore di navigazione. Vorrebbe correre per la felicità, ma è come se, appunto, una pesante tuta spaziale gli impedisca i movimenti. E' debilitato, sono ormai parecchie ore che non inghiotte nulla, non ha fatto altro che vomitare e il mal di mare non l'ha ancora abbandonato.
Raggiunge infine i suoi colleghi. Dejana è di ritorno dalla stazione ferroviaria e non ci sono buone notizie. Fino a domani non partirà più nessun treno. Si guardano intorno scoraggiati. Scorgono allora una vecchia Millecento. All'interno un ometto seduto al posto di guida che ha tutta l'aria di essere un tassista abusivo. Incrociano lo sguardo del tipetto che capisce al volo le loro intenzioni, scende dall'auto e corre loro incontro.
E' un uomo buffo, vestito in modo sciatto con i pantaloni strappati e la capigliatura confusa, però pare avere uno sguardo buono. Trattano il prezzo, cinquemila lire per uno: totale venticinquemila per tornare a casa, pare un'ottima soluzione. L'uomo si fida, non chiede neanche i soldi in anticipo e l'accordo è fatto. Stipati nella malandata e cigolante vettura, si avviano a risalire le alture della Barbagia, dove li aspetta la loro casa.
Il tassista pare simpatico, chiede di loro, da dove arrivano, che lavoro fanno. Si informa sui loro nomi e a sua volta si presenta. Penso che si sia qualificato con un nome che suonasse tipo Ignazio, ecco sì probabilmente Ignazio Orrù potrebbe essere il nome giusto per quel tassista. Insiste però per farsi chiamare solo Ignà, pretendendo che gli diano del tu.
Come fanno tutti gli amici! Dice loro con fare cameratesco.
Poi la sua loquacità non ha più fine. Continua a incalzarli, prima vuole sapere come sono le continentali, se è poi vero, come si dice, che le donne al nord siano tutte così facili da conquistare per loro sardi; in seguito prende a narrare loro di quelle che a lui paiono delle simpatiche avventure che gli sono accadute, non tralasciando di raccontare delle sue conquiste amorose. A sentire lui le donne non sanno resistere al suo fascino.
Di risposta loro lo guardano e vedendolo così mal combinato, non riescono a credere ad una parola di quello che racconta. Con questo tenore, il tassista continua a chiacchierare continuamente, osservando una condotta di guida molto distratta e non curandosi quasi dalla strada. A volte si gira addirittura verso i sedili posteriori per vedere se i passeggeri lo ascoltano ancora con attenzione o per sottolineare con qualche gesto particolare le fasi più salienti dei discorsi. Il più delle volte poi è costretto a girarsi repentinamente per correggere la traiettoria dell'auto, di cui nel frattempo perde inevitabilmente il controllo.
Arcangelo Saba si è sistemato davanti con Mario, gli altri tre sono dietro. Saba è stanco e nervoso, sembra che non ascolti, se nonché, di tanto in tanto, smonta con battute velenose i castelli in aria che l'autista faticosamente costruisce con le sue narrazioni. Le strade sono quasi deserte, è freddo. Qui la gente è ancora molto povera. Nonostante sia quasi Natale, in giro non c'è molta voglia di festeggiare. La guerra ha lasciato la Sardegna ancora più povera di quello che era, e ora stenta a risollevarsi.
Io penso che mio padre, sia per ingannare la noia del viaggio, che per provare quel sottile piacere masochistico, che procura la nostalgia quando vi si abbandona senza riserve, rivanghi il passato.
Forse ricorda di suo padre, mio nonno, magari prima del conflitto. Lui che per timore di quello che sarebbe accaduto o forse perché mal consigliato, vendette tutti i suoi averi e alla fine delle ostilità si ritrovò con un mucchio di carta straccia tra le mani, l'inflazione si era mangiata tutto. Al contrario i grandi possidenti, dalle notevoli disponibilità, si comprarono tutto ciò che era disponibile, diventando se possibile ancora più ricchi e potenti... ma è la storia di sempre, dei ricchi contro i poveri e di tutti i sud del mondo.
Può essere che gli sovvengano i ricordi della miseria, che costringeva la povera gente ai furti di bestiame, l'abigeato era il reato più comune. Allora i Barracelli, come nei film western, partivano per cercare nel Supramonte i malfattori, che di solito arrivavano dai paesi confinanti. Una volta trovati, il più delle volte si applicava una giustizia sommaria.
E sicuramente, perché ce ne parla sempre, ripensa con dolcezza all'asino di casa, al quale era molto affezionato, che li aiutava a portare il peso della legna dalla campagna al paese. L'avevano chiamato Mussolini; e poi avevano un cane, mordace ma fedele, che si chiamava Moro: tutti nomi di politici, che non sono morti nel loro letto.
E poi sua mamma, analfabeta, che si era messa a vendere frutta e verdura, ma i conti certo non li sbagliava. Margianedda, quando io ero piccolino ed il negozio ancora in piena funzione, mi faceva attaccare gli adesivi blu “Chiquita” anche sulle banane che in realtà non lo erano.
E ancora suo padre, Francesco come me, che dovette poi darsi a lavori occasionali. A volte si doveva spostare a piedi sino ad Oristano o Casteddu. Quando diventò più grandicello si portava dietro anche Mario, che era il maggiore dei figli. Dormivano dove potevano, in campagna sotto la luna o in baracche che i pastori lasciavano dietro di sé spostandosi con le greggi. Con terrore avrà ricordato di quella notte che si sistemarono in quella casupola, su di uno spesso letto di fieno e foglie. Dormirono tranquilli nel soffice, però il giorno dopo i Carabinieri con i loro severi baffoni, arrestarono suo padre: sotto il fieno c'era un cadavere, lo ritenevano responsabile. Fortunatamente trovarono il colpevole e dopo alcuni giorni rilasciarono suo padre che era buono come il pane: la giustizia ai tempi era abbastanza sbrigativa, specialmente con le persone comuni. E i suoi due fratelli, Cheli e Boste che sarebbero diventati Carabinieri come lui. Infine il più piccolo, Cosomo, che invece avrebbe studiato. Con l'eskimo e la barba da rivoluzionario sarebbe entrato in quella cattedrale nel deserto, sorta nella depressione di Ottana, per diventarne uno dei devoti sacrestani: un'altra dolorosa ferita di una Sardegna offesa e per di più presa per i fondelli...
Curve e controcurve, si sta peggio che nel mare la notte scorsa, pensa Mario. La strada sembra tracciata seguendo una mulattiera, forse assecondando i confini dei piccoli appezzamenti di terreno: per non fare un torto a nessuno si sono così scontentati tutti. E' ormai pomeriggio inoltrato, sono già le cinque e inizia a scendere la notte. A volte raggiungono sparuti paesini, dalle misere case, con piccole finestre dalle lucine fioche. Paiono paesaggi da presepio. In un attimo li attraversano, tanto sono piccini, per poi lasciarseli velocemente alle spalle e ripiombare nelle campagne dalle strade bianche e prive di ogni illuminazione.
A Orotelli un Arcangelo finalmente contento, scende e paga la sua parte. Con le solite promesse di rincontrasi, lascia gli altri compagni di viaggio, che iniziano, adesso seriamente, ad inerpicarsi sulla lunga teoria di tornanti che scalano il Gennargentu. Mario rimane davanti da solo, dietro gli altri chiacchierano o a tratti sonnecchiano. Appena sceso Arcangelo, subito dopo Orotelli appunto, la macchina ha dato qualche strappo. Il tassista li ha avvertiti con una smorfia preoccupata, ma tutto sembra che proceda in modo tranquillo e Mario non si preoccupa più di tanto, d'altronde è normale che quel Taxi abbia i suoi acciacchi.
Del resto è una vecchia Millecento, di un colore ormai indefinibile, forse verde e nera, ma sicuramente non è mai stata lavata. E' una di quelle che hanno poi soprannominato Musone, che assomigliano ancora tantissimo alle auto d'epoca come la Fiat Balilla. Sulla carrozzeria ha sfregi e rappezzi ovunque, ma il suo dovere lo fa. Romba sulle strade sterrate, sollevando nuvole di polvere chiara che risaltano nel buio della notte, lasciandosi dietro un fumo nero micidiale. Solitaria, procede con una certa autorità nelle strade desolate. A volte Ignazio non riesce a evitare le buche improvvise, allora pare che la povera auto si spezzi in due. Ma con loro sorpresa, ogni volta la macchina ostinata continua. Sofferente, bofonchiando dal tubo di scappamento, torna a disegnare le curve, per poi prendere velocità nei rari rettilinei.
Invece, purtroppo, nei pressi di Orani, dopo uno strappo più lungo dei precedenti la macchina si ammutolisce.
Ignazio suda freddo, prova a insistere sollecitando ripetutamente il motorino d'avviamento, ma niente da fare. Scende, molla un calcio alla ruota anteriore, poi apre il cofano. Si tuffa come un palombaro nel vano motore. Sparisce alla loro vista per ricomparire dopo alcuni secondi con il viso imbrattato di grasso.
Nudda! Riferisce sconsolato, in risposta alle espressioni interrogatorie dei passeggeri. Non ne vuol sapere di ripartire.
Lo dice però con un'espressione strana, quasi imbarazzata, che loro non prendono in considerazione o al momento non ritengono significativa, d'altronde hanno una scarsa conoscenza di motori e si fidano della sua diagnosi.
Allora Ignà e adesso che si fa? Lo apostrofa Soddu.
Si guardano in giro, tutto è buio, nessuna luce. Sono ormai le otto di sera, per fortuna il cielo si è aperto e una bella luna quasi piena, fregandosene delle loro sventure, rischiara la via. Il tassista farfuglia qualcosa, parla di un amico meccanico da qualche parte più su che potrebbe aiutarli, decidono allora di spingere l'auto fino dal meccanico. Ignazio, essendo il tassista, si mette alla guida. Mario, Dejana e i due di Ovodda dietro a spingere. C'è una leggera discesa. Decidono di approfittarne per far prendere velocità alla macchina, cercando poi di riavviarla.
Tutti sudati la lanciano, per poi stramazzare a terra esausti. A bocca aperta osservano i ripetuti tentativi di riavvio. Inutile, non parte. Ignazio rilascia più volte la frizione, ma pare che il motore non reagisca. Pian piano, esaurita la spinta, la macchina si ferma poco più avanti. Allora si mettono il cuore in pace, tornano a spingere rassegnati e scoraggiati e non tentano più di far ripartire l'auto.
Man mano che il tempo passa, la meta anziché avvicinarsi pare allontanarsi sempre di più. Le ore passano, la macchina procede di pochi metri alla volta. Quando le salite faticosamente si alternano alle discese, allora prendono fiato.
Infine la stanchezza si fa sentire. La ciurma di forzati che prima spingeva silenziosa, accomunata dal comune intento di arrivare in fretta a casa, provata dalla fatica e del freddo, inizia a diventare rumorosa e nervosa. Procedono sempre più lentamente e nelle salite più ripide è già un successo se l'auto non torna indietro per schiacciarli.
Dove hai detto che si trova il meccanico? Grida Soddu da dietro, abbastanza agitato e spossato dallo sforzo.
Mah, mi sembra a Ovodda, beh sai non è che mi capita spesso di avere dei clienti da portare fin quassù... Dovrebbe comunque essere tra poco... Borbotta Ignazio, sporgendosi dal finestrino della Millecento.
Non è che mi convince molto questo tassista! Commenta a bassa voce Dejana con gli altri.
Intorno il paesaggio è iniziato a cambiare. Salendo, nel buio si intravede una vegetazione più fitta e nel fondo della campagna si avvertono i versi e i fruscii dei molti animali selvatici, intenti nella loro caccia notturna o da braccati, nella fuga che potrebbe loro salvare la vita. Mario guarda il suo orologio: è ormai mezzanotte. Si volta verso gli altri e con fare festaiolo augura loro il Buon Natale. Si erano immaginati di passarlo con le loro famiglie al caldo questo momento, invece sono sperduti nella campagna più buia, senza avere la minima idea di quando potranno raggiungere il loro paese.
Arrivano a Gavoi, ma qui tutti dormono e non c'è speranza di farsi aiutare da nessuno. Si lanciano allora nella discesa che va verso il fondo della valle: il Taxi prende velocità e loro dietro di corsa. Intorno è tutto un cantiere, tra qualche giorno la valle sarà sommersa dall'acqua dei fiumi che ora la innaffiano a intermittenza: la diga in cemento armato creerà il lago di Gusana. Quel giorno, promettono, ci sarà acqua ed energia elettrica per tutti, il progresso finalmente avanza e arriverà fin lassù. In effetti quel lago cambierà molte cose, un po' di ricchezza, una manciata di turisti e l'acqua in casa; ma il clima non sarà più lo stesso e non ci saranno più quelle abbondanti nevicate di quando Mario era bambino...
Sono arrivati oramai in fondo alla valle, quando Atzori, tipo silenzioso ma riflessivo, al contrario del suo paesano Soddu, insinua il sospetto tra chi spinge.
Hei pizzoccos, stavo pensando... Poi si interrompe, grattandosi la testa e dando l'idea di elaborare chissà che teoria. Poi continua.
Ignazio non si è mai fermato per rifornire, non ci ha neanche chiesto i soldi per farlo! Non vi pare strano che un vagabondo come lui avesse il pieno nel serbatoio? Di sicuro non poteva immaginare a Porto Torres che avrebbe dovuto fare così tanti chilometri per portare della gente fin quassù...
Soddu non ci vede più. Impulsivamente tira fuori di tasca il suo fazzoletto. Lo lega in cima ad un lungo bastoncino che raccatta per terra e lo infila nel serbatoio dell'auto. Lo spinge fino in fondo, lo rigira più volte per poi estrarlo: è completamente asciutto. Quindi lo mostra ai compagni increduli. Nel frattempo, Ignazio scende dall'auto, insospettito dal fatto che i suoi clienti non stanno più spingendo.
Bastardo, delinquente che non sei altro! Lo aggredisce Soddu. E poi continua, passando alla sua lingua. Malefazzente, abbilastru, bandhidu...
Poi, esauriti gli improperi, gli si avventa contro. Ora rotolano insieme nella cunetta a fianco della strada. Il povero Ignazio ha la peggio e si ritrova sotto il piccoletto di Ovodda che gli riempie la faccia di pugni, tutti incredibilmente a segno e devastanti per il suo naso e gli zigomi. Subito intervengono Dejana e Atzori, ma invece che separarli danno man forte a Soddu. In pochi secondi il povero tassista viene raggiunto da una quantità incredibile di colpi. Soccombe senza difese: è ormai una maschera di sangue. Cerca di proteggersi come può, ma senza fortuna. La quantità dei fendenti dei tre aggressori inferociti è impressionante. Mario è costretto ad intervenire, rischiando di prendersi qualche cazzotto pure lui, ma in qualche modo, riesce a portare in salvo il disgraziato tassista.
Ma siete impazziti, lo volete uccidere, vi siete dimenticati che siamo dei Carabinieri? Grida Mario dopo essere riuscito a rimettere in piedi il tassista e facendogli da scudo con il proprio corpo.
I tre abbassano la testa pentiti, realizzando cosa hanno fatto. Passa ancora qualche minuto di silenzio, e la rabbia dei tre fortunatamente sbolle. Ignazio nel frattempo è irriconoscibile, perde copiosamente sangue dal naso e la ferita dell'arco sopraciliare devastato è paurosa: sembra reduce da dieci round di fuoco con Primo Carnera. Sono bastati invece solo pochi attimi ai tre viaggiatori, esasperati da ore di fatica nello spingere quell'auto, che lui stesso aveva fatto credere fosse in panne, quando invece era solo a secco. Povera e leale Millecento, lei sì che aveva fatto il suo dovere!
Ma Ignà ses propri maccu, ti sarebbe bastato dire la verità, ci avresti risparmiato tutte queste ore a spingere. Qualcuno sarebbe andato a prendere la benzina e ora saremmo già a tutti casa a raccontare l'imprevisto alle nostre mamme. Gli sussurra Mario in modo da non farsi sentire dagli altri e non rinfocolare così gli animi, visto che si sono appena calmati.
Ejà, già lo so.. Che ci vuoi fare, sono fatto così, me ne darei ancora altri cento io di cazzotti sulla testa. Ma non ci posso fare nulla, è più forte di me, dimentico tutto! Risponde Ignazio cercando di tamponarsi le ferite con un fazzoletto che gli ha dato Mario, perché naturalmente si è dimenticato anche di quello.
Cercando di trovare una soluzione per sbloccare la situazione Mario fa un passo verso i rivoltosi, lasciandosi alle spalle il tassista che nel frattempo cerca protezione dietro l'auto.
Se ricordo bene dovrebbe esserci un distributore di benzina a Ovodda. Ignazio potrebbe prendere la tanica che c'è nel bagagliaio e recuperarne almeno qualche litro in modo da poter riavviare l'auto e poi fare il pieno con tutta calma raggiunto il distributore. Dice Mario.
Per me va bene, non avrei spinto un metro di più quella macchina. Ma se non torna subito o cerca di fare il furbo, giuro che questo glie lo ficco nella pancia! Risponde Soddu, e con un gesto veloce estrae la lama del suo Pattada dal manico d'osso, brandendola minacciosamente in aria.
Il tassista rabbrividisce quando dal suo nascondiglio la vede sinistramente luccicare nell'oscurità. Anche gli altri sono d'accordo. Lo scellerato Ignazio prende allora la tanica che recupera nel bagagliaio e trascinando i piedi, ancora dolorante e piagnucolante, si avvia verso Ovodda. Presto viene inghiottito dall'oscurità. Mario rimane solo, gli altri si tengono in disparte, forse non hanno gradito quando gli ha tolto dalle mani quel poveraccio del tassista, o magari si stanno già vergognando di come hanno ceduto all'ira.
Immagino che Mario, solitario, sia rimasto a guardare il fondo della valle rischiarata dalla luna, forse lanciando nel vuoto dei sassetti scelti con cura lì intorno, così, tanto per ingannare il tempo. Avrà pensato al fatto che quella era l'ultima volta che vede questo luogo prima che il lago sommerga tutto?
Passano circa due ore e lo sbadato tassista ritorna, accompagnato in motocicletta dal benzinaio. Senza dire una parola travasa la benzina nel serbatoio e sempre in assoluto silenzio risalgono tutti in macchina. La vecchia Millecento si riavvia subito e ripartono. Arrivano a Ovodda, Soddu e Atzori scendono e si allontano.
Ignazio abbassa il finestrino richiamando l'attenzione dei due. Embè? Vi siete scordati i soldi!
Ma vaffanculo! Risponde Soddu tagliando corto e stoppando così qualsiasi tentativo di replica da parte del tassista.
Fanno il pieno e lasciano Ovodda. Nei pressi di Tìana li attende la neve, ne è caduta molta la notte scorsa. Fortunatamente la strada è sgombra. Il Taxi ora corre veloce rinfrancato dal pieno di carburante.
Raggiungono sa Cantonera, la strada si divide: a sinistra si va per Tonara a destra si gira per Sorgono. Mario deve scendere. Ignazio proseguirà per portare a casa Dejana.
Mario consegna le cinquemila pattuite al tassista, che ringrazia riconoscente.
D'ora in avanti assicurati sempre di avere la benzina necessaria quando parti per qualche viaggio! Grida Mario con fare canzonatorio all'indirizzo di Ignazio, che sorride con amarezza, ormai già per la strada che porta a Sorgono.
Mario rimasto ormai solo, non ne ho dubbi, avrà rimirato sa Cantonera. E' una vecchia casa cantoniera dell'Anas appunto, una solida costruzione di colore rosso che questa notte spicca nel bianco dell'abbondante nevicata. La costruzione delimita il confine più estremo del territorio di Tonara, da bambini era per loro come le Colonne d'Ercole per gli antichi, oltre c'era l'ignoto. Una volta grandi era diventato luogo di appuntamenti e punto fisso prima dell'inizio di ogni avventura. Una pietra miliare, per loro così giovani e intraprendenti, e indubbio caposaldo per spiegare la strada ai forestieri o per far cominciare ogni racconto delle loro scorribande...
In lontananza può già scorgere il suo paese. E' proprio lassù in cima, avvolto dalla neve ovattata e già rischiarato dalla livida luce dell'alba. Intorno, i pochi uccelli del bosco che non sono emigrati, si organizzano per procurare quel tipico grande frastuono che annuncia l'alba. Un attacco di nostalgia lo coglie improvvisamente mentre rimira l'abitato lontano: quanti ricordi, mille sensazioni gli riaffiorano alla mente. E' come un pugno nello stomaco e certo non sarà riuscito a resistere. Ne sono certo, almeno una lacrima, se non molte altre, gli avranno solcato quel suo viso, dalla barba ormai lunga.
Qui la strada non è stata ancora sgomberata, sembra infatti che abbia smesso di nevicare da poco. La neve è tanta, ce n'è dappertutto, sarà almeno mezzo metro. Si fa fatica anche solo a stare in piedi, e man mano che sale continua ad aumentare. Infatti, sembrerà strano, perchè quando si parla di Sardegna si pensa sempre a splendide località marine, ma il suo paese si trova a mille metri sul livello del mare.
Fortunatamente passa un contadino, no forse è un pastore, con un rudimentale trattore. Gli pare di conoscerlo, ma sì è Tiu Bachisiu, forse sono pure parenti. Gentilmente lo fa montare sul cassone. Lo porta fino al centro di Tonara, poi lui girerà verso Aritzo.
Mario smonta per proseguire verso Arasulé, il rione dove è nato. E' il più alto del paese, vicino alle fonti di Galusé, quelle cantate dal sommo poeta di Tonara, Peppino Mereu.
Esausto, in quello che era il suo più elegante vestito, che ormai è ridotto ad un cencio stazzonato, fatica a camminare.
Sono ormai due giorni che è in viaggio. Non ha mangiato niente, non ha praticamente dormito e si è sfinito nello spingere la Millecento.
Ma ecco, quelli che sente sono i rintocchi delle campane del suo paese, li conta: accidenti, sono già le otto del mattino di Natale! E' il 25 dicembre del1961.
Tra poco i bambini si sveglieranno per aprire i loro regali, speriamo non poveri come erano i suoi, pensa Mario. Quello che nella sua infanzia era solo Gesù Bambino, e non quel grassone al soldo delle multinazionali, gli portava solo qualche noce, forse un mandarino se era fortunato.
Passa accanto alla chiesa di S.Antonio, dove il Parrocco, che io chiamerò Don Giuseppe, passeggia nel piazzale, forse ripassando mentalmente la predica della ormai prossima Messa solenne di Natale. Distratto dal rumore dei passi di Mario, che nel totale silenzio crepitano sulla neve, alza gli occhi dal breviario per individuare il passante. Sbigottito e strabuzzando gli occhi, rimane particolarmente colpito dallo stato miserevole di quel povero ragazzo che vede passare per strada.
Lampu! Figgiu meu, pari unu sopravissutu de sa Campagna di Russia!
Mario ride, alza le braccia in aria senza girarsi, si arrende alla battuta, (appunto da prete).
Accenna un gesto, metà di saluto e metà di rassicurazione per il Parroco. Dimostra che nonostante tutto sta bene e che ha ancora la forza di sorridere.
Ma, davvero, ora non ha più forze per parlare: vuole solo arrivare a casa sua. Gli manca ancora una piccola salita, poi la strada spianerà un poco e sarà arrivato...
Millenovecentosessantuno testo di Nigel Mansell