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Un liquido scuro di avvilimento mi riempie,
mi abita,
esonda fino a sommergermi,
rendendomi zattera
che obbedisce alle sue onde.
Non si può che navigare in questo oceano che dorme minaccioso,
senza disturbarne il sonno sinistro.
Altrove,
sul suo dorso liquido,
le onde si ergono e si abbattono
cieche e mute.
Troppo dentro per tornare alla costa.
Toccherà dunque anche a te?
La promessa di una catastrofe
che porti via te e i tuoi passeggeri.
Un’apocalisse trasparente,
eco muta da un orizzonte cinico,
che sta zitto,
promettendo guai.
Questo viaggio è una spietata tragedia solista:
un monologo muto,
una processione senza santo.
Si prende e si usa ciò di cui ci si può accontentare.
Oppure si fabbricano pensieri,
si strappano a sangue speranze farlocche,
valori in cui specchiarsi e riconoscersi.
Tutto si può usare.
E se non c’è niente,
ci si palleggia tra i remi un qualche pensiero,
perché in mezzo a tutta quest’acqua tutto va bene,
purché non faccia rimpiangere una bussola che non c’è mai stata.
O magari , semplicemente,
ci si distrae.
E se quest’onda dovesse davvero rivelarsi,
che allora ci cada addosso,
che ci schiacci
durante un momento di fatica senza lucidità.
Ombra rapida,
per non morire,
con la consapevolezza cocente di una rotta spezzata, assurda,
che consuma la memoria di sé
spazzandola indietro
con i remi che solcano l’acqua.
Ma guardarsi indietro?
Uomo rimpicciolito,
uomo invisibile.
Cosa dovrebbe misurare, precisamente, questa distanza?
Il tuo valore o la tua incoscienza?
I tuoi talenti o la tua inadeguatezza?
Cosa c’è in queste acque:
il coraggio di viaggiare
o il terrore della riva?
Serviva un maestro d’ascia
per una nave robusta.
Serviva e serve
un capitano, un equipaggio.
Serve dannatamente quella bussola,
per un ormeggio di pace.
Serviva e serve un porto amico.
Una sosta per osservare,
per riflettere, per curare.
Insieme.
Ma forse,
se davvero la costa fosse inabitabile come hai creduto e credi,
può avere almeno un valore la dignità di questa vela issata,
strappata e pulita.
O di questa carena rozza ed imprecisa
che ti somiglia,
che offre il dorso,
che fa ciò che si richiede venga fatto.
E in questi remi
che ignorano la tua sfiducia e scavano l’acqua,
con disprezzo per tutto,
tranne che per la prossima spanna di mare
da lasciarsi alle spalle.
La catastrofe si annusa dalla feritoia dell’orizzonte,
dietro il sipario degli abissi che mi attendono.
È deciso che la marcia continui,
lasciandosi dietro il mio nome,
scritto nell’acqua.