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Occhi aperti, immobile come roccia, una nuvola bianca, una bestia, un agnello che sta per essere sgozzato. Nessuna restrizione, nessuno lo blocca.., eppure è serrato. Non muove un muscolo, non riesce a muovere un muscolo. Scappa! Scappa! Ma niente. Io piango per questo. Piango. Piango perché l'uomo indossa le scarpe e non cammina più a piedi nudi.
Un agnello fermo davanti alla morte, e un uomo – ancora ragazzo – che guarda e non sa se può, o se deve, fare qualcosa. L’agnello è l’innocente. È la creatura che, pur avendo la possibilità di fuggire, resta. Per paura, forse; ma più profondamente per fiducia. La fiducia cieca che il mondo non farà male, che l’altro non colpirà. È una fiducia sacra, disarmante. Ed è proprio quella fiducia a essere tradita. La morte dell’agnello, quindi, non è solo un evento naturale o crudele, ma una rottura del patto primordiale tra vivente e vivente. Quel patto non scritto che dice: “Tu mi vedi. Io mi fido. Non mi farai del male.”
Il/la protagonista — oggi adulto (io)— piange ancora. Non solo per l’animale, ma per ciò che quella scena ha rivelato: l’uomo ha smesso di camminare scalzo. L’uomo ha smesso di sentire. Camminare scalzi significa toccare la terra, sentire il mondo, essere vulnerabili. Indossare le scarpe significa proteggersi, ma anche isolare; l’uomo si è difeso così tanto dal mondo, da non sentirlo più. Siamo in una società che, in nome del progresso, ha perso il contatto con il suolo. Abbiamo costruito strade, tecnologie, strutture.., ma abbiamo dimenticato come si ascolta il silenzio di un agnello. Come si guarda negli occhi una creatura libera e fragile, e si decide di non farle del male. La vera tragedia non è la morte dell’agnello, è la cecità dell’uomo che lo uccide, convinto che sia “normale”. La filosofia, scrive Levinas, comincia con il volto dell’Altro. E l’etica comincia nel momento in cui qualcuno ci guarda, e ci chiede senza parole: “Non farmi del male.” L’agnello è quell’Altro.
Ogni volta che l’uccidiamo — fisicamente o simbolicamente —uccidiamo anche la nostra capacità di essere umani. Quella scena racconta una verità scomoda: non è la violenza che ci disumanizza. È l’indifferenza. È l’abitudine. È il silenzio davanti al male. Eppure, il ragazzo/a rimasto scalzo, con gli occhi aperti…forse non ha salvato l’agnello, ma ha salvato qualcosa dentro di sé: la capacità di ricordare, di sentire, di provare dolore. In un mondo che ha smesso di piangere, chi piange ancora…è forse l’ultimo vero uomo.