MIlano, prima di quel giorno

scritto da Il Cinabro
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Almost Blue, sotto la pioggia, una notte di tanti anni fa
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Testo: MIlano, prima di quel giorno
di Il Cinabro

“Per me l’unica gente possibile sono i pazzi, quelli che sono pazzi di vita, pazzi per parlare, pazzi per essere salvati, vogliosi di ogni cosa allo stesso tempo, quelli che mai sbadigliano o dicono un luogo comune, ma bruciano, bruciano, bruciano, come favolosi fuochi artificiali color giallo che esplodono come ragni attraverso le stelle e nel mezzo si vede la luce azzurra dello scoppio centrale e tutti fanno Oooohhh! ”

 

   Jack Kerouac

 

     Prima di quel giorno lì Milano non l’avevo mai vista. L’immaginavo proprio così, impenetrabile, misteriosa e affascinante, come mi apparve in una fredda sera del Febbraio del ’56 in cui avevo da poco compiuto ventidue anni, e nella tasca del cappotto di panno pesante due indirizzi scritti a penna da Giorgio: uno era della “Pensione Doria” vicino alla Stazione Centrale, e  uno era del locale dove avrei dovuto suonare di lì a poche ore, il Santa Tecla.

    Milano mi accolse con una pioggia fitta e leggera, incessante e schiva allo stesso momento. I tram arancioni sui binari, le signorine impellicciate che battevano già dalle sette di sera, i tassì 1100 verde oliva, tutto era irreale, mentre la nebbia a banchi attanagliava finanche i pensieri più reconditi, quelli lasciati scorrere dai passanti nel rientro a casa dopo una giornata in fabbrica o in ufficio. Le insegne dell’Aperol e del Cinzano svettavano più alte di tutti, come stelle infinite, irraggiungibili, d’argento. I marciapiedi zuppi d’umido parevano inghiottire anche la custodia del mio contrabbasso, e solo i riflessi delle luci gialle provavano a darle una forma, forse – sottilmente - un’anima.

 Milan el po' fa e'l po' dì, ma el po' minga l'acqua in vin convertì!

     Si, forse c’era del vero nella battuta proferita da mio fratello Giorgio, Milano non poteva trasformare l’acqua in vino. Ed io ero solo un musicista di provincia, che si immergeva riluttante nelle pieghe di una città dalle case di ringhiera, coi cortili a sassi incastonati, le facciate dei palazzi mischiate al fumo delle automobili, ed il Barbera nelle osterie dai pavimenti imbruniti. Ero cresciuto in un paesino della provincia di Ferrara, dove ci si conosceva da generazioni e per nomignoli, e la passione per la musica si coniugava quotidianamente con il lavoro nei campi, il sudore madido dei corpi stretti durante la raccolta, le risa soffocate sulle schiene ricurve, quando insieme si consumava un piatto frugale di minestra col pane cotto. Nulla di quel paesaggio metropolitano pareva appartenermi, anzi, sentivo respingermi con forza, come se volesse sputarmi fuori dai suoi ben oliati ingranaggi.

     Avevo negli occhi le stalle ed il fieno arrossito nei tramonti, i mulini dispersi nella pianura verde, i cappelli di carta dei pescatori lungo il fiume che tiravano su le anguille alle cinque del mattino, le urla dei bambini che guardavano il Tour de France al bar. Mi tremavano le gambe, la testa si era svuotata d’improvviso, in un batter d’occhio, Milano pareva svuotarmi d’energia. E ammaliarmi.

     Fu un attimo sospeso, in cui ripensai alla smorfia di Giorgio che guardando l’accostamento delle mie scarpe scure con le calze bianche aveva d’improvviso allargato le braccia, At pàr un Cmaces con ch’ill scàrp!. Un comachese, io!

    Ero un contadino con l’amore innato per il lavoro ed il contrabbasso, ereditati entrambi da mio padre, morto durante i rastrellamenti del ’44, e le scarpe rimanevano ancora un oggetto misterioso per me, abituato com’ero a correr scalzo e nudo nei campi anche d’inverno.

     Le auto intanto sfrecciavano davanti alla stazione Centrale, disegnando caroselli e cerchi concentrici che sembravano respiri affannati mischiati al calar della sera. Mi sporsi dal marciapiedi e feci un cenno ad un tassista di avvicinarsi, lui ricambiò con un gesto d’assenso affacciandosi al finestrino.

-       Signore, dove la porto?

-       In via Santa Tecla 3, è lontano da qui? – non avevo la minima idea di dove fosse, sapevo solo non fosse molto distante dal Duomo.

-       No, son dieci minuti al massimo, forse quindici, ha molta fretta?

-       Non si preoccupi, sono in tempo. Posso appoggiare il contrabbasso? Le spiace? – dissi con tono sicuro.

-       Certo, lo metta sul sedile davanti – chiusi la porta del tassì, e provai a distrarmi.

     Avevo suonato fuori dall’Emilia svariate volte, anche molto lontano da casa, a Napoli, Firenze, a Roma, ma stavolta sentivo che sarebbe stato diverso. Giorgio aveva conosciuto l’estate scorsa a Rimini il proprietario del Santa Tecla, un tale Sandro Dezi, bergamasco ricco sfondato e col fiuto per gli affari, e gli aveva proposto alcune mie registrazioni col quartetto jazz con cui mi esibivo da anni in giro per l’Italia. Lui calcava le scene delle prime pagine da anni ormai, ed aveva lanciato svariati artisti: stranamente era rimasto molto colpito dalla mia tecnica sincopata e dai suoni caldi. Si diceva anche che fosse intimo amico di Jack Cralayen, un malavitoso marsigliese che trafficava oppio in Italia e Francia. Fatti suoi, io avevo solo voglia di suonare.

   Giorgio era riuscito, tra le sedie a sdraio e l’atmosfera rilassata del Grand Hotel di Rimini dove faceva la stagione, a strappare a Dezi la promessa di un concerto, e così fu. Il Santa Tecla poi era un locale famoso e all’avanguardia, frequentato da musicisti e attori di grido, dove le jam session tipiche del jazz avevano inizio al pomeriggio tardi e finivano nel silenzio della notte. Si saliva sul palco col proprio strumento, e si cominciava a suonare con gli altri musicisti senza neanche conoscersi, fino a sfinirsi dalla stanchezza.

    Il tassì superò il Duomo in dieci minuti, per poi infilarsi in una stradina stretta e con l’asfalto sgranato e sminuzzato. Inchiodò con una brusca frenata.

-       Quanto le devo? – osservai il tassametro posto sul sedile anteriore, uno scatolone bianco collegato al motore che cigolava ad ogni sterzata

-       Ottanta lire –infilai le mani in tasca per cercare un pezzo da cinquanta e tre da dieci

-       Ecco a lei – feci guardando nello specchietto anteriore, non c’era nessuno in strada

-       Grazie, e buona serata anche a lei – concluse il tassista

     Presi il contrabbasso in braccio, feci qualche passo e mi ritrovai di fronte all’ingresso del locale, dove due marcantoni di un metro e novanta con i gessati grigi mi chiesero cosa volessi. Erano sovrastati da una scritta gigantesca, Santa Tecla.

-       Lei deve entrare? Il biglietto costa cinquecento lire – fissarono l’attenzione sulle scarpe, e mi venne nuovamente da ridere, aveva proprio ragione Giorgio, sembravo un incrocio tra uno sfollato ed un uomo dei campi. Forse ero entrambe le cose.

-       Sono un musicista, stasera devo esibirmi, Carlo Marenghi, contrabbasso

-       Ah ok, entri di qui, per ora c’è solo il trombettista in sala, si può accomodare nel camerino, lì a sinistra – e indicò una scala buia di sotto

     Appena dentro avvertii forte l’odore dell’umidità, ma dopo un attimo la mia attenzione fu rapita dalle note strozzate di una versione lancinante e folle di “This is always”.

    Appoggiai la custodia del contrabbasso alla parete del guardaroba, e mi avvicinai, quasi di corsa verso il palco, in fondo ad un tunnel stretto e lungo una decina di metri. Mano a mano il suono della tromba aveva un sapore sempre più denso, pastoso e fine, non saresti riuscito ad ascoltare un qualsiasi altro strumento se ci fosse stato, le note uscivano dal cielo per ricongiungersi al cuore, io ero paralizzato, i brividi percorrevano le mani, la testa, i piedi, il cuore. La musica raggiungeva ogni angolo, spazio, e mi avvolgeva in una spirale imperitura e magica.

     A passi levati arrivai in un attimo al palco, trattenni istintivamente il respiro, le note riempivano la sala, soffocandola, lui suonava su di una sedia, con le gambe aperte, le spalle alla sala, gli occhi chiusi, un ciuffo che sembrava stare in piedi da solo. Nella penombra cercai il suo viso, aveva gli occhi chiusi, e trascorsero una decina di secondi prima che si accorgesse di me: smise subito di suonare, con l’espressione intensa di una malinconia folle e vitale. Notai il suo vestito delicato e bianco, stretto nelle pieghe di una cravatta nera portata con disinvoltura, perfetta per quella luce bassa ed immersa nel fumo di sigarette dei camerieri.

-       Carlo Marenghi, contrabbasso, piacere.

Lui fece un sorriso e poggiò la tromba sulle gambe. Prese una Sport da un pacchetto sgualcito in tasca, e se la mise in bocca.

-       Hai da accendere, Carlo?

-       No, non fumo.

-       Prova a chiedere ai camerieri, per favore.

-       Scusa, non mi hai detto il nome …

-       Mi chiamo Chet, Chet Baker, sono un trombettista di Glendale.

     Un giovane jazzista americano neanche trentenne dall’aria svagata e da un fraseggio che si stampò nel mio cervello mai come quella sera, ed un contrabbassista autodidatta della provincia di Ferrara.     

    La musica, pensai, fugacemente, unisce mondi lontanissimi, fin dentro gli abissi. Feci cenno ad un cameriere per dei cerini, per darglieli.

     Lui si accese la sigaretta con calma, e ricominciò a suonare.

 

MIlano, prima di quel giorno testo di Il Cinabro
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