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Annetta
Annetta aveva otto anni e quella mattina teneva la mano al papà, mentre si recavano al cimitero del piccolo paese di Selargius in Sardegna, dove la sua famiglia si era trasferita da qualche anno. Lei si chiamava Anna, ma Annetta era il suo vezzeggiativo perché era la più piccola di casa: l'ultima nata d'una famiglia di cinque maschi e tre femmine.
Era felice di accompagnare suo padre, per lei era una piccola festa, infatti non accadeva quasi mai che lui la portasse con sé e stessero insieme da soli.
La giornata estiva era di un caldo secco e ventosa, come sovente accadeva nell'isola, dove il vento aveva levigato per secoli rocce e montagne facendo crescere il pino marittimo della macchia mediterranea inclinato dalla sua veemenza.
In quelle giornate il vento portava i profumi della lavanda, del timo, del mirto e del rosmarino, che inebriavano i sensi.
Bisognava però, come ribadiva sua madre, tenersi al largo dai cespugli di "figumorisca", che crescevano più alti di un uomo e davano i deliziosi "fichi d'India".
Frutti dalla consistenza densa, succosa, gelatinosa, simile a un'anguria molto compatta; dal colore arancione, rosso intenso o viola e il sapore dolce-acidulo, con note di anguria, kiwi e lampone.
Ma avevano le larghe foglie costellate di spine finissime che il vento ti spingeva addosso come piccole frecce urticanti ed era un tormento liberarsene.
Sua madre doveva immergerle le mani in acqua calda per lunghi minuti, poi aggiungere detersivo per piatti e infine, strofinare delicatamente la pelle con una spugnetta ruvida o uno spazzolino morbido, ripetendo la procedura fino a eliminarle tutte.
Meglio evitare di passare nei pressi dei fichi d'India nelle giornate di vento.
Annetta quella mattina si trovava bella, si sentiva elegante per la passeggiata col suo papà.
La mamma l'aveva vestita col suo vestito leggero più raffinato: quello "alla marinara", come quando la domenica, tutti insieme, andavano alla messa.
Portava in capo il suo cappellino di "paglia di Firenze" nuovo, acquistato in un grande negozio di Cagliari; teneva molto al suo cappello, ricordava di averne sempre avuto uno fin da piccola.
Appena la paglia si sfilacciava per l'uso, sua madre gliene comprava uno nuovo, ma di uguale modello: era a falda larga, con un nastro di gros-grain blu che cingeva la cupola.
Doveva tenerlo sul capo con la mano, per impedire che il vento glielo portasse via.
Annetta non era nata in Sardegna, come alcuni dei suoi fratelli più anziani, infatti, era venuta alla luce a Sfax in Tunisia. La sua famiglia trenta anni prima, in cerca di lavoro, si era trasferita in quel paese del Nord Africa, dove il colonialismo aveva lasciato un protettorato francese e nel quale l'Italia possedeva rilevanti interessi economici.
Suo padre, infatti, vi svolgeva un lavoro come sorvegliante di una miniera di fosfati.
Di quel paese lei ricordava il calore di un sole non diverso da quello della nuova terra italiana, molto diversi erano invece i sapori e i profumi.
Rammentava l'esperienza sensoriale del Souk di Tunisi, un luogo d'esplosione per i sensi: menta fresca, spezie, essenze, oli, incensi, saponi e i dolci come il Makroud: ripieno di pasta di datteri speziata, poi fritto e immerso in sciroppo di miele e acqua di fiori d'arancio, che rilasciava all'intorno un intenso profumo di arancia, dattero e sesamo tostato.
Ma lei, pur ancora piccola, aveva impressi in mente i colori e la moltitudine di uomini, donne e bambini, che riempivano d'una vitalità visiva e sonora quello spazio brulicante d'umanità.
Quando i moti per l'indipendenza della Tunisia portarono a rivendicazioni di piazza assai accese, sempre represse con durezza dal governo di Parigi, si era creata una situazione instabile e poco sicura per la permanenza degli europei.
La sua famiglia era tornata in Sardegna e suo padre si era impiegato con un uguale ruolo all'interno della Carbonsarda.
Era la società che gestiva il complesso delle miniere del Sulcis, il maggior bacino estrattivo del carbone nel paese.
Nel Sulcis, a sud-ovest della Sardegna, la principale risorsa mineraria estratta era il carbone di lignite: il bacino carbonifero era esteso su circa 100-400 km² tra Carbonia, Gonnesa, Iglesias e zone limitrofe.
Al ritorno in Italia lei aveva avuto qualche problema con la scuola: in Tunisia aveva iniziato le elementari in una scuola di lingua francese, mentre in casa aveva sempre sentito parlare il dialetto campidanese. In Italia le era toccato d'apprendere rapidamente la lingua, c'era voluto un po' di impegno e pratica, ma Annetta, dotata di un'intelligenza brillante oltre che di un carattere assai vivace e determinato, si mise rapidamente al passo con i propri compagni di classe.
La loro era una grande casa, con numerose stanze e un'ampia aia con diversi animali da cortile: galline, conigli e maiali, ma soprattutto era una casa da ricchi, perché aveva la muratura in laterizio intonacato ed era di nuova edificazione.
Infatti, solo i più agiati in paese possedevano case con tali caratteristiche; le altre erano erette con mattoni di "ladiri", come si usava in antichità: in sostanza terra cruda, in un impasto di paglia e acqua che veniva essiccato al sole senza bisogno di cottura, dando comunque vita a case solide e resistenti.
In casa con tutti quei fratelli il caos era continuo, talvolta pareva di stare all'interno d'una allegra festa di paese, altre volte di un campo di battaglia.
Sua madre piccola di statura, ma autorevole e severa nella gestione della casa e della prole, rispettata come un generale inflessibile o un rigido domatore circense.
Comandava tutti a bacchetta, e si inviperiva quando i figli più grandi si burlavano di lei rifacendole il verso.
Il fratello più vecchio aveva trentacinque anni, portava il nome di Paolo, di mestiere era falegname con un'attività in proprio.
Già sposato e con due figli, l'unico che già vivesse in una casa propria con una sua famiglia.
I due maschi intermedi di nome Emilio e Piero avevano scelto di trasferirsi dalla Tunisia in Francia, erano provetti elettricisti e meccanici e vivevano lì con la loro famiglia.
I due più giovani, si chiamavano Dante ed Eliseo: il primo intorno ai vent'anni, era un tecnico meccanico con la passione per la prestidigitazione e l'illusionismo.
Il secondo, più giovane di due anni era un valente artista.
Dante, come illusionista, si esibiva in locali e teatri dell'isola.Un vero personaggio: portava capelli lunghi fino alle spalle, che teneva raccolti in una coda legata con un nastro di velluto.
Aveva baffi e mosca che gli conferivano fascino, era dotato d'eleganza e profumava di mistero.
Annetta lo guardava ammirata quando vestiva la marsina di gala sulla camicia immacolata col colletto rigido, fermato da un papillon di uguale colore del nastro che gli cingeva la coda. Questo fratello si era sempre interessato di esoterismo e tale passione lo aveva condotto a iscriversi alla "Federazione francese degli artisti prestigiatori", dalla quale aveva conseguito il diploma di prestidigitatore e illusionista professionale.
La bambina lo osservava incantata quando era intento ai suoi esercizi di meditazione: sedeva sotto il patio della casa a torso nudo, nella posizione yoga del "Loto".
Praticava le tecniche yoga del maestro Swami Kuvalayananda, apprese all'interno del corso per divenire prestidigitatore. Compiva quelle pratiche impegnative durante le ore in cui la giornata era più ardente per acquisire resistenza e forza di volontà.
Davanti a sé, su un piccolo piedistallo, teneva una palla di cristallo che risplendeva abbagliante al sole, su di essa concentrava lo sguardo in una fissità simile a una trance, senza battere le ciglia per intere ore.
Erano esercizi per rafforzare la forza mentale e aumentare la capacità extrasensoriali.
Il più giovane dei maschi: Eliseo, era diciottenne.
Assai dotato per il disegno, un vero artista, progettava di divenire in futuro un bozzettista per i giornali o la réclame. Influenzato dal lavoro e dai libri esoterici del fratello, si sentiva affascinato dall'occultismo, infatti, incoraggiato da lui, già intorno ai sedici anni aveva scoperto di possedere quello che si definiva "il dono".
Eliseo era un medium e un veggente. Possedeva una stanza della casa adibita a suo studio, nella quale lavorava ai suoi disegni e sovente, riceveva gente del posto, proveniente dal paese, le zone limitrofe e altre parti dell'isola dove erano giunte voci delle sue capacità.
Opportunamente interrogato, entrava in stato di trance ed era in grado di mettere in contatto persone che avevano perso qualcuno, con l'amato defunto. Riusciva, inoltre, a leggere fatti del passato o del futuro attraverso l'uso degli Arcani Maggiori dei Tarocchi, per chi lo consultava.
Era un'attività svolta senza fini di lucro: attuata solo per recare conforto a chi aveva perduto persone care o fosse in ansia per fatti gravi che ne turbavano l'esistenza.
Era noto che non accettasse mai denaro, ma i consultanti, sovente gente semplice e di modeste condizioni, desideravano per principio sdebitarsi, quindi recavano, in regalo a sua madre, ceste di generi alimentari: colme di frutta, formaggio, dolci tipici o vino di loro produzione.
Eliseo era dolce e sensibile di carattere: sicuramente il fratello prediletto di Annetta, poiché era l'unico a essere stato ancora bambino quando lei, ultima nata di due genitori già maturi, era venuta al mondo.
Aveva ricordi di lui che la teneva in braccio e la faceva giocare, quando nei primi anni di vita vivevano ancora in Tunisia.
Quell'attaccamento infantile continuava immutato, perché era lui a coccolarla, a regalarle dolciumi, mostrandosi sempre disponibile e tenero verso di lei, cosa che i fratelli e le sorelle più grandi, troppo impegnati nelle mansioni quotidiane, non le dedicavano, anzi, essendo lei di temperamento vivace, sovente la invitavano a non stare tra i piedi mentre erano affaccendati.
Per il suo settimo compleanno Eliseo le aveva donato uno yoyo in legno, con spirali multicolori disegnate sui dischetti: un giocattolo semplice ma che la bambina, poco abituata a ricevere doni, sentiva prezioso e dal quale non si separava mai.
Con Eliseo stava a chiacchierare la sera prima di andare a letto, lui le leggeva le favole che animavano i suoi sogni.
In una di quelle sere, seduti sul letto di lei mentre si parlavano, lui tenendole le mani le rivelò di avvertire che anche lei fosse come lui, che possedeva "il dono"; disse che era un segreto che avrebbe dovuto tenere per sé, promettere di non parlarne con nessuno.
Lei era perplessa, non capiva in cosa consistesse questo "dono" né cosa ci potesse mai fare e perché di tanta segretezza.
Lui le spiegò che "il dono" era una cosa simile alle capacità che possedeva.
Non era una cosa tangibile o che si potesse spiegare, ma che si nasceva dentro come un fatto naturale.
Le disse che era come si imparava, a un certo punto a parlare, o si smetteva di camminare a quattro zampe, come accade ai bimbi piccoli che crescono.
Veniva da sé quando era il tempo giusto. Annetta chiese come facesse lui a sapere del "dono" che lei avrebbe avuto?
Lui sorrise, disse che non lo sapeva, lo sentiva e quando sentiva una cosa così era come avvertire una corrente d'elettricità che passava tra loro, e questa sensazione non sbagliava mai.
Quella notte lei non sognò di favole, ma di trovarsi su una strada piena di sole, dove camminava tenendosi per mano con suo fratello.
Eliseo aveva compiuto i diciotto anni da pochi mesi, si era tutti riuniti a pranzo nella domenica di Pasqua. Il menù tradizionale comprendeva: i "culurgiones" con ricotta, "sa panada" di agnello e l'agnello arrostito allo spiedo.
La tavolata era allegra vi partecipavano anche cugini e parenti invitati per l'occasione di quella festa grande.
Si svuotarono diverse bottiglie del corposo "Carignano del Sulcis", che si consumava perfettamente con gli arrosti.
Anche ad Annetta fu consentito di berne un dito, annegato in un bicchiere colmo di gazzosa.
A fine del pranzo, protrattosi fino alle quattro del pomeriggio, fra discorsi annebbiati dal vino, risate e aneddoti esilaranti, Eliseo disse d'essere felice di aver trascorso quella "Pasca Manna" con tutta la famiglia, perché sarebbe stata l'ultima della sua vita.
A quell'annuncio cadde un silenzio sbigottito, poi i fratelli risero pensando che si trattasse di una facezia dovuta al vino bevuto coinvolgendo nella risata generale tutta la tavolata.
Ma la madre s'adombrò, facendosi il segno della croce e disse risentita che certe cose non si dovevano mai dire, perché portavano male. Soprattutto, erano di cattivo augurio nel giorno di resurrezione di Nostro Signore.
Eliseo non aggiunse altro, Annetta impressionata da quei discorsi, non capiva perché gli adulti talvolta dicessero cose tanto strane, di cui lei non comprendeva la ragione.
Guardò gli occhi del fratello: assenti e colmi di mestizia, sembravano guardare il vuoto nella sua anima, una cosa che la intristì fino alle lacrime.
Eliseo si ammalò pochi mesi dopo, un male incurabile di cui lei non aveva inteso la ragione, a dispetto delle cure, se lo portò via prima della fine dell'anno.
Un dramma che sprofondò l'intera famiglia in un abisso di dolore straziante.
Annetta provò una sofferenza indicibile, fu il primo grande dolore della sua vita, la malinconia delle sere rese vuote della mancanza del fratello si consumavano nel pianto disperato, finché il sonno e la mestizia la gettavano nell'oblio dell'incoscienza.
Le parole di suo fratello nel giorno di Pasqua si erano rivelate una profezia dolorosa e crudele: era evidente che lui, già allora, sapesse, ma lei era troppo piccola per averlo compreso.
Con suo padre quel giorno erano diretti al cimitero del paese, lui portava fiori freschi sulla tomba di quel figlio che il destino gli aveva strappato, creando una lacerazione sanguinante nell'anima.
Lei con lo spirito dei bambini, che affrontano i dolori più grandi con l'energia vitale dell'infanzia, pur con la pena nel cuore, era sempre felice di far visita a quel fratello tanto amato che dormiva nell'abbraccio silente della terra.
Come sempre aveva con sé il suo prezioso yoyo ricevuto in dono: oggi avrebbe mostrato a Eliseo quanto fosse diventata abile nel lanciare e far riavvolgere i dischetti lungo il cordino teso.
Quando furono all'entrata del camposanto, vi trovarono una vecchia abbigliata col costume tradizionale del luogo: erano ormai solo le donne molto anziane a portarlo.
L'abito che portava era rimasto immutato fin dall'800: costituito da una gonna a strisce verticali rosse e blu plissettata, una fascia in trine d'oro posta in vita, una camicia in lino bianco finemente ricamata, un corsetto e un grembiule di seta sempre ricamato; vestiva un giubbetto in seta ornato da trine e in capo un fazzoletto in seta damascata
Andandogli incontro, la donna li salutò sorridendo, pareva li attendesse: suo padre rispose ossequiosamente al saluto e Annetta fece altrettanto.
La vecchia si fermò a farle una carezza, poi trasse dalla tasca dell'abito un rosario e lo donò alla bambina, dicendole che dove andava le sarebbe stato utile.
Annetta ringraziando lo prese e nell'osservarlo, immediatamente comprese che non era come quelli che aveva sempre visto usare.
Infatti, stranamente, il numero dei grani delle preghiere era errato. Quelli nel tratto finale, prima della croce, erano sei invece che cinque, quelli del primo mistero sette anziché dieci, così come il numero di quelli del secondo mistero otto e non dieci, come correttamente avveniva per il terzo e quarto mistero. Vedendo la sua perplessità, la vecchia le prese dolcemente il capo tra le mani, dicendole che quei semi nel rosario erano particolari.
Infatti, rappresentavano: mesi, giorni e ore: questo disse che era il volere di Dio, segnò di croce la fronte alla bambina, benedicendola, quindi si congedò e proseguì per la sua strada.
Annetta e il padre entrarono nel cimitero.
Quando furono davanti alla tomba d'Eliseo, deposero i fiori che avevano portato nel vaso accanto alla lapide, il padre iniziò a pregare in modo assorto e silenzioso. Annetta disse le sue preghiere, poi, estratto lo yoyo, iniziò a far scorrere i dischetti, per mostrare al fratello l'abilità raggiunta col giocattolo. Dopo qualche momento dell'esercizio il filo, improvvisamente, si spezzò: il corpo dello yoyo cadde in terra e iniziò a scorrere via rapido.
Non fece molta strada, poiché nella fila di tombe alle loro spalle, vi era una fossa vuota, pronta per una prossima sepoltura, in cui lo yoyo concluse la sua corsa. La bambina volle recuperarlo e si apprestò a cercare di calarsi nella fossa assai profonda, ma il padre la fermò.
- Non sei tu figlia mia che devi scendere. Questo è un compito mio.
Ciò detto si calò nello scavo profondo quanto la sua altezza: recuperò il giocattolo e glielo porse. Annetta contenta di riaverlo tese la mano al padre perché risalisse, l'uomo sorrise di quel gesto velleitario, ben sapendo che la bimba non possedeva la forza per aiutarlo nella risalita.
Le disse: - Tu va', io mi arrangio, la strada di casa la conosci.
Ma l'idea di lasciare lì suo padre riempiva la bambina d'ansia e afflizione, non voleva muoversi.
- Fai la brava – le disse - lasciami qui e non preoccuparti. Mi riposerò un momento per riprendere vigore, poi mi isserò e tornerò anche io. Ma tu vai che si fa tardi e mamma sta in pensiero.
Allora, a malincuore, Annetta uscì dal camposanto e si avviò nel sole, col suo giocattolo stretto in una mano e il rosario, che le aveva donato la vecchia, nell'altra.
Si risvegliò di soprassalto, madida di sudore, l'alba era ancora lontana, il cuore le batteva forte, ma comprese di aver solo sognato.
La passeggiata al cimitero col padre e tutto quanto accaduto non era che un sogno dal sapore triste.
Non c'era mai stato il rosario con i semi sbagliati, né la vecchia signora; non era mai caduto lo yoyo nella tomba vuota, né suo padre si era calato nel fosso per recuperarlo.
Un sogno angoscioso e spiacevole sull'onda del ricordo e della mancanza del fratello morto.
Nel buio della camera, in cui dormiva con le proprie sorelle, rinfrancata che nulla di quanto sognato fosse successo, riacquistò conforto e scivolò in un nuovo sonno.
Si era ad agosto, l'ottavo mese dell'anno, erano trascorsi sette giorni dal suo sogno, e alle sei del mattino bussarono con forza alla porta della loro casa. Erano uomini del cantiere minerario in cui suo padre lavorava: dissero che il loro caposervizio, padre di Annetta, si era sentito male sul posto di lavoro. Vista la gravità della cosa era stato trasferito all'ospedale San Giovanni di Cagliari.
Quando la madre e i figli maggiori lo raggiunsero, l'uomo era già spirato in seguito a un attacco di cuore.
Fu seppellito nel cimitero di Selargius, Annetta riconobbe la tomba in cui lo calarono: era la stessa in cui era caduto il suo yoyo nel sogno.
(Annetta era mia madre)