Treni che non si incrociano

scritto da R. E. Harlow
Scritto 3 mesi fa • Pubblicato 3 mesi fa • Revisionato 3 mesi fa
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Autore del testo R. E. Harlow

Testo: Treni che non si incrociano
di R. E. Harlow

I. Prima della neve 

All’uscita della scuola media “Foscolo”, il cielo sembrava un foglio lasciato a metà: grigio sopra, rosa sotto. L’aria aveva il sapore dell’inverno che si annuncia ma non si decide a restare. Il cemento bagnato rifletteva i lampioni ancora accesi, come occhi stanchi che non volevano chiudersi.

Giulia camminava accanto a me, in silenzio. Lo zaino blu le ballava sulle spalle a ogni passo, i capelli raccolti male sotto il cappuccio, le mani affondate nelle maniche del giubbotto nero. Aveva un modo tutto suo di stare accanto alle cose: mai troppo vicina, mai troppo lontana. La sua presenza era come quella di una canzone dimenticata che ti ritorna all’improvviso nella mente.

Ogni tanto rideva senza motivo — o forse ero io il motivo. A quell’età non servivano troppe parole. Bastava camminare accanto, sapere che l’altro c’era, e il mondo sembrava meno ostile.

Attraversavamo sempre quel tratto di periferia dove i condomini si aprono come ferite a cielo aperto, e poi, come una linea invisibile, compariva l’incrocio dei binari: un passaggio a livello abbandonato, con le sbarre arrugginite e l’erba che cresceva tra i binari. Lì il tempo sembrava più lento, o forse eravamo noi a camminare più piano.

Quello era il nostro posto segreto, anche se era in mezzo alla strada. Lo chiamavamo “la linea dei treni fantasma”, perché da anni non passava più nulla. Nessun treno, nessuna voce. Solo il rumore del vento e delle foglie.

Un giorno, senza dire nulla, Giulia si fermò lì.

Con la punta dello scarpone, disegnò un cuore nel terriccio sabbioso tra le rotaie.

“Secondo te… anche i treni si ricordano delle persone?”

Mi voltai verso di lei. Non c’era ironia nella sua voce. Solo quella forma lieve di tristezza che le veniva quando il cielo diventava troppo grande per contenerla.

“Solo se hanno fatto un viaggio importante,” risposi.

Lei sorrise, ma non disse nulla.
Si limitò a fissare il cuore disegnato con la punta del piede, poi lo cancellò con un colpo secco.

“Allora tu ti ricorderai di me.”

La frase restò sospesa come condensa sul vetro. E io non trovai nulla da dire. Perché dentro di me sentivo che quella frase — detta così, per gioco, per malinconia — era una promessa. O forse un presagio.

Camminammo ancora per qualche minuto. Ci fermammo davanti al cancello di casa sua. Era una palazzina color ocra, con le tende spesse e le antenne spente.

Giulia si voltò solo un attimo prima di entrare.

“Domani nevica, lo sai?”
“Non nevica mai qui.”
“Appunto.”

Poi sparì dietro il portone, lasciandomi lì, con una frase impossibile da interpretare.

Quel giorno non lo sapevo ancora, ma quello sarebbe stato il nostro ultimo autunno.

La prima neve era in ritardo. Ma stava già scrivendo le sue pagine nei nostri silenzi.


II. Flashback – Sotto la neve

Treviglio, binario 3. Dicembre.

Il cielo era bianco, compatto. Nessuna sfumatura.
Solo uno spesso lenzuolo di luce diffusa che calava sulle cose come un sipario che non si vuole aprire.

Ero lì da mezz’ora.
Seduto su una panchina gelata, con il cappuccio tirato sugli occhi e lo zaino stretto in grembo come se potesse proteggermi da qualcosa.

Il treno per Verona sarebbe partito alle 18:10.
Lei doveva salire. Doveva andarsene.
Una città più grande, una nuova scuola, una nuova vita.

Io invece restavo lì.
Fermo in un luogo che non ci avrebbe più visti insieme.

Il tempo sembrava impastato nel respiro: ogni secondo colava lento, come cera che non vuole cadere. Le luci giallastre della stazione tremavano appena, riflettendosi sulle rotaie bagnate. Una voce metallica annunciava ritardi su treni che non ci interessavano. Non c’erano quasi persone. Solo un uomo anziano con un cappello troppo grande, e due ragazzi che si scambiavano le cuffie per ascoltare musica senza parlare.

Alle 18:08, quando avevo quasi perso la speranza, comparve.
Giulia.

Arrivò di corsa dal sottopassaggio, le gambe sottili che tagliavano l’aria, il respiro che usciva a sbuffi dai polmoni. Aveva il cappuccio alzato, un guanto solo, e lo stesso zaino blu, ma con una toppa nuova cucita male.

Mi vide. Mi sorrise, ansimando.
Nei suoi occhi c’era una strana scintilla: gioia, urgenza, malinconia. Tutto insieme.

GIULIA (senza fiato):
“Ce l’ho fatta…”

Fece due passi avanti. Il treno era già sul binario, le porte aperte, il freddo che entrava nelle carrozze come una promessa.

LUCA (a bassa voce):
“…Ma il treno non ti aspetterà.”

Lei non rispose.
Mi guardò intensamente, poi rovistò nella tasca del cappotto e mi porse un foglio ripiegato in quattro. La carta era un po’ stropicciata, ma pulita.

“Non aprirlo subito.”

Disse solo questo.

Poi il treno emise il primo fischio. Lei salì di corsa, senza voltarsi, e si sedette vicino al finestrino.
Ci guardammo. Due mondi divisi da un vetro.
Io fuori, congelato. Lei dentro, in viaggio.

Abbassai il vetro. L’aria gelata mi tagliò le guance.
Giulia si avvicinò con il viso al suo finestrino. Aveva la fronte poggiata contro il vetro, le mani aperte come se potesse toccarmi da lì.

GIULIA (urlando piano):
“Scrivimi… anche se non ti rispondo subito.”

Il treno cominciò a muoversi. Lei camminò lungo il corridoio interno, seguendomi con lo sguardo mentre io camminavo sulla banchina. Non ci toccavamo.
Eppure, in quel momento, eravamo completamente intrecciati.

Il suo volto sparì dietro il bordo del vagone.
Il treno si allontanò.
Il rumore delle rotaie si dissolse nella sera.

Rimasi immobile sotto la neve.
Fiocchi larghi, lenti. Scendevano in silenzio, come parole mai dette.

Stringevo il foglio in mano.
Il calore della sua presenza era ancora lì, sulle dita.

Non lo aprii.

Perché sapevo che se lo avessi letto, sarebbe finito qualcosa.
Avrei fissato le parole, cercato significati, interpretato il tono. E tutto si sarebbe dissolto.

Meglio così.
Meglio conservare il mistero intero, come si conserva una foto che non si vuole rovinare con le dita.

Quello fu l’ultimo inverno con Giulia.
Poi venne il tempo degli orari diversi, delle nuove voci, delle lettere più rade.
Il tempo che divide, senza nemmeno chiederci il permesso.



III. La distanza che non torna

Gli anni ci hanno separati come due treni su linee diverse:
lei è finita a Vicenza, io a Milano.
All’inizio ci scrivevamo, ancora col cuore che batteva nella grafite.

Lettere piegate con cura, odore di carta nuova, segni rotondi pieni di esitazioni.
Ogni tanto, nel mezzo di frasi banali, compariva una domanda tagliente:

“Ti ricordi quel giorno al binario?”
“Anche da te è già arrivata la neve?”

Io rispondevo. Sempre.
Scrivevo la notte, nel silenzio della mia stanza, quando l’unico suono era il ticchettio del termosifone.

Col tempo, le lettere sono diventate più rade.
Poi più corte.
Poi più leggere.

Ogni stagione si faceva più breve.
Ogni parola meno urgente.
Le frasi si piegavano verso la gentilezza, poi verso la cortesia, poi verso il vuoto.

Come un campo lasciato a seccare.

Non so esattamente quando è successo, ma a un certo punto smettemmo di scriverci.
Nessuno lo decise. Non ci fu un litigio, una frattura, una scena.

Solo silenzio.

Un silenzio lungo, come la coda di un treno che continua a scorrere anche quando la locomotiva è già sparita dall’altra parte del viadotto.

“Ti scriverò più avanti, quando saprò cosa dire.”

Fu l’ultima frase che ricevetti da lei.
Poi — niente.
Anni di niente.

Una notte l’ho sognata.
Era in piedi su un binario deserto, senza orario.
Indossava il cappotto nero dell’ultima volta e teneva in mano un quaderno dalla copertina blu, pieno di angoli piegati.

Stava lì, ferma, con il vento che le spostava i capelli.
Io ero dietro il finestrino di un treno che partiva.

Provavo a urlare, ma nessun suono usciva.

Lei mi guardava. Solo quello. Non cercava di salire.
Non correva.
Non piangeva.

“Hai vissuto bene senza di me?”
“O ti sei solo abituato al mio silenzio?”

Mi svegliai con le mani vuote e la gola secca.

Mi capita spesso, nelle stazioni, di cercare volti che non ci sono.
Come se la memoria potesse piegare lo spazio.
Come se bastasse guardare abbastanza a lungo un binario perché lei compaia, magari con un caffè tra le mani e quel mezzo sorriso un po’ ironico.

Ma la distanza non torna.
Non torna mai.
Si allunga, si trasforma, si finge neve che cade piano.

E intanto, noi diventiamo adulti.

Ma dentro, in un punto preciso,
restiamo per sempre due ragazzini ai margini dell’inverno,
che si salutano con la mano
senza sapere che quello era l’ultimo giorno.


IV. Nel silenzio che mi conosce

Sono tornato dove tutto era cominciato.

Il passaggio a livello è ancora lì, ma le sbarre sono divelte e le rotaie mangiate dall’erba.
La cabina elettrica è murata, coperta di scritte.
Sulla panchina c’è una bottiglia vuota e un paio di guanti dimenticati.

Mi siedo.
Il legno è ruvido e umido. L’odore di ferro arrugginito, foglie marcite e fumo lontano mi entra nelle narici come una carezza sgradita ma familiare.

È tutto più piccolo di come lo ricordavo.
O forse sono io che sono cresciuto fuori misura per questi luoghi.

Mi accendo una sigaretta.
Il fumo sale in verticale, si arriccia e scompare nell’aria immobile.
Il cielo è di quel grigio uniforme che promette neve ma non mantiene.
Milano è lontana, Vicenza è più lontana ancora.
Ma lei… è lontana in un altro modo.
Un modo che non ha geografia.

“Bevevo silenziosamente whisky e ghiaccio.”

Così cominciava una delle poesie che non le ho mai letto.
Una sera, nel mio monolocale, l’avevo scritta tutta di getto.
Parlava di noi, dei sogni che si disgregano sotto le luci al neon, del silenzio che resta dopo una voce amata.

Ne ho scritte tante.
Ma lei non le ha mai lette.
E ora fanno parte di quel bagaglio che si tiene in fondo al cuore,
accanto alle cose che non si dicono più a nessuno.

Sento un rumore.
Passa un treno, lontano.
Non si ferma. Non si vede.
Solo il suo suono: un lamento nel ferro, un sussurro nel vento.

“Io ti ho sempre aspettato lì… anche se non tornavi.”

Questa frase mi torna in mente come se fosse stata sussurrata alle mie spalle.
Mi volto. Nessuno.

Eppure qualcosa resta.

Una forma.
Una presenza.
Forse è solo il ricordo che prende corpo per un attimo, giusto il tempo di dirti:
“Non mi hai mai davvero perso.
Sei solo passato oltre.”

Sfilo dal giubbotto il vecchio foglio che mi aveva dato quel giorno.
Non l’ho mai aperto. È ancora piegato in quattro, leggermente ingiallito ai bordi.

Per un momento mi chiedo se farlo.
Se violare quel piccolo altare di ciò che non è stato.
Ma poi lo rimetto via.

Preferisco il mistero alla delusione.
Preferisco credere che dentro ci sia ancora tutto:
un gesto, una parola, una mano tesa.

Perché nel silenzio che mi conosce,
nel vuoto in cui il tuo nome ancora risuona,
io ti trovo.

Anche se non ci sei.


V. Epilogo

È passato un anno da quel ritorno.

Il binario ora è stato coperto dall’asfalto.
Ci hanno costruito sopra una rotonda.
I treni non passano più. Neanche nel ricordo.

Ma io, a volte, ancora sogno Giulia.
Non come prima. Non nei sogni lucidi, rumorosi.
La sogno mentre cammina lontano, tra alberi sfocati e nebbia lieve.
Tiene qualcosa in mano. A volte un libro, a volte niente.

Non si volta mai.
Eppure so che mi ha visto.

Oggi ho aperto la lettera.
Seduto nella mia cucina, la pioggia contro il vetro, il tè freddo.
L’ho aperta con mani ferme, dopo tutto questo tempo.

Dentro non c’era molto.

Solo una frase, scritta in una calligrafia appena inclinata:

“Ci sono attese che non finiscono.
Ma anche se non torno, tu hai già il mio silenzio.”

E poi, piegato dentro il foglio, c’era un petalo di ciliegio.

Secco.
Fragile.
Leggerissimo.
Come la memoria.

L’ho tenuto sul palmo della mano per un istante.
Non sapevo se lasciarlo andare al vento o conservarlo in un libro, tra due pagine che non si rileggono mai.

Alla fine ho scelto il cassetto.

Non come chi conserva.
Ma come chi riconosce qualcosa.
Un tempo.
Un amore che non ha mai avuto bisogno di compiersi per esistere.

Ho spento la luce.
E mentre la sera si allargava nella stanza, ho capito che non serve chiudere tutto per andare avanti.

A volte, basta solo smettere di tornare.

E lasciar vivere quel silenzio
che ti conosce più di chiunque altro.



Treni che non si incrociano testo di R. E. Harlow
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