"E fatigari! Un si campa e panu e poesia!".
C'era una macchia d'umido sul soffitto, quasi un volto, sicuramente un volto, essenzialmente una macchia a forma di volto.
Per non sentire le urla del padre padrone, chiusa a chiave la porta della camera, sul materasso su rete traballante che chiamava letto, una rete zoppa da appoggiare ad angolo tra le pareti per non rischiare di cascare a terra nel sonno, una rete a ragnatela di metallo, con le molle da fachiro, lombrichi attorcinati che avevano mangiato duro tanto da farsi stitichi a reggere un materasso di nuvole bolsceviche a spasso in un cielo sempre più blu di un sole nascente che era lui stesso, disteso coi suoi pensieri surreali da confidare al volto sul soffitto che era, essenzialmente, una macchia.
Con le mani a mezzogiorno sul volante, la schiena curva nel gilet di raso accartocciato, la faccia protesa al parabrezza, Rino strizzava gli occhi e li scrociava senza ritmo per mantenersi vigile su quello stradone consolare: i lampioni erano impietosi, con le luci deboli che punivano i debosciati ancora a spasso nella notte che sfociava nell'aurora.
Nel seminterrato concesso come domicilio al portiere dello stabile, ci si sentiva sempre umidi; uscendo, si procedeva come lumache, con le antenne oculari che si sgranchivano alla luce.
Eppure, talvolta, era rassicurante come un nido, con la mamma ai fornelli a mugugnare qualche verso di canzoni popolari calabresi; lui ci infiocchettava qualche strofa senza senso, strimpellata alla chitarra e via: la casa si riempiva di risate in libertà e si poteva sognare la vita.
Senza lo sguardo severo del padre, si poteva sognare la vita.
Fatigari. Come se la vita fosse solo sudore e minestre calde e un bicchiere di vino.
Eh, ma così si tirava a campare; la rivoluzione incombeva nelle chiacchiere filosofiche dei giovani con i maglioni a dolce vita, e la vita non era dolce per molti, operai in lotta per i diritti, sbaraccati di periferia a fumarsi un'aspettativa, mogli e madri con i figli al collo e i biglietti della lotteria sul cuore, a tacere le preghiere e bisbigliare poche parole al cospetto degli uomini... Beati i fanti in marcia!
Vili maschi, inginocchiatevi a Berta filante, a Gianna la matta, alla soave Aida!
Era sempre più spesso ubriaco e la mente confondeva le strofe, guidando da solo sulla Nomentana, e forse avevano ragione che non ci si capiva niente nelle sue canzoni, da giullare-poeta-attivista-caimano...
Chi sei? Destra o sinistra? Borghese o proletario? Saggio o folle?
"Rino Gaetano", eccola la risposta.
Un nome e un cognome, essenzialmente. Com'erano stupide quelle domande.
Uno non può essere solo uno. I soldatini allineati erano caduti nel fuoco, liquefacendo il piombo, e le donne si spogliavano dei grembiuli e scioglievano i capelli, galoppando su destrieri focosi, gettando l'aspo nelle cantine, dove le macchie sul soffitto piagnucolavano l'abbandono.
La sua strada se l'era fatta a zig zag, tra il serio e il faceto, con il cilindro calcato sui capelli caotici e i gilet sciolti e le scarpe da ginnastica frenetiche sulle assi di legno o sul cemento budinoso.
Quando sogni, non hai tempo di aspettare.
"E fatigari!", brontolava il padre.
"Nun te reggae più!", sbraitava in risposta.
Gliel'avrebbe fatto vedere che aveva ragione a sognare. Gliel'aveva fatta vedere, effettivamente. Quel che era ieri sfumava nell'oggi e fortuna che un'auto aveva strombazzato per ridestarlo alla guida, altrimenti avrebbe investito il coccodrillo scappato dal comò, dove ammuffiva il corredo patriarcale allestito sin da bambino.
Ma quant'è bello ridere?
Lo era in compagnia degli amici, intorno ad un falò di fumo in canna di bambù e lo era con i soldi in tasca, tra i lustrini dei denti bianchi di chi amava la bella vita della nuova era e che, probabilmente, non aveva sentito le scintille della dolce vita sulla pelle.
Ridere è fare l'amore con i sogni, godere di altri occhi che sorridono nel riflesso di specchi deformi della realtà... Lo senti nello stomaco, quell'impulso a sganasciare le labbra camminando nel fango, come i bambini che non se ne curano, incoscienti della probabile vita in catena di montaggio....
Non tutti ce la fanno, non sarebbe equo; ci sono i fanti e ci sono i giullari, che sgambettano la verità ridendo dei sorrisi imbecilli di chi ascolta soltanto la musica e guarda il costume di stracci.
Non c'è soddisfazione più appagante di spargere semi di ironia nei solchi aridi di chi, del fatigari, ne ha fatto un marchio di arrivismo.
Perché, stiracchiando le spalle in posizione più eretta, Rino lo sapeva che l'unica fatica meritevole di sudore e lacrime era soltanto l'amore: a mano a mano, si sogna meglio, si sogna ancora.
Ronzii di api in calzamaglia sui papaveri alticci, in campi di nuvole sempre più blu nel cielo bianco, ché viceversa non è sbagliato, e la bellezza che muove al sorriso sfuma persino nei contorni frastagliati di una macchia d'umido sul soffitto, nel tempo in cui si ha fretta di avverare i sogni, orgogliosi dei propri pensieri che sono arte per se stessi e, per la maggior parte, non ci si capisce niente, come i deliri di un giovane sbronzo che si è tuffato dallo scoglio più alto del faggeto per sentirsela tutta la brezza del volo prima del tonfo nell'acqua profonda.
Non sfioriscono le viole votive sul viale violento.
"Vedo già la mia salma portata a spalle da gente che bestemmia che ce l'ha con me".
E Rino se la ride testo di Deaexmachina