§. Cicatrici

scritto da SenzaParole
Scritto 2 anni fa • Pubblicato 2 anni fa • Revisionato 2 anni fa
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Una cicatrice è qualcosa di più di un semplice taglio... sebbene resti, dopotutto, solo un taglio.
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Testo: §. Cicatrici
di SenzaParole

Quando avevo tredici anni la Luisa prese per mano il Robi, lo portò nel bosco dietro il monastero e gli fece vedere le tette. Erano tette piccole e a punta, che profumavano di mandorle e parevano fatte di polpa di pesche. Il Robi disse che erano le tette più belle che avesse mai visto, ma la Luisa non gliele aveva fatte toccare.

Ogni mattina io e lui prendevamo la bicicletta e ci facevamo la nostra buona pedalata fino alle scuole di Castelseprio. La strada ci prendeva sì e no un quarto d’ora, venti minuti a fare la melina; tutta in salita all’andata, tutta in discesa al ritorno. Parlavamo di calcio e altre faccende; soprattutto, parlavamo di ragazze. Il Robi era bello, tutto moro e alto e con gli occhi azzurri. Di ragazze ne capiva, perché se n’era già fatte un paio del primo anno. Io invece ero un pivello, ma sapevo ascoltare e nascondere l’invidia. 

Ogni mattina dunque ci facevamo la nostra buona pedalata: passavamo le ultime case di Torba, il ponte sull’Olona, la puzza dell’acqua nera e schiumosa e morta, il profumo delle felci. L’asfalto filava sgangherato sotto quelle ruote sottili. Arrivavamo a quella salita che dalla valle va su in cima e il Robi diceva: facciamo la gara. Ogni volta la stessa storia: la gara, la gara, facciamo la gara. Per il Robi la vita era sempre una gara.

Perdevo per vocazione; perdevo in salita e perdevo in discesa, perdevo all’andata e perdevo al ritorno. Perdevo sempre e mi venivano certi strizzoni da restarci secco. Il Robi vinceva e spernacchiava; mi gridava da lassù: ah, lumacone, faccia da culo, mangia la terra, mangia, mangia; oppure sentenziava serio: ascolta Fede, secondo me c’hai i freni rotti, secondo me ti frena da sola. Era così abituato a vincere, lui, e io a perdere, che in fondo penso lo desse per scontato. Il Robi aveva la bicicletta nuova di zecca, giocava nei Giovanissimi del Milan e la Luisa gli aveva fatto vedere le tette. Io ero molle e non avevo alcuna virtù; eccetto, ecco, un eterno raffreddore: una cosa affascinante dovuta all’aria malata dell’Olona. A nessuno importava un granché.

Certi pomeriggi, invece di tornare a casa ci sedevamo sopra un grande sasso in fondo alla discesa; facevamo merenda e ci raccontavamo cazzate. Era un sassone importante, alto un paio di metri e tutto chiazzato di licheni; sulla pancia aveva inchiodata una targhetta con la scritta MASSO ERRATICO, ma qualche buontempone ci aveva disegnato un cazzetto sgocciolante con un pennarello indelebile e aveva cambiato la E con una SBO.

Appollaiati sul masso come due cornacchie implumi si stava scomodi; bisognava fare attenzione alle scagazzate dei piccioni e con il caldo si aggiravano certe zanzare grasse come pantere che ti succhiavano via pure il cervello; ma a noi piaceva. Si vedeva tutta la strada: tutta la salita da percorrere il giorno dopo, tutta la discesa bruciata in mezzo minuto; tutte le persone che andavano e venivano e correvano, e chissà cosa pensavano ogni giorno in quel confuso andirivieni, quali sogni abbandonavano come figli sull’asfalto per non ricordarli mai più. La strada era una cicatrice grigia nel fianco aspro della collina. Noi ci ergevamo sopra tutto, indifferenti. Credevamo di non farne parte. 

Ci sbagliavamo.

Una mattina di maggio piovve tutta l’acqua del mondo. L’Olona gonfiò il petto e la strada si riempì di schiuma gialla e viola. Mia madre e quella del Robi avevano un accordo in questi casi: l’una ci accompagnava a scuola, l’altra ci veniva a recuperare. Quel mattino era il turno della mamma del Robi. 

Ricordo un particolare insignificante: aveva una lunga cicatrice sul dorso della mano. La vidi bene una volta arrivati, quando scendemmo dall'auto e lei si sporse dal finestrino per dare al Robi la sua sacca. Non so come si fosse procurata quella cicatrice o perché io la notassi solo quel giorno; il rosso acceso della sua linea sottile ardeva nella pioggia. Ci salutò e non la vidi mai più. 

Si schiantò contro il masso erratico e il collo le si spezzò come un grissino. Qualcuno chiamò i soccorsi, ma non ci fu nulla da fare. La pioggia cadeva attraverso il parabrezza sfondato e le inzuppava i capelli come fossero zolle di erba.

Quella mattina il preside in persona invitò il Robi ad uscire dalla classe; aveva in volto un’espressione grave, mentre il suo sguardo vagava tra noi giovani anime e pareva scoprire nei nostri occhi l’assurdità dell’esistenza. La mia preoccupazione divenne subito odio. Ecco che il Robi è di nuovo al centro, pensai, ecco che di nuovo tutti lo ammirano e io resto il solito cesso con il raffreddore. Solo dopo avrei saputo cosa fosse successo. Non riesco a perdonarmelo.

Con gli anni andammo via via perdendo la nostra amicizia, com’è nella natura delle cose quando si prendono strade diverse. Ci vedevamo sempre meno e ogni volta pareva che stessimo cercando un senso che l’altro non poteva capire. Cos’era mai? Eppure si percorre tutti la stessa strada.

Un conoscente comune mi disse che aveva iniziato a farsi di coca. L’aveva visto non lontano da quella discesa maledetta. Non è strano?, disse, va a drogarsi proprio sulla strada dov’è morta sua madre. Era strano, ma restai zitto. Non mi piacevano gli impiccioni. A quel punto avevamo già diciassette anni. Poi, un autunno venni a sapere che il Robi era in ospedale. Aveva fatto un incidente con la moto nello stesso punto in cui era morta sua mamma. La dinamica non era chiara, ma c’entrava la droga. Dovresti andare a trovarlo, mi disse mia madre, ha bisogno di parlare.

Non andai. Non volevo sentirlo dire che l’aveva fatto apposta. Invece andai al masso; mi ci arrampicai sopra e mi guardai intorno. Non sembrava più così alto e la strada - sì, la strada non aveva nulla di speciale. 

Ho rivisto il Robi di recente. Passeggiava nell'estate di Castelseprio con sua moglie e la loro bambina: camminava zoppicando e chiacchierava di qualcosa; sul volto, una cicatrice. Avrei voluto avvicinarmi e parlargli, ma non l’ho fatto. Sono rimasto nascosto. 

Sembrava felice.

§. Cicatrici testo di SenzaParole
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