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La città di sabbia
Era più di un anno che il volantino di una nuova competizione estrema passava di mano in mano tra i concorrenti delle più massacranti maratone.
Così, partecipare alla prima edizione dell’ultra-maratona del Sahara (cento chilometri in una sola tappa), era diventato il sogno proibito di ogni ultra-maratoneta che si rispetti.
Proibito non solo per l’impegno psicofisico, al limite delle possibilità umane; ma anche per gli alti costi che, tra iscrizione e tutto il resto, richiedeva la trasferta in terra d’Africa.
A costo di sacrifici non indifferenti, io e altri due ultra-maratoneti del mio gruppo, dopo aver salutato i parenti e gli altri amici del gruppo, che non riuscirono a nascondere una punta d’invidia, c’imbarcammo su un volo con destinazione… sogno!
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Poco prima del sorger del Sole eravamo schierati in quarantasette pazzi, dietro l’ipotetica linea di partenza tracciata sulla sabbia del deserto. Davanti a noi, a poco più di duecento metri, la prima delle innumerevoli dune da superare per giungere al traguardo.
E quando le prime luci dell’alba incendiarono il deserto, uno sparo diede inizio alla competizione.
Consapevoli del fatto che il primo dei due ristori l’avremmo trovato dopo circa trenta chilometri, ogni concorrente si era premurato di portarsi uno zaino, all’interno del quale, oltre al serbatoio idrico contenente due litri di acqua, avevano trovato posto ben sei borracce da mezzo litro contenenti sostanze energetiche e sali minerali. Inoltre, ad ogni concorrente, oltre alla bussola e alla raccomandazione di seguire costantemente il nord per non uscire dal tracciato, l’organizzazione aveva fornito un rilevatore satellitare, che sarebbe servito per recuperare chi, contravvenendo alle istruzioni o per qualsiasi altro accidente, si fosse perso nel deserto.
La sera precedente, studiando la tattica di gara, io, i miei due amici e altri otto maratoneti avevamo deciso di fare corsa di conserva, restando uniti almeno fino al secondo rifornimento: poi ognuno sarebbe stato libero di giocarsi le proprie carte.
Ma alla prova dei fatti, lo spirito competitivo prese il sopravvento, e già affrontando a passo di carica la prima delle numerose dune che attendevano di essere superate, il gruppetto che arrancava nella sabbia si era sparpagliato in ogni dove: e da lì in avanti “ognun per sé e Dio per tutti”!
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Il freddo intenso patito al raduno di partenza, dopo un paio d’ore era ormai un lontano ricordo: ora il deserto aveva assunto la sua dimensione di fornace di sabbia. I concorrenti davanti a me poche decine, cento metri al massimo, parevano forme liquide, vagamente antropomorfe, che si muovevano sopra un mare di sabbia dorata.
Sarà stato perché, per non perdere di vista gli altri, l’avevo preso troppo di petto il deserto; fatto sta che avevo già svuotato il serbatoio idrico dello zaino e ben tre delle sei borracce che contenevano sostanze energetiche e sali minerali.
No, non fu lo spirito competitivo a spingermi oltre i miei limiti, ma quello di sopravvivenza; dovuto al fatto che, dopo poco più di mezz’ora, controllando la bussola da polso mi ero accorto che l’ago aveva preso a sbattere a destra e sinistra come un pendolo impazzito. A quel punto avevo provato a gridare per attirare l’attenzione dei miei compagni d’avventura, distanti non più di cinquanta metri; ma quelli parvero, o forse finsero di non udire e continuarono mantenendo una cadenza asfissiante.
Ci misi poco a realizzare che se non volevo rischiare di perdermi in quel mare di sabbia, dovevo tenere un contatto visivo con chi mi precedeva, anche a costo di andare in acido lattico.
“In fondo si tratta di arrivare al primo rifornimento. A quel punto se riusciranno a sistemarmi o a sostituirmi la bussola, bene! Altrimenti mi ritirerò”, ragionavo deluso, pensando ai lunghi mesi di sacrifici che se ne stavano andando in fumo per una bussola difettosa.
Mentre arrancavo sull’ennesima duna, alzai lo sguardo per vedere dov’erano gli altri. Un sospiro di sollievo mi colse, notando i miei due amici che si sbracciavano, schierati sulla cresta della duna con altri cinque compagni d’avventura che, mentre mi attendevano, si stavano rifocillando. In quel preciso istante ebbi una strana visione; mi parve di vedere la duna gonfiarsi (come un polmone che inspira a fondo prima di espellere l’aria, mi sovviene con il senno di poi). Derubricai il tutto ad allucinazioni dovute alla stanchezza o alla rifrazione della luce sulla sabbia e avvertii gli altri che li avevo visti.
Feci appena in tempo ad alzare la mano per ringraziarli, quando un sibilo che si andava intensificando li fece voltare dall’altro lato della duna.
In pochi secondi il sibilo si fece assordante, raggiungendo l’intensità di un jet al decollo; fu questione di attimi, agghiaccianti, infiniti attimi.
Un vortice di sabbia immenso, nato dal nulla, oscurò il Sole, ingoiò l’intera duna e iniziò a centrifugare l’enorme quantità di sabbia che risucchiava insieme a tutti noi. Girando vorticosamente all’interno del vortice, mi parve di intravvedere molti altri maratoneti rotolare come fuscelli dentro quel girone infernale; il numero preciso non lo saprei quantificare, ma erano sicuramente più dei sette che mi attendevano in cima alla duna. Alcuni di loro, piroettandomi accanto, tendevano le mani, che invano cercavo di afferrare. Ci fu un momento in cui riuscii a sfiorare le dita che mi sfilavano davanti allo sguardo, non saprei dire a chi appartenessero (insieme al resto delle mani e agli avambracci furono l’unica parte anatomica che riconobbi dentro la tempesta di sabbia), ma subitamente il vortice le portò lontano. Poi svenni e non vidi e non udii più nulla.
Non saprei dire per quanto tempo rimasi steso supino, privo di sensi; sicuramente più di un’ora, stante il fatto che quando riaprii gli occhi la luce accecante del Sole, giunta allo zenit, mi costrinse a serrare repentinamente le palpebre (gli occhiali da sole che portavo fin dalla partenza si erano persi dentro il vortice). Ma potrebbe benissimo essere trascorso più di un intero giorno… o settimana… o mese, anno, secolo o millennio a ritroso nel tempo, mi sovviene ora, rammentando ciò che vidi e la successione dei fatti che mi appresto a narrare.
Piegando il capo a destra per non essere abbagliato provai a riaprire gli occhi. «Dove sono finito?!» esclamai spaventato. L’eco della mia voce che rimbalzava tra le pareti produsse un senso di soffocamento. Volgendo lo sguardo all’intorno con circospezione, mi chiedevo se stessi sognando. Dov’ero finito? Ma soprattutto: come c’ero finito in quel luogo che racchiudeva in sé un enorme, angosciante mistero?
Rammentavo una tempesta di sabbia, sorta dal nulla. Poi era stato come se l’intera duna avesse preso il volo centrifugando uomini e cose che si trovavano nel raggio d’azione dell’immenso vortice.
Ero sconvolto, sconvolto e terrorizzato. Dovevo uscire dall’incubo in cui ero precipitato. Sì, ma come?
Tanto per cominciare dovevo guardarmi attorno, per capire dove mi trovassi esattamente e fare il punto.
Dopo aver assunto la posizione eretta mi misi ad osservare con attenzione la parete alla mia destra, alta almeno una cinquantina di metri. «Una città scavata nella roccia! Sembra di stare a Petra!» fu la prima impressione, notando che nelle pareti erano state scolpite numerose facciate di templi e palazzi… Almeno, così credetti di primo acchito per il colore simile alla pietra calcarea dentro la quale i nabatei avevano scolpito le monumentali facciate della loro meravigliosa città. Volsi lo sguardo a sinistra, altre facciate di templi incombevano sulla via. Feci un passo in direzione della parete, volevo toccare con mano la consistenza della roccia. Ma subitamente mi arrestai. “Meglio girare al largo e dare un’occhiata senza toccare”, disse una voce dentro di me, dopo che, guardando in alto, vidi una cascatella di sabbia, forse spinta dal vento, scendere dal bordo della parete.
A differenza di Petra, che avevo visitato tre anni prima, qui le aperture erano tutte cieche. Non c’era modo di entrare negli edifici; per il semplice motivo che non si trattava di costruzioni destinate ad essere abitate, ma di bassorilievi scolpiti su quelle pareti, perfettamente verticali e lisce come mai mi era stato dato di vedere prima d’allora.
Pareti prive di appigli, impossibili da scalare. Dunque, se volevo uscire da quella specie di labirinto, dovevo inoltrarmi nelle vie che s’intrecciavano geometricamente.
Percorrendo quello che, per dimensioni, giudicai il corso principale con gli occhi sgranati sui meravigliosi scenari che si aprivano ad ogni passo, mi accorsi che anche sulle vie che intersecavano il corso incombevano facciate monumentali. «Bassorilievi, di questo si tratta!», realizzai, notando le sporgenze che davano origine a colonne, frontoni, architravi e alle nicchie delle finestre cieche ricavate nello spessore delle pareti. «Pazzesco! Qualche civiltà remota si è divertita a creare l’immagine tridimensionale di un’intera città… a quale scopo?» mi domandai, non trovando ancora il coraggio di toccare con mano quelle autentiche opere d’arte.
Ci avrei pensato in seguito, ora il problema impellente era la scarsità di acqua (mi erano rimaste tre borracce contenenti sali minerali, ma quelle dissetavano poco o niente). Controllai la bussola da polso: l’ago pareva aver smesso di fare le bizze. Così decisi di seguire il nord, sperando, una volta uscito dal labirinto di vie e lasciata alle spalle la città fantasma, di poter raggiungere il primo posto di ristoro.
«Trovare acqua dentro questo labirinto di sabbia, è come cercare un ago in un pagliaio», tirai le somme, incamminandomi.
Camminavo con fare circospetto da una ventina di minuti lungo l’ampia strada che pareva non aver fine, quando mi accorsi che la mia ombra era sempre ridotta a una piccola chiazza scura sulla sabbia attorno ai miei piedi. Volsi lo sguardo a destra, a sinistra e anche nelle vie laterali: le pareti non proiettavano ombre. Era come se il Sole, fermandosi allo zenit, si comportasse come un lampadario posto al centro di un grande salone vuoto. Un salone immenso, un’opera titanica al cui confronto le piramidi sembravano costruite incastrando uno sull’altro dei mattoncini Lego; e l’esercito di terracotta del primo imperatore della Cina, una scatola di soldatini di piombo.
Arrestandomi ad ogni incrocio con le vie laterali, controllavo sulla bussola la direzione da seguire: l’ago indicava sempre e comunque di proseguire lungo la direttrice del corso principale, se volevo andare a nord.
A un certo punto, in mezzo alla via vidi ergersi una fontana: la figura di un vecchio piegato dal peso degli anni, osservava con occhi avidi il rivolo d’acqua che, sgorgando dall’anfora che reggeva sulla spalla destra, si perdeva nella sabbia.
“Un miraggio”, pensai di primo acchito. Ma la sete era tanta, troppa per resistere chissà per quanto altro tempo prima di trovarne dell’altra. E io avevo ormai finito la scorta nello zaino. Così mi avvicinai con circospezione, passai l’indice sotto il rivolo. «Dio, ti ringrazio», dissi in un sospiro, constatando che non si trattava di un miraggio. L’annusai e la tastai passandolo sulle labbra; infine, mettendo le mani a giumella, senza stare a pensare che potesse essere acqua infetta, mi dissetai. L’acqua era meravigliosamente fresca, la migliore che abbia mai bevuto. Appurato ciò, tolsi lo zaino dalle spalle e riempii il serbatoio dell’acqua che si trovava al suo interno. Mentre rimettevo lo zaino in spalla, mi scoprii per la prima volta a osservare la strada lasciata alle spalle.
Un brivido mi colse, volgendomi a guardare le facciate degli edifici osservati poc’anzi.
Ora dai bassorilievi che disegnavano finestre e portali, sporgevano degli altorilievi: delle figure grottesche che sembravano puntare i loro sguardi inquietanti su di me. Demoni, orribili demoni, non saprei come altro definire quei volti ghignanti.
Arretrando spaventato senza distogliere gli occhi agghiacciati dal pericolo che mi stava davanti, finii per incocciare la fontana. Volgendomi di scatto, potei assistere a qualcosa d’incredibile, che ancora oggi, a distanza di mesi, tormenta le mie notti insonni: l’acqua che sgorgava limpida dalla brocca mutò in finissima polvere d’oro, che cadendo si trasformava in sabbia e si ammonticchiava, come all’interno di una clessidra, ai piedi del vecchio, che ora pareva guardare sgomento il mucchietto che andava crescendo. E quando finì di sgorgare, l’intero manufatto collassò su sé stesso, lasciando un mucchio di sabbia in mezzo alla via. Questo e null’altro, era rimasto della zampillante fontana!
Abbassandomi ne presi una manciata. «Oro!» esclamai stupefatto, sgranando gli occhi, vedendolo brillare sul palmo della mano. «Sabbia! Finissima sabbia!» realizzai deluso, guardando l’oro scorrere fra le dita e mutare in sabbia mentre toccava terra.
«Dove sono finito? Non c’è nessuno? Maledizione!» urlai a squarciagola in ogni direzione. L’eco rimbalzando tra le pareti si fece insopportabile. Cascatelle di sabbia iniziarono a scendere lungo le monumentali facciate. «Ed ora? Cosa succede?» mi chiesi terrorizzato.
Guardando una delle figure grottesche colpite dall’onda sonora dell’eco sciogliersi come neve al sole, lasciando un mucchietto di sabbia sulla via, ebbi l’illuminazione. “Non è roccia, ma sabbia… queste meravigliose sculture sono ricavate in pareti di sabbia in equilibrio precario”, ragionavo, badando bene di non pronunciare verbo, avendo ormai appurato che l’eco prodotto dal suono della voce avrebbe potuto far collassare tutto quanto come un castello di carte, seppellendomi sotto una montagna di sabbia.
Prima di decidere il da farsi, dovevo verificare se quello che avevo teorizzato corrispondesse al vero.
Gettai lo sguardo sulle figure grottesche ritratte negli altorilievi affacciati ai portali dei templi. Mi avvicinai con circospezione ad una figura antropomorfa con il volto da rettile (così lo giudicai, vista la somiglianza con il muso affilato di un coccodrillo con le fauci spalancate), avvicinai lo sguardo a quel volto demoniaco: la compattezza poteva ingannare, ma allo stesso tempo poteva far dubitare sulla reale consistenza della materia. Allungai lo sguardo lungo la parete. “Troppo liscia, troppo perfetta, sembra fatta di cemento colato dentro delle casseforme”, ragionai. Guardai un’altra figura grottesca, tentennai un attimo, poi allungai la mano… come accarezzai il becco rapace di un grande uccello che pareva voler spiccare il volo, l’intera figura parve sciogliersi: lentamente e silenziosamente, iniziando dal becco, un rivolo di sabbia iniziò a cadere a terra. Trenta secondi dopo, l’intera scultura era ridotta a un mucchio di sabbia che giaceva ai miei piedi!
Guardavo sgomento le figure demoniache che ancora incombevano sopra di me, domandandomi come potesse della semplice sabbia appesa a dell’altra sabbia vincere la forza di gravità.
Ancora incredulo sul fatto che una civiltà, o entità misteriosa, accatastando in modo ordinato un numero infinito di granelli di sabbia fosse riuscita a creare una simile meraviglia, affondai la mano nella parete. «Sabbia!», mi sfuggì detto, ritraendomi istintivamente e precipitosamente dalla parete.
Volgendo lo sguardo sgomento dal basso in alto e poi da destra verso sinistra, assistetti inerme, in un silenzio tombale, al disfacimento di una porzione della parete. In principio furono le figure grottesche a polverizzarsi, seguite dal timpano, dalle colonne e dalle nicchie del tempio. Tutto avvenne in poco più di un minuto. Dopodiché ci fu una breve pausa… Poi, un fruscio sinistro trascinò giù l’intera parete dove poco prima faceva bella mostra di sé la facciata del tempio.
Ma quello era solo l’inizio, lanciando lo sguardo lungo la via, mi accorsi che tutte figure grottesche si stavano sbriciolando. Allora realizzai che ben presto, della meravigliosa città di sabbia non sarebbe rimasto traccia, e che se non volevo essere sepolto sotto la sabbia dovevo cercare una via di fuga. «Per di qua!» esclamai, incitandomi, iniziando ad arrampicarmi sulla parete franata. Arrancando a fatica sulla sabbia che aveva creato una specie di ripido scivolo, lanciai un’occhiata verso il basso: degli altorilievi grotteschi non v’era più traccia, ora toccava ai templi, poi l’intero complesso sarebbe collassato.
Ansimando di fatica e terrore, guardai in su: non ce l’avrei mai fatta giungere in cima.
Fu in quel momento che udii le urla strazianti giungere da quella sotto di me e dalle altre strade dentro cui stavano collassando le monumentali pareti di sabbia. Mettendo bene a fuoco due figure che arrancavano in mezzo alla sabbia che, ora, forse perché spinta dall’eco delle urla franava molto più velocemente, mi parve di individuare due maratoneti. “Quanti ne saranno rimasti là sotto?”, mi chiedevo continuando ad arrampicarmi verso la salvezza. Ma la sabbia, continuando a scivolare verso il basso mi trascinava con sé. Continuai a nuotare, ad annaspare affannosamente in quel mare di sabbia, finché esausto, a ormai pochi metri dalla salvezza, svenni.
Mi svegliò il rumore delle pale di un elicottero in volo. Aprii gli occhi, ero steso su una barella a bordo del velivolo. I soccorritori, giunti con l’elicottero seguendo il segnale del rilevatore satellitare, mi spiegarono di avermi trovato quasi in cima alla duna, con il corpo completamente sepolto nella sabbia.
Una volta raggiunto il campo base, gli organizzatori mi informarono che, dopo che eravamo partiti, i rilevatori satellitari di tutti i maratoneti avevano smesso di funzionare per alcune ore; poi il mio aveva ripreso a funzionare, segnalando la mia presenza in un punto parecchie miglia fuori dal percorso.
E quando domandai dov’erano i miei amici, mi risposero che degli altri concorrenti avevano perso le tracce, ma che li stavano cercando battendo il deserto con gli elicotteri dell’esercito.
Allora, agitandomi, insistetti perché scavassero in profondità nel punto dove mi avevano ritrovato, perché gli altri, tutti gli altri, erano là sotto, sepolti dalla frana che aveva cancellato la città di sabbia.
I miei interlocutori reagirono guardandosi l’un l’altro, perplessi e straniti. A quel punto, pur mettendo in conto di essere preso per un allucinato, se non pazzo del tutto, raccontai loro l’intera storia.
Quando ebbi concluso il racconto, mi spiegarono che non c’era stata nessuna tempesta di sabbia, che la duna dove mi avevano trovato, la più alta e vasta di tutto il Sahara, stava lì dal tempo dei tempi, che presso i Tuareg era conosciuta come “la sorgente del deserto”, perché un’antica leggenda recitava che da lì, l’acqua aveva cominciato a mutare, prima in oro, poi in sabbia e che: «… probabilmente, lei necessita di un lungo periodo di riposo!» conclusero con un fare poco tranquillizzante.
Fu quel poco rassicurante “probabilmente”, dal sapore di qualcosa di molto peggio di quello che mi era capitato, a convincermi a non insistere oltre e firmare i documenti che sollevarono dottori e organizzatori da ogni responsabilità, prima di prendere la mia roba e farmi accompagnare in albergo.
Il volo di ritorno era fissato per l’indomani, così, dovendo trascorrere un’altra giornata nell’albergo, colsi l’occasione per informarmi sulla leggenda, chiedendo lumi al proprietario. L’uomo, un vecchio berbero, conosceva gran parte delle storie tramandate oralmente dalle tribù nomadi, e fu ben lieto, offrendomi anche una tazza di tè, di narrarmi l’intera leggenda.
Riassumendo in breve: la leggenda, ricca di particolari che mi videro pendere dalle labbra di quel vecchio per una buona mezz’ora, narrava della cacciata di Herat e un pugno di contadini ribelli dalla terra dell’abbondanza dopo che si erano rivolti al governatore per ottenere il giusto compenso per il lavoro svolto. Al che, il governatore li relegò in una valle arida, garantendo loro che avrebbero potuto tenere per sé ogni frutto che sarebbero riusciti a ricavare dalla terra.
Dopo aver rassodato inutilmente la terra per più di due anni, nutrendosi di radici e razionando la poca acqua che un torrente portava a valle, stremati e delusi si riunirono per decidere se tornare a capo chino a implorare il perdono dal governatore.
Ma Herat si oppose fermamente, e convinse anche gli altri ad attendere almeno la prossima stagione della semina. Poi si ritirò nella sua capanna e pregò per sette giorni e sette notti il dio delle acque, promettendogli che se avesse reso fertile la valle, avrebbe fondato una città e innalzato templi in suo onore.
La notte del settimo giorno, il dio delle acque gli apparve in sogno e gli spiegò che fuori dalla sua capanna avrebbe fatto sgorgare una fonte, dove lui avrebbe dovuto attingere per fornire una brocca d’acqua al giorno per ogni uomo, donna e bambino. Herat obiettò che una brocca d’acqua al giorno sarebbe stata assorbita dalla terra riarsa senza lasciare traccia. Al che il dio delle acque lo redarguì duramente, dicendogli che se all’acqua avesse aggiunto la fede, una brocca al giorno sarebbe stata più che sufficiente. E così fu.
Una valle così rigogliosa non si era mai vista, giungevano tribù da ogni dove per coltivare la terra, portando con sé, insieme a tende e masserizie, la brocca della giusta misura per raccogliere l’acqua della fonte miracolosa.
Nel frattempo Herat si era fatto avido. Dopo aver cintato con alte e spesse mura di pietra la sua proprietà, aveva iniziato a chiedere una moneta d’oro per ogni brocca della sua acqua. Poi, di fronte alle rimostranze dei contadini, aveva ingaggiato dei guardiani armati fino ai denti per proteggere i suoi possedimenti. Infine aveva iniziato a vendere l’acqua in quantità industriale ai carovanieri provenienti dalle altre valli.
Divenuto ricco, ricchissimo, convinse gli altri contadini che coltivare la terra era comunque un lavoro duro, e che vendere l’acqua miracolosa fuori dalla valle li avrebbe arricchiti senza spaccarsi la schiena.
E fu così che i contadini divennero mercanti e si recarono in ogni dove a vendere l’acqua della fonte di Herat. E sulla terra ubertosa iniziarono a erigere la città dei mille templi dedicati al dio delle acque.
Ma non era quello il desiderio del dio delle acque, esso aveva regalato la fonte miracolosa all’uomo perché condividesse l’acqua, nella giusta misura, con chiunque l’avesse richiesta, senza pretendere in cambio null’altro che la promessa che sarebbe stata usata per rendere fertili le terre aride. L’arricchimento personale non era contemplato nel patto stretto tra Herat e il dio delle acque. E questo scatenò l’ira tremenda del dio, che punì duramente l’uomo.
Una mattina, recandosi a rimirare la fonte, Herat cadde in ginocchio e, volgendo gli occhi al cielo, ringrazio il dio che aveva mutato l’acqua che zampillava dalla fonte in polvere d’oro. Fu di breve durata la gioia di Herat. Abbassando lo sguardo vide che la polvere d’oro toccando il suolo diventava sabbia. Sabbia gialla e finissima.
Pregò Herat, implorando il dio delle acque di non mutare l’oro in sabbia, per sette giorni e sette notti. Ma la sua era una perorazione dettata dall’avidità, e il dio non l’ascoltò. Se avesse chiesto di mutare l’oro in acqua, probabilmente il dio gli avrebbe offerto una seconda possibilità. Ma Herat era ormai schiavo del giallo metallo. E così la fonte continuò ad eruttare polvere d’oro, che toccando il suolo mutava in sabbia gialla, per mesi, anni e secoli; fino a quando, spinta da venti impetuosi, non ebbe ricoperto l’intera valle e le altre terre che avevano acquistato dai mercanti la magica acqua. E quando la fonte cessò di zampillare, là dove si distendevano fertili valli non rimase che un’immensa distesa di sabbia, che gli uomini avrebbero chiamato Sahara.
La leggenda si concludeva spiegando che Herat lasciò la valle con un carro pieno d’oro, ma quando scoprì il carro per mostrare al governatore l’oro con cui intendeva riscattarsi, non trovò null’altro che sabbia.
Fu così che, cacciato con ignominia, d’allora Herat vagò ramingo per il resto dei suoi giorni di città in citta, senza mai trovare asilo.
Ora tutto mi era chiaro. Se la leggenda aveva un fondo di verità, quella misteriosa tempesta di sabbia mi aveva precipitato dentro quel che restava della città perduta fondata da Herat, le cui pietre consumate dal tempo erano mutate in friabile sabbia.
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E’ passato più di un anno. Dei miei amici e degli altri maratoneti non si è trovata più traccia. La faccenda, trattata inizialmente come misteriosa e inspiegabile, viene ora descritta dai giornali come: inspiegabile fino a un certo punto, si sa che nel deserto ci si può smarrire.
Ci hanno costruito sopra inchieste di successo, sull’argomento. Ma io, nonostante l’ottimo tornaconto economico, non ho mai accettato di partecipare a nessun dibattito… cosa avrei potuto dire? Raccontare la mia storia, per non essere creduto, compatito come un pazzo visionario, se non addirittura deriso?
E anche se mi presentassi mostrando la prova provata di quel che vado affermando (prova che ancora conservo e per esser certo di non essere impazzito ogni tanto tiro fuori dal baule e vado a toccare con mano), loro, quelli che la sanno sempre più lunga perché hanno studiato, indagato, vagliato e tu hai solamente corso nel deserto sbagliando pure strada, mi tratterebbero come un imbroglione che ha riempito il serbatoio dello zaino di sabbia, al solo, lurido scopo di lucrare un qualche tornaconto da una tragedia che ha coinvolto quei poveri maratoneti e le loro famiglie.
Ma il vero motivo per il quale passo i miei giorni inquieti a vegliare il baule, è che dentro lo zaino c’è il mio prezioso tesoro. Sì, a prima vista può sembrare sabbia gialla, ma se ne prendi una manciata e la osservi attentamente… lei diventa quello che hai sempre desiderato possedere… oro, oro puro… e allora ti senti inebriare… sei ricco, ricchissimo… e pazienza se quando la rimetti nello zaino, torna ad essere sabbia.
FINE