"La morte a Venezia" di Thomas Mann.

scritto da Ani
Scritto 14 anni fa • Pubblicato 14 anni fa • Revisionato 14 anni fa
0 0 0

Autore del testo

Immagine di Ani
An
Autore del testo Ani

Testo: "La morte a Venezia" di Thomas Mann.
di Ani

La morte a Venezia è un breve racconto che si legge tutto d'un fiato. La narrazione è tanto scorrevole e il racconto sì breve che lo si può divorare in un giorno. Breve quanto avvincente, a tratti entusiasmante, è in grado di trasportare il lettore in un'Europa che non c'è più, in cui ci si muove col vapore, al mare ci vanno solo i ricchi, e gli ospedali odorano di acido fenico, un'eredità della chimica pasteuriana. Il Novecento è alle porte e a breve, guidato dal progresso tecnologico, che acquista una velocità disumana, spazzerà via le convenzioni e le certezze antiche, portando al naufragio la società degli uomini e gli dei in cui credono. Nel racconto, all'alba di una guerra che per la prima volta nella travagliata storia dell'uomo assume dimensioni planetarie, si respira questo senso di precarietà e lo si vive nel tormentato rapporto del protagonista con il mondo che lo circonda; con la natura madre e matrigna, che inizialmente cerca di fuggire e finalmente finisce per abbracciare, abbandonando ogni remora morale. E la Natura è la vera protagonista di questo libro; essa con la sua forza irrefrenabile e ferina travolge il poeta e lo porta sulla soglia della follia, stravolgendone la personalità, privandolo a tratti della dignità, costringendolo ad atteggiamenti non consoni a un uomo attempato e a uno stimato scrittore, che ha fatto della ragione e della morigeratezza i suoi più importanti precetti di vita. Il protagonista, accecato da una passione impetuosa come le onde del mare in burrasca, cede di fronte ad essa e vi si lascia travolgere come un adolescente che scopre l'amore per la prima volte e ne resta sconvolto. È un colpo di fulmine vero e proprio quello che colpisce Aschenbach, il cui nome, Gustav, viene citato pochissime volte come fosse un'appendice superflua, una confidenza da non prendersi al cospetto di un distinto e stimato scrittore; è un amore potente e vorticoso, nonostante sia platonico e i due innamorati non si scambino una sola parola. La bellezza efebica di Tadzio, il giovane polacco, oggetto del desiderio dell'anziano innamorato, risveglia in quest'ultimo sensazioni assopite dalla rigida disciplina cui si era sottoposto fin da ragazzo; sensazioni che diventano infine una vera e propria ossessione che lo spinge a pedinare l'amato nelle sue passeggiate veneziane, e a ricorrerre al belletto per sembrare più attraente, divenendo in tutto e per tutto uguale a quel finto giovane, incontrato sul battello a vapore in partenza da Pola, che all'inizio del racconto lo aveva fatto inorridire. In quell'occasione ebbe modo di deplorare l'atteggiamento del vegliardo, risultato a suo giudizio sgradevole e ridicolo nel suo intento di imitare l'aspetto e gli atteggiamenti dei giovani, salvo poi comportarsi nello stesso modo nel tentativo estremo di cristallizzare il tempo. Ma non basta un po' di cipria per cancellarne i segni, e il confronto continuo con la perfezione fanciullesca dell'adone Tadzio è disarmante: Aschenbach sa che essa è un anelito irraggiungibile ma si accontenta di nutrirsi di quel desiderio, assaporando in silenzio l'attesa anche solo di uno scambio di sguardi. Sullo sfondo una Venezia esotica e sensuale, ma al contempo asfissiata e asfissiante, sciroccosa e putrida dalla quale più volte il protagonista è tentato di andarsene. Ma non lo farà; resterà, rapito dal fascino della Dominante e trattenuto da un amore sempre più intenso, che nello scenario del lussuoso albergo Excelsior del Lido, assume i tratti di un sogno meraviglioso in cui Aschenbach si lascia cadere, cullato dalle placide acque lagunari. Immerso nell'ozio e nei vagheggiamenti amorosi perde progressivamente il contatto con il mondo da cui proviene, pieno di doveri e indugi e si dedica con tutto se stesso alla contemplazione della bellezza, incarnata da Tadzio. Tadzio risponde perfettamente ai canoni classici di bellezza, e la classicità permea tutto il racconto: esce prepotentemente nel rapporto tra i due amanti, che è modellato sul rapporto pederastico, un caposaldo del sistema educativo greco, ed erompe ancora più sferzante nel continuo scontro tra ragione e istinto, che non sono altri che lo spirito apollineo e dionisiaco di greca memoria e tanto cari a un altro grande rappresentante del Decadentismo europeo, Friedrich Nietzsche. Aschenbach, come una brocca vuota, si lascia riempire da questo sentimento che lo vivifica e lo ispira: è bellezza; è arte allo stato puro; è vita. È vita in una città morente, ammorbata dal colera e dalla cupidigia delle autorità che cercano di occultare la presenza dell'epidemia per evitare il fuggi fuggi dei turisti e la sottrazione del loro prezioso denaro. Ma ad Aschenbach non interessa il colera; non gli interessa altri che Tadzio, e la paura di perderlo gli impedisce di avvisare la famiglia polacca della pericolosità del morbo che si fa strada tra le calli e i canali della città lagunare. Nel giorno della partenza dei polacchi e di Tadzio, già febbricitante, si spegne sulla spiaggia facendo l'unica cosa in grado di farlo sentire vivo; ammirare la perfetta bellezza del fanciullo e amarlo in silenzio. Ma la morte a Venezia non è soltanto la dipartita fisica di un uomo; è soprattutto la morte della ragione dell'artista, indebolitasi e poi annullatasi nell'emozionante scoperta del bello.
"La morte a Venezia" di Thomas Mann. testo di Ani
0