Notturno all'Aurora (elegia in verde)

scritto da sarrasani
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Il piemontese qua e la' non dovrebbe essere un grosso problema. Il grosso problema e' semmai l'insieme.........ma abbiate pazienza, se volete. Scuse piu' contrite agli amanti del nobile gioco del biliardo.
- Nota dell'autore sarrasani

Testo: Notturno all'Aurora (elegia in verde)
di sarrasani

Non d'api un canto, ma rantolo rauco
D'un neon morente su l'AURORA, insegna stanca.
E dentro, torpidi miasmi: sigarette
Senza stemma alcuno, fondi di caffè rappreso, l'aspro
Alito caldo del whisky plebeo, bevuto piano.
E talvolta, più greve, un'ombra d'aglio
Che aleggia – fu bagna caoda? o verde bagnet fitto? –
Ma nessuno accusa, ché il fiato è comune male
In questo limbo dove il tempo macera.

Al centro, altare basso a un dio smunto,
Il biliardo: verde catafalco liso,
Mappa lunare di fallite imprese, rotte cieche,
Gesso consunto come ossa di speranze.

Tre vite curve su quel panno stanco,
Fili spezzati appesi alla stecca inutile.
Nino, la voce un impasto di fumo e nebbia
(Fumo che fu tabacco fuorilegge, arte minore,
Poi l'Emporio sfatto in sei lune, polvere su polvere)
Re di lazzi sfioriti e tiri storti.
Ricorda – ghigno amaro – Loredana, finta ungherese,
Messa in palio (per burla, giurò poi rosso in viso)
Su una tre-sponde da stregone, tiro d'azzardo puro.

Franco, pupille a spiare vie di fuga, l'uscita sempre in vista,
Il tradimento come un sesto senso affinato negli anni.
(Lui vinse il tiro! Arcana carambola perfetta! La Loredana sua!
Per sentirsi poi ridere in faccia: "Scherzavo, è ovvio, Franco!")
Il gelo d'allora non scioglie, neanche il ricordo umido

della sua impresa : “lumache bio”
affogate nel primo serio acquazzone.
Il suo dettato, stilla lenta di veleno antico:
"Na bruta bestia, sai, la sorte. Illude, pö a 't pianta 'n bel sgiaflun!"

E Giorgio, massa grave contro il muro, mani di terra e calli,
Odor di chiuso e d'aia sulla pelle logora.
Lui, Giorgio, avvezzo a misurare il buono
Col palmo della mano, a fiuto, a sapore rude,
Non col gelido squadro dell'ASL venuta un'alba grigia.
La sua bottega – oh, il nome, quasi una sfida!
“Prodotti Nostrani”! – tradita forse dall’ombra
D'un salame troppo franco, o dalla traccia lieve
D’un topo amico tra le forme stanche del formaggio.
Chiusa. Caduta. Croce di sigilli sulla porta vana.
Resta solo il sarcasmo amaro d'un “nostrano”
Che nulla può contro la norma scritta, il pulito senza anima.


Lui, che talvolta ancora evoca gesta epiche
Da mezz'ala sui campi spelacchiati, lanci da eroe.
("Macché ala! T'j eri lì mac a porté ij boraccin!", sibila Nino,                                   (eri solo li' a portare le borracce)
"Mancu stimà da lo sio ch'a l'era l'alenatùr!").                                                           (nemmeno stimato dallo zio che era l'allenatore)
Giorgio s'offende, un broncio antico sotto i baffi.
E più cocente brucia un altro scorno:
Quella sera lontana, alla "Speranza", balera fumosa,
Lui e Nino, giovani galli da combattimento provinciale,
Si misuravano con occhiate torve, quasi guerrieri antichi
Pronti al singolar tenzone per l'onore e la dama...
Ma fu lei, Sandra, con la sua indifferenza regale e tagliente,
A disinnescare l'epica fasulla, la tensione grottesca.
"Ma ch'i seve si doi pover Crist?", disse, voltando le spalle.
"Për piasì, feime nen perde temp! Ch'a val nen la pen-a!"
Lo scorno! Freddo, pubblico, senza appello.
Resta il maiale, l'unica certezza grassa.
Resta la terra muta, la pansa ch'a veul mangè.
E il suo mantra lento: "A venta avej pasinsia..."

Giocano adesso per vincere nulla,
Un caffè d'ombra, un whisky chimerico e leggero,
Ché il contante è spettro tra le mani vuote da anni.
Solo la noia spinge le biglie d'avorio falso
Su rotte pigre, traiettorie scartate.

Ma ecco Nino curvo, l'occhio s'accende febbrile
Sulla palla facile, invitante, bottino a un passo.
Si china, un movimento ampio, quasi una preghiera,
Un sussurro roco quasi promessa a sé, all'universo stolto:
"Costa-sì... regalà... si j'e' l'giust!" L'intento vibra nell'aria...               (si j'e' l'giust, cioe' qui ci sono da guadagnare molti punti)
Zàaac! – netto, beffardo, definitivo, il suono lacera
La stoffa stanca sul dorso dei calzoni, squarcio impudico!
Silenzio attonito. Poi Franco, un ghigno che si allarga:
"Oh, Ninin! T'hai propi fàit 'na bela figura! S'végg la candida!"              (la candida e' da intendersi come il bianco della mutanda)
Giorgio soffoca una risata nel pugno calloso.
Nino, purpureo non di sforzo ma di mortale vergogna,
Scaglia la stecca con gesto rabbioso e cieco: la biglia impazza,
Scheggia contro la sponda, urta scomposta le sorelle inerti
In un cozzo osceno e vile, nega ogni disegno,
Muore inerte nell'angolo più oscuro del dileggio muto.

Eppure... oltre il velo (di perline consunte, tintinnanti?
O tenda greve e muta, che nasconde e giudica?)
Si svolge un rito antico – forse pinnacolo –
Sommesse le voci, solo il frusciar di carte
Nella sala attigua dove stanno le Dame. Figure immobili?
Presenze assorte? Il loro mistero resta intatto,
Un'isola di silenzio nel mare basso delle vite altrui.
Nessuno osa guardare. La loro concentrazione arcana grava,
Custode invisibile d'un ultimo, superstite ritegno.
Frena la lingua scurrile, ammutolisce il grido,
Soffoca la bestemmia in gola, salva l'aria greve.

Ma stride voce nota, familiare e ruvida come carta vetrata:
Beppe. Caronte curvo e stanco del locale alla deriva.
"La pasinsia l'è finìa, fiöi! A cà! Ch'i saro baraca!"                                    (saro, cioe' chiudo la baracca)
Cala il sipario logoro sulla sera sempre uguale.

Raccolgon lenti le consunte spoglie, poveri gusci vuoti,
Giacche sdrucite testimoni di troppe stagioni magre,
Ombre informi di cappelli. E all'uscire, al rito
Dello "segnare", l'obolo stentato,
La voce di Beppe, senza calore, punta di spillo:
"Sì, segno... tutto... Ma... col débit vej...? Quella
Vecchia ferita sempre lì, che spura sotto la crosta...?
Quella muffa sul conto... Nen sempe lì a speté la Providensa, no?"
Altra ombra, l'ennesima, sul conto aperto.
Ma un'ombra forse meno greve, stanotte.

"Vughuma duman", un soffio nella porta che si chiude,                                                    (vediamo domani)
non più rassegnato, quasi interrogativo.
Fuori è la nebbia, Asti disfatta e molle,
Ma forse dietro il grigio c'è pur sempre un cielo.
"S'a piöv nen... e s'a gira bin,"                                                                                                (se non piove, e se gira bene)
Sussurra Giorgio, più speranza che certezza.
"Vughuma." Franco sigilla la notte. E vanno,
Ognuno alla sua strada, che domani chissà
Dove li porta, se la nebbia svela un passo nuovo.

Resta il biliardo. Muto. Ma il panno verde
Forse non è sudario, forse attende ancora
Il colpo esatto, la carambola perfetta,
Che riscatti i falli, che riapra il gioco.
E Beppe spegnerà la luce stanca,
Ma resterà nell'aria un'eco incerta:
Il debito antico pesa, sì, ma forse un giorno...
Forse domani, si potrà saldare.
Aurora? Nome beffardo... O forse, tenue,
L'attesa inconsapevole d'un tiro giusto?
D'un caffè pagato? Chi lo sa. Domani.

Notturno all'Aurora (elegia in verde) testo di sarrasani
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