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Novembre, un altro venticinque scocca
i suoi dardi dalle rive d’Alicorno;
sguardano amulei sipari di pietra
l’apparire del giorno, e il consumarsi
di connubi astrali (gli dèi passeggiano
con noncuranza sulle nostre vite).
Gli eroi trattengono le loro gesta
sopra le statue della valle avulsa:
la storia, quando non ci accade, pare
che si attardi a spiegare quel che tocca
ma si ripiega, come queste calli
che arrovellandosi in più volte a sbieco
stornano il passo del viandante ignaro.
La Verità, bisogna attraversarla.
Da questi portici non si sente il cielo,
ma un operoso silenzio che vi pulsa
e quindi sfocia nel brusìo fervente
di apparecchiati intrecci mercatali,
rotto talvolta dall’irritualità
delle gride degli ilari goliardi.
Scevra il cammino da nubi e tristezza,
perché le ombre che ti porti dentro
a un certo punto possono prender forma:
e la loro forma è una massa scura
che si raggruma in rivoli più densi
mentre la notte si incista di nebbia.
Stringete i vostri cilici, confratelli,
c’è ancora dolore –e tanto- da estirpare
da questo mondo senza futuro; io
il mio l’ho estirpato, ma non so per quanto,
e ora mio figlio è tra le mani del Fato
e nella culla dolcemente tace
l’aspettativa di un benigno arcano.
Arrivederci, Città del Santo,
nel tabernacolo dei tuoi miracoli
che ci racconta un’asina loquace
stiaccia i frammenti di questa speranza
e riaccompagnali a un nuovo avvenire:
non li disperda chi li ricompone.