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Michele Maria Santoro
Il segno
Il messaggio mi arrivò via email. Tre sole parole: «Sono in città». Tre sole parole, ma sufficienti a squarciare il velo dell’oblio e a spalancare l’abisso dei ricordi. Quei ricordi che erano rimasti sepolti negli strati più profondi del mio essere, quelle vicende che avevo vissuto in tempi ormai remoti, quel passato che credevo concluso, estinto, cancellato, così come erano cancellate le tracce che aveva lasciato sul suo cammino.
Perché tutto ciò doveva riemergere, dopo la paziente opera di rimozione che avevo esercitato nel corso degli anni? Perché doveva bastare un breve messaggio per ridestare l’onda del ricordo, e con essa le sensazioni, le emozioni, i tormenti di una vita?
Quando si hanno vent’anni – o forse anche trenta – tutto assume un valore diverso, più intenso e profondo. Le piccole e le grandi cose, le gioie e i dolori, le speranze e le delusioni, tutto acquista un significato speciale, che sembra valere per sempre. Ma che invece per sempre non vale. Il tempo ci plasma, ci foggia, ci affina. A volte ci rende duri, cinici, insensibili; altre volte fragili, insicuri, pronti a cedere alla prima avversità, a soccombere all’ultima novità.
La novità, eccola lì, annunciata da quelle tre scarne parole. Lei era in città. Ergo: le avrebbe fatto piacere incontrarmi. Rivangare il passato. Raccontarmi la sua vita attuale. Parlarmi dei suoi impegni. Delle opere che ha tradotto da quando è andata a lavorare in quella piccola casa editrice. E di quelle che ha scritto da quando ha scoperto la sua vena di autrice di libri per ragazzi.
Me lo aveva comunicato lei stessa, nel periodo in cui ancora ci scambiavamo delle email. Ma al di là dei pochi cenni sull’editoria e sulla letteratura per l’infanzia, in quei messaggi non c’era altro. E così anch’io, dopo un po’, presi a risponderle a monosillabi. Finché non decisi di chiudere definitivamente. Difatti non capivo perché dovessimo avere ancora degli scambi, quale legame potesse permanere ancora fra noi, visto che mi aveva piantato da un giorno all’altro per seguire le sue pulsioni più profonde.
E quindi erano più di dieci anni che non ci sentivamo. Dieci anni in cui non aveva avvertito la mia mancanza. Né io la sua, forse... Ma insomma, andava bene così. In dieci anni ci si abitua a tutto. Perché allora squarciare il velo, rimettere tutto in discussione, tornare ad affondare il coltello nella piaga?
«Reading Pub, 18:00». Rispondendo in questo modo pensavo di aver raggiunto più obiettivi. Accettavo di incontrarla, ma non in casa, evitando così i suoi commenti – impliciti o palesi – su come l’avessi trasformata in tutti quegli anni; su quanti dischi avessi acquistato nel frattempo; se ci fosse ancora il nostro vecchio letto, e via di questo passo. E poi l’orario: implicava che l’incontro dovesse essere breve, un piccolo drink, un rapido scambio di saluti e stop. Ma soprattutto la sinteticità del messaggio, che era un’evidente risposta alla laconicità del suo, ed un modo per farle capire che accettavo la sfida – se di sfida si trattava – e che non mi avrebbe trovato impreparato.
Non vi furono repliche, per cui diedi per scontato che sarebbe venuta. Arrivai al Reading Pub con un certo anticipo, e occupai un tavolo in fondo alla sala.
Il locale doveva il suo nome alla quantità di libri, quotidiani, riviste che ospitava, e che erano collocati su capaci scaffali o su appositi tavolini. I clienti potevano usare quei materiali senza dover necessariamente consumare, per cui il Reading era sempre affollato da persone di tutte le età, che compulsavano avidamente i giornali o leggevano i libri comodamente seduti ai tavoli.
E mentre anch’io mi accingevo a sfogliare una copia del “New Yorker”, avvertii una presenza dinanzi a me.
«Ciao, Giorgio». La voce era la stessa, chiara e senza inflessioni. Il viso invece mi parve diverso, non solo perché gli anni, come si suol dire, lasciano il segno, ma anche perché sembrava più pensoso, ed anche più spento. La curva delle labbra, un tempo sempre mobile e pronta al sorriso, appariva ferma, statica, quasi a non voler far trasparire alcuna emozione. I capelli, che una volta erano lunghi e folti, adesso erano assai più corti e striati di grigio. Solo gli occhi rimanevano volitivi come sempre; ma anche in essi si scorgeva una nota di mestizia.
«Ciao, Mara», dissi a mia volta. E poi, come per superare l’imbarazzo, le chiesi: «prendi qualcosa?».
«Gradirei un tè», rispose mentre si sedeva di fronte a me. Non feci commenti, ma pensai che, al posto delle tre parole tre di cui ora sembrava servirsi, un tempo avrebbe dispiegato tutta la sua verve, dando vita a uno di quei discorsi pieni di vitalità e di entusiasmo con cui pareva affascinare tutti, a partire ovviamente da me.
Ci osservammo a lungo, senza parlare. Forse entrambi ci sentivamo a disagio, intimiditi dalla presenza dell’altro, sopraffatti dai ricordi, o forse dai rimpianti. Ma finalmente arrivò il tè; lei lo versò nelle tazze e nella sua vi aggiunse un po’ di zucchero. Si guardò intorno, soffermandosi sugli scaffali zeppi di libri e riviste.
«Hai scelto un bel posto», fece poi in un tono che non nascondeva una nota ironica, come a dire: sai bene qual è il mio lavoro, ed anche adesso mi porti in un ambiente che me lo ricorda da vicino.
«Perché mi hai mandato l’email?», domandai in tono brusco. Non avevo alcuna intenzione di rimanere sul suo terreno, di dare alimento alla sua irritazione. Difatti, ero io ad essere irritato. Ero io dalla parte del giusto. Ero io la parte lesa. Vantavo ancora dei crediti. Avevo ancora dei diritti: primo fra tutti, quello di sapere.
«Scorrendo Facebook ho trovato le tue pagine», proseguì con voce più pacata. «Molto interessanti, come sempre. La tua passione per la musica ha trovato sbocchi notevoli. Le tue scoperte di giovani jazzisti di tanti paesi diversi, ed in particolare di quelli in via di sviluppo, hanno un significato… un valore che è davvero unico».
Io rimasi in silenzio.
«Sei sempre stato un esploratore, un talent scout; hai sempre avuto curiosità e gusto per le cose nuove e belle. Ma oggi sei diventato un vero esperto».
«Già, ma queste cose le conosciamo da un pezzo», protestai, come a sottolineare che non aveva ancora risposto alla mia domanda.
«Mi trattengo in città per qualche giorno», affermò allora.
Non riuscii a capire cosa volesse intendere: se si trattava di un invito a rivedersi, a incontrarci di nuovo, a riprendere un dialogo, uno scambio, un sodalizio interrotto da tempo; o se invece era la negazione di tutto ciò, l’annuncio di un addio definitivo. Poi cambiò di nuovo espressione.
«Non pensare», disse in tono concitato, «non pensare che non abbia pensato… che in tutti questi anni… che in tutto questo tempo non abbia pensato… che non pensi…». Ed io, preso ancora dal mio malumore, non potei non sorridere a quelle ripetizioni, come se la sua eloquenza di un tempo si fosse arrestata per sempre. Feci un cenno con la testa, come ad invitarla a proseguire.
«Mi sono licenziata dalla casa editrice», fece allora; «ho interrotto tutti i contatti con le riviste con cui collaboravo, ed ho rinunciato ai diritti d’autore sui miei libri».
A quelle parole trasalii. Sapevo quanto le fosse caro il suo lavoro, quanto fossero importanti quegli articoli che pubblicava sulle riviste di letteratura per l’infanzia, quanta parte di sé avesse messo nella sua attività di scrittrice. Era proprio per questo che se n’era andata, troncando di netto il nostro rapporto. E adesso, da un giorno all’altro, abbandonava tutto.
Pensando a ciò, il mio risentimento quasi svanì. Ma poi una domanda si fece strada nella mia mente: perché?
Bevvi un sorso di tè e la guardai, cercando di non manifestare il mio stupore. Cercai una risposta a quell’interrogativo, in cui si compendiavano le ragioni che l’avevano condotta in città, e che ora cercava di rendermi note, un po’ alla volta, con quelle frasi smozzicate, che nascondevano assai più di quanto svelassero. E che al tempo stesso contraddicevano l’immagine che ancora avevo di lei, l’immagine di una persona tenace, volitiva al punto di fare di tutto – anche abbandonare una realtà consolidata ed appagante al mio fianco – per seguire il suo destino.
Evitai di mostrare il mio turbamento bevendo un altro sorso di tè. Lei mi guardava senza parlare. Compresi che il passo successivo spettava a me.
«Non ci sentiamo da molti anni», dissi cercando di mantenere un tono neutro.
«È vero», replicò, «ma non sono qui per rivangare il passato, né per chiedere scusa, né per riallacciare i rapporti».
Io assentii, come a dire: «sono perfettamente d’accordo, non possiamo riallacciare più niente». E invece, in quel momento, qualcosa si fece strada in me, e per un istante pensai che avrei dato non so cosa per riprendere la vita di allora, quella vita che ci aveva visti giovani, felici, pronti a marciare verso un radioso avvenire. Ma poi rividi i suoi occhi colmi di malinconia, le sue labbra prive di sorriso, ed infine il suo corpo, contratto in sé come fosse scosso da brividi invisibili. E il sogno che per un istante era mi balenato alla mente, in un attimo si dissolse.
Lei si schiarì la voce e mi guardò.
«Ho chiesto di incontrarti perché devo restituirti qualcosa».
Stavolta la mia reazione fu diversa. Quelle parole avevano messo in moto una nuova ondata di ricordi legati alla nostra vita in comune, ed in particolare agli oggetti che avevamo acquistato insieme, dai più banali e quotidiani ai più preziosi e ricchi di significato.
Quegli oggetti, dopo il suo addio, erano rimasti quasi tutti a me. Nella fretta di andar via, aveva preso con sé solo poche, indispensabili cose. Ed io, con il passare del tempo, mi ero liberato di quella roba, un po’ per il risentimento che provavo verso di lei, un po’ perché aspiravo a un’esistenza diversa, che portasse ad una rigenerazione, ad un rinnovamento non soltanto interiore. Quindi non potevo proprio immaginare cosa avesse da restituirmi.
«Proprio così», riprese con apparente distacco, «devo ridarti qualcosa che è tuo». E nel dir ciò aprì la borsa e tirò fuori un libro che appariva un po’ vecchio e logoro. Dopo avergli dato un’ultima occhiata me lo porse.
Lo riconobbi subito. La copertina in brossura era ancora al suo posto, ma la costa era piuttosto rovinata ed alcune pagine, decisamente ingiallite, fuoriuscivano leggermente dai margini. Lo aprii. Sul frontespizio una macchia brunastra contornava il titolo: Il dottor Živago. Più in basso alcune parole scritte a matita, un po’ stinte ma comunque leggibili:
E sotto il salice avvinto all’edera,
cerchiamo scampo all’intemperie.
Ci ripara le spalle un mantello,
intorno a te le mie braccia si avvincono.
La diga della memoria, a quel punto, crollò del tutto, e l’onda dei ricordi mi travolse senza scampo. Era uno dei periodi più sereni, più limpidi, più felici della nostra vita in comune. Mara era andata per qualche giorno al suo paese natio, dove c’era ancora la casa dei suoi genitori. E al suo ritorno aveva portato con sé quel libro, che era appartenuto a sua madre la quale, come mi aveva detto, l’aveva amato moltissimo. Poi era passato a lei, che nei confronti di quell’opera nutriva un vero e proprio culto, considerandolo uno dei romanzi più belli che fossero mai stati scritti. E lei lo aveva regalato a me, con quella dedica che era tratta da una delle poesie di Jurij Živago pubblicate in coda al volume.
Era il periodo più luminoso della nostra convivenza, e quel dono intendeva sottolineare quello stato di cose, anzi confermarlo, consolidarlo, renderlo permanente.
In quegli anni io soffrivo di una forma di sinusite che dava luogo a piccole epistassi nei momenti più impensati della giornata. E così una mattina, mentre rileggevo quella dedica, una goccia di sangue venne giù dal naso e andò a macchiare il frontespizio, assorbendosi rapidamente sulla pagina.
«È un segno», aveva detto lei come estasiata, «qualcosa di tuo e qualcosa di mio che si fondono per sempre».
Ed ora, seduto a quel tavolo, tentavo di arginare il flusso dei ricordi mentre sfogliavo ancora una volta il volume. Le mie dita indugiarono sulle pagine che si erano quasi staccate dal dorso, ed i miei occhi si soffermarono sulle poesie di Jurij Živago, che avevo letto con non minore trasporto del romanzo stesso.
Non mi domandai perché quel libro non fosse rimasto a me quando lei era andata via. Tenendolo fra le mani, mi chiesi se dovessi considerarlo come una reliquia da venerare o come un feticcio di cui era meglio disfarsi. Poi capii che c’era qualcosa che continuava ad attrarmi e a tenermi legato ad esso: era la macchia del mio sangue che l’aveva segnato per sempre.
Alzai gli occhi su di lei. Ora volevo chiederle tante cose, perché era venuta in città, perché aveva lasciato il suo lavoro, perché era così triste, così infelice. Perché mi aveva contattato, perché mi aveva riportato quell’oggetto tanto denso di ricordi. E volevo anche parlarle di me, della mia vita, delle mie passioni. Cercar di capire se fossi in grado di aiutarla, se fossimo in grado di aiutarci a vicenda.
Ma lei d’un tratto si alzò e, dopo aver aperto la borsa, depositò una banconota sul tavolo. Poi mi guardò con quegli occhi così intensi e disperati, e si avviò rapidamente all’uscita.