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Alice pt.6 – Fine (Rivisitato e corretto)
Nel pomeriggio, dopo la fantastica mattinata, avrei dovuto impiegare il tempo libero per ripassare un po' di Matematica, ma avevo avuto la malaugurata idea di passare da scuola, per vedere come procedeva l'ultimo giorno di sciopero.
Avevo buttato un occhio in aula magna: dentro c'erano ancora quattro gatti, sedevano intorno a una scrivania ed erano tutte donne.
Di spalle avevo visto Taro, e d'improvviso mi era tornata in mente una cosa che mi ero totalmente scordato.
Immerso nella fregola di incontrare Alice, avevo cancellato ogni altra cosa dalla mia mente.
Ieri Taro Cap mi aveva detto che in mattinata si sarebbe tenuta, qui, la riunione delle compagne del comitato di base, per discutere le proposte di lotta del gruppo femminista della scuola.
Mi aveva chiesto di presenziare per portare, democraticamente, un contributo in veste di maschio ai lavori della commissione.
Questo per non far dire che le femministe della scuola adottassero unilateralmente una piattaforma di lotta che ignorasse il punto di vista maschile, e per sfatare il mito malevolo che le femministe odiassero i maschi e ambissero solo alla castrazione della loro virilità.
Anch’io, come altri maschi, sostenevo le rivendicazioni per i diritti delle donne. Fanculo! Mi era passato proprio di mente.
Del resto, non avrei saputo come fare, visto che nella mattinata avevo l’appuntamento al Pop Center Club con Alice.
Decisi di far finta di niente e filarmela alla chetichella prima che Taro si fosse accorta della mia presenza; non avevo davvero lo spirito adatto a sentirmi la sua lagna per non essermi presentato.
Stavo per varcare la soglia dell’aula, quando mi ero sentito richiamare con un tono cupo e brusco:
- Dove credi di andare? Pensi che non ti abbia visto?
La voce gracchiante era ovviamente di Taro; mi aveva intercettato e purtroppo non potevo squagliarmela senza parlarle.
Mi ero voltato con un sorriso accattivante.
- È inutile che scappi e mi fai il sorrisone. Tanto lo so che sei un paraculo e anche inaffidabile.
“Azz!” avevo pensato, ora mi toccava la sua predica per aver saltato la riunione femminista.
- Avevi promesso di partecipare. Poco male, perché le nostre cose le abbiamo decise anche senza di te. In ogni caso, il tuo atteggiamento è stato molto offensivo nei miei confronti e verso le compagne del gruppo. Sei una merda.
Era decisamente incazzata; inutile dirle che non avevo fatto apposta a dimenticarmi della cosa, né che avevo di meglio da fare con la sua amica.
- Scusami, Taro, so di essermi comportato male, ma ho avuto un problema urgente nella mattinata. Sono desolato, dai, scusami proprio.
Avevo assunto un’aria contrita e innocente per raddolcirla.
- Ahahah! Che fai, mi prendi anche per il culo? - aveva fatto una risata di scherno, assai cattiva, ponendomi quella domanda.
- Ma no, figurati. Mi sto davvero scusando perché ho avuto un impedimento che mi ha impedito di essere qui.
- Ahahah! - un’altra risata sarcastica e sferzante. - Che merda sei, non pensavo arrivassi a tanto. Continui a prendermi per i fondelli.
Non capivo perché non mi credesse e, benché fossi in qualche modo colpevole, lei non poteva saperlo, quindi la sua incredulità iniziava a infastidirmi.
- Oh! Senti, Taro, se ti dico che ho avuto un problema, non vedo perché devi fare tutto ’sto cinema. La cosa mi è spiaciuta, ma vediamo di darci un taglio, ok?
Mi aveva puntato gli occhi negli occhi, fronteggiandomi impettita, da una spanna d’altezza inferiore alla mia. Poi aveva replicato:
- Che la mia amica Alice sia stata per te un impedimento, sarò felice di comunicarglielo.
Ero confuso e non capivo perché tirasse in ballo Alice.
- Mi spieghi adesso che cazzo c’entra Alice e perché ne stai parlando?
- Sei tu che dovresti dirmi perché lei è stata un impedimento, visto che ci hai passato la mattina insieme, - replicò tagliente.
- Che vorresti dire?
- Voglio dire che anch’io ho dei compagni che sono stati in quel locale di drogati questa mattina e vi hanno visto insieme. Credevi che parlassi a vanvera?
Cazzo! Questa non me l’aspettavo: ero stato visto con Alice da qualcuno che l’aveva informata.
Mi aveva spiazzato; ormai non potevo mentire, ma mi stava attaccando e quindi dovevo difendermi.
- Allora non parli più? Non solo sei paraculo e inaffidabile, sei anche un bugiardo: fai bene a stare muto.
- Va bene, cazzo! Ero con Alice. In ogni caso, è vero che mi ero dimenticato della riunione. Può succedere a tutti di dimenticare un impegno preso. Poi, di come passo e con chi passo le mie mattine, sono cazzi miei e tu non ci devi mettere becco. Mi sono scusato: se ti basta, va bene; se non ti basta, puoi andare a fare in culo. Chiaro?
- Sì, è chiaro che sei un “compagno” per finta. Te la tiri da impegnato di sinistra, ma sei solo un mollusco senza spina dorsale e un puttaniere.
- Ok, sarò un puttaniere, ma a te quello che rode è che non ti scoperei neanche se fossi Santa Maria Goretti o una puttana. Contenta?
Aveva virato il colorito sul paonazzo acceso. Colpita e affondata!
- Ah? Sì. Io non la darei a te neanche se fossi l’ultimo maschio sulla terra.
- Bene! Così abbiamo scampato il rischio in due, - replicai.
- E ti dirò, - continuava, - informerò Alice che sei solo uno stronzo che frequenta delle puttane.
- Ah! Ma guarda. Davvero? Beh, sappi che una di quelle puttane che io frequenterei, domani mattina viene a scopare con me in soffitta. E guarda caso, è proprio la tua amica Alice.
Aveva cambiato colorito, era sbiancata di colpo.
- Tu con Alice?
- Esatto, proprio con lei. E ora ti saluto e ti mando affanculo.
Oggi lo sciopero è finito, le lezioni sono ricominciate regolarmente.
I bidelli sono impegnati a ripulire l’enorme quantità di rifiuti lasciati in ogni angolo da questi giorni di festosa e pacifica occupazione.
Quando siamo rimasti soli in macchina, dopo aver riaccompagnato Alice, avevo chiesto in prestito a Giulio la soffitta; in serata era passato a mollarmi le chiavi. Nel tardo pomeriggio avevo fatto tappa in farmacia per rifornirmi di due confezioni di profilattici.
Al contrario di Taro Cap, io sono tradizionalista: diffido dalla chimica e mi affido alla vecchia collaudata meccanica: un cappuccio di plastica, se non è forato, risulta più affidabile di cento pastiglie.
Mi sento soddisfatto, tutto perfetto, organizzazione di precisione svizzera.
Ho solo un filo d’ansia in sottotraccia: vorrei fosse già domani sera, per avere alle spalle il tempo dell’attesa e il timore che nasca qualche impiccio a rovinare questa cosa stupenda.
Sono le 17:35, fine delle lezioni pomeridiane.
Ho attraversato come un lampo il cortile dell’Accademia per raggiungere l’edificio del Liceo con la sua classe.
Mi sono piazzato all’interno del corridoio del piano terra, a qualche metro dalla porta d’uscita, e aspetto Alice.
L’ansia di rivederla è elettricità pura che mi agita il corpo.
I ragazzi si riversano verso l’uscita, creando il solito colorato casino: sono investito da una vivace, rumorosa fiumana.
Cerco di scorgerla fra le molte teste che riempiono il corridoio; solo quando la massa dei ragazzi dirada, la vedo apparire al fondo dello stanzone.
Non mi muovo, mi trattengo dal correrle incontro.
Mi piace osservare la sua figura elegante mentre viene avanti senza fretta, immersa nei suoi pensieri.
Non mi ha ancora visto; troppi ragazzi sono ancora tra me e lei, sottraendoci alla vista.
Mi pare di vivere una di quelle scene da film o da romanzo sentimentale, dell’incontro di due innamorati.
Lei è così luminosa che la luce nel corridoio sembra essere generata dal suo procedere piuttosto che dai grandi neon appesi al soffitto.
La sua visione satura i miei occhi; il cuore gioca a carambola con lo stomaco, è davvero troppo bella.
Viene avanti, ha un’aria assorta, non solleva la testa.
i ferma un attimo, il tempo di frugare nella tracolla, recuperare il pacchetto e accendersi una sigaretta.
Cerco il suo sguardo; lei alza il capo, la saluto con un cenno della mano: ora mi ha visto.
Solleva la mano per rispondere al saluto, ma il gesto resta sospeso, come se si fosse accorta di averlo iniziato per un riflesso automatico.
Dei compagni di classe le passano al fianco, li saluta distrattamente.
Tiene la sigaretta stretta tra le labbra, il viso ha un’espressione indecifrabile; non mi sembra serena, forse il compito in classe è andato male.
Decido di fare qualche passo verso di lei lungo il corridoio: ci raggiungiamo a dieci metri dall’uscita.
Siamo di fronte, occhi negli occhi, sorrido gioioso.
- Ciao, Alice. È tutto il giorno che aspetto di vederti. Come stai, il compito è andato bene?
Esita qualche attimo prima di parlare:
- Ciao, sì... sì, bene.
Vorrei abbracciarla e baciarle le labbra, ma la sua immobilità e la luce fredda che le vedo nello sguardo mi bloccano.
La sigaretta tra le sue labbra ha un tremito, stringe al petto i libri fermati da una cinghia, come in un atteggiamento difensivo.
Non mi guarda più negli occhi, sembra più interessata alla geometria delle piastrelle del corridoio sotto i nostri piedi.
Un allarme mi si accende nella mente: un fischio stridulo e angoscioso, lugubre come le sirene durante un bombardamento.
Spilli d’ansia mi trafiggono il cervello; di colpo vorrei essere altrove, lontano da questo momento che avverto cupo come un volo di corvi.
“Merda!” – mi dico. Sembrava troppo bello che filasse tutto a perfezione.
- Cosa c’è, amore? – le chiedo, sfiorandole l’avambraccio con la mano. – Non stai bene, c’è qualche problema?
Alza il viso, tira una boccata di fumo e lo lascia filtrare tra le labbra: mi guarda in silenzio, sembra cercare le parole, ma non dice nulla.
Ora so quanto possono diventare freddi quei suoi meravigliosi occhi verdi quando non ti sorridono. Ripeto piano la domanda:
- Che c’è, Alice? Cosa è successo?
Scorrono secondi lunghi come anni, in un silenzio che ci divide.
Sento qualcosa che si spezza senza fragore, come qualcosa che rovina in un film privo di audio.
È una frattura che si allarga al centro d’un istmo di terra, e io sono la parte che vede l’altra allontanarsi.
- Cosa è successo? Parlami, ti prego... mi stai facendo male.
La mia voce è labile, sgretolata, come la terra nell’istmo che frana.
Un’altra boccata di fumo, e la sua voce sorge da una distanza remota:
- C’è che fa più male a me... mi hai deluso. Molto. – sussurra in un soffio.
Ha occhi colmi delle ombre che precedono il temporale.
- Per un momento, – continua, – avevo creduto tu fossi veramente diverso. Ma non sei diverso da quello che ti somiglia.
- Perché dici questo, amore mio?
- Perché mi accorgo che è stato uno sbaglio credere che fossi altro...
Ha un tono amaro, stringe a sé quei libri in un abbraccio, come fossero un appiglio a cui sorreggersi, mentre le acque dell’emozione la travolgono.
È scossa da quello che dice e da ciò che ha dentro.
- Alice, Cristo! Ma che dici? Cosa ho fatto? Fammi capire, ti prego.
- Le cose si ripetono uguali. Forse perché siete solo uomini... – dice.
Si guarda intorno, la sua mente è altrove, già lontana.
Ha già deciso, e io non so e non comprendo la ragione.
Ho le gambe molli, è un brutto sogno; magari tra un po’ mi sveglio e tutto questo scompare: l’idea di perderla mi fa montare una vertigine di nausea.
I suoi occhi sono nei miei: non è collera quella che leggo, ma una tristezza profonda e dolente.
- Vedi, – dice, scandendo piano le parole, – non voglio più essere un premio. Qualcosa di cui un uomo si vanti con gli amici, come un trofeo da esibire. Non voglio più esserlo per nessuno.
- Dio santo, Alice! Ma quando mai io ho pensato a te così? Quale trofeo? Io ti amo, ti rispetto, sei più importante di tutto.
- Sì, sei bravo con le parole. Te ne dovresti ricordare prima di parlare di noi con chi ti capita.
Mi passa le dita sulla guancia, una carezza lieve e triste quanto un addio.
La sigaretta, consumata oltre metà, segna il tempo che resta.
Riprende con un filo di voce:
- Vedi, io non sono una di quelle che ti fai qua dentro, e neppure la migliore fra loro. Mi spiace che sia andata così. Ci avevo creduto davvero.
- Cos’è ’sta cosa, amore? Con chi avrei parlato di te, e di cosa?
Parlare sembra che le costi un peso immane; ha gli occhi prossimi alle lacrime.
- Ho parlato con Gina durante tutto l’intervallo, e mi ha aperto gli occhi, – dice.
Ora mi è chiaro: ho capito cosa aveva da fare d’urgente Taro Cap nella pausa pranzo.
- No, amore, qualsiasi cosa ti abbia detto è una cazzata. Di certo ti avrà riferito del nostro colloquio di ieri, confondendo le cose perché non le va che stiamo insieme. Devi credermi.
Ha una luce tragica di delusione e rimpianto negli occhi.
- Mi spiace sia andata così, ma Gina la conosco da anni e te da tre giorni. Ora scusami, ma devo andare. Stammi bene, ciao, – dice con un filo di voce.
Getta il mozzicone della sigaretta al pavimento e lo spegne col piede.
Mi sorpassa sul fianco, e la guardo andare via; non so come fermarla, ho il piombo nelle gambe.
È un brutto film: vorrei arrestare la pellicola e farlo ripartire con un finale diverso.
Trattengo il respiro, come fosse l’ultimo che riuscirò a fare.
Sono un pugile al tappeto, con l’arbitro che conta i secondi, ma tu sei da un’altra parte; non vuoi credere che sia tutto finito, ma non riesci a rialzarti.
Il gong mi risveglia: esco anch’io dalla scuola, richiamo l’energia alle gambe, accelero, attraverso il cortile e guadagno l’uscita dall’Accademia.
Fuori, la vedo sparire oltre l’angolo della via; il cielo è già buio e le luci delle vetrine tutte accese.
Vorrei inseguirla, correrle dietro, fermarla e spiegarle che è tutto sbagliato.
Che è un maledetto equivoco. Che Taro Cap è una stronza e non ha capito un cazzo, come al solito.
Ma a che servirebbe? Lei non crederebbe una parola; Taro è la sua amica del cuore.
L’ho persa. L’ho persa perché sono un coglione.
Avrei dovuto tagliarmi la lingua e ingoiarmela.
Mi sento di merda, mi sento una merda.
Cammino e avverto più freddo di quanto sia fredda la sera che scende. Novembre ha l’aria pungente dell’inverno che viene e fa lacrimare gli occhi.
Ho i brividi e voglia di piangere, ma non posso farlo: c’è gente sotto i portici della via Po e troppe luci dalle vetrine.
Fra cinquanta metri c’è una traversa con la recinzione di un cantiere; a quest’ora è vuoto.
C’è un tratto non illuminato dai lampioni.
Lì potrò farlo.
Fine