La distanza che canta nel vento

scritto da R. E. Harlow
Scritto 3 mesi fa • Pubblicato 3 mesi fa • Revisionato 3 mesi fa
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Autore del testo

Immagine di R. E. Harlow
Autore del testo R. E. Harlow
Immagine di R. E. Harlow
Un racconto poetico e storico ispirato alla vera principessa Liu Xijun, prima donna Han mandata in esilio. Una voce dimenticata che attraversa il tempo per parlare, nel silenzio, a chi conosce la nostalgia senza ritorno.
- Nota dell'autore R. E. Harlow

Testo: La distanza che canta nel vento
di R. E. Harlow

“La distanza che canta nel vento – La storia di Xijun”

Ci sono attese che non finiscono.
Ma anche se non torno, tu hai già il mio silenzio.


I. Prima del confine

La neve non cadeva a Chang’an quel giorno,
ma il vento la sognava.

Liu Xijun aveva diciassette anni quando la corte Han le ordinò di diventare alleanza.
Non ambasciatrice, non regina, non donna.
Solo vincolo. Solo equilibrio tra guerra e pace.

Era la prima volta che una principessa Han veniva inviata così lontano.
Il decreto fu letto in piedi, nel padiglione delle fenici.
La voce dell’eunuco tremava solo alla fine.
Dietro di lui, gli alti dignitari restavano in silenzio, con le mani giunte e lo sguardo fisso sulle travi.
Nessuno la guardava.

Xijun non parlò.
Si limitò a chinare il capo.
Non per onore.
Perché la voce si era spezzata dentro, come il ghiaccio sullo stagno dei salici.

Sposare per custodire la nazione.

Quattro parole. Le aveva scritte il padre con l’inchiostro nero più spesso.
Un calligrafo le aveva ricopiate su seta.
Poi le avevano incorniciate e appese nel suo nuovo alloggio, come protezione.
O forse come ammonimento.

Sua madre, quella notte, non pianse.
Si sedette accanto a lei, pettinandola in silenzio.
Le mani tremavano un poco. Quando finì, disse solo:
— Ti ho messo un filo rosso nella cucitura. Ogni volta che lo toccherai, ricorda che hai ancora un nome.

Nessuno la accompagnò al cancello orientale, il mattino dopo.
Solo la serva più anziana le tese una piccola scatola di giada.
— Dentro c’è un ago e una poesia incompiuta.
— La completerai nel deserto.

Il carro era basso, coperto da un telo avorio.
Salì da sola, il passo saldo come se stesse entrando in una cerimonia
e non lasciando tutto ciò che era.

Il primo suono fu quello dei cavalli che si muovevano in fila.
Il secondo, il tamburo imperiale.
Il terzo fu un silenzio che non finì più.

Passarono le mura. Passò il portale dorato.
Poi la steppa iniziò a sostituire le colline.
E il cielo si fece più grande.

Dietro di lei, le pagode si fecero piccole, poi sparirono.
Davanti a lei, solo sabbia e promesse scritte da altri.

 

II. Tra le sabbie

All’inizio, il viaggio aveva ancora un nome.

Ogni tappa era una distanza misurabile: Chang’an – Dunhuang – Yumen.
Poi il nome scomparve.
Rimase solo l’andare.

Le giornate si ripetevano come una preghiera muta:
il suono dei carri, la polvere che entrava tra le ciglia,
le parole pronunciate solo se necessarie.

Xijun imparò presto che nessuno avrebbe colmato la distanza —
né con la lingua, né con il gesto.
Era lei a dover tradurre ogni crepa del sentiero,
ogni silenzio imposto.

Fu oltre il passo di Yumen che la nostalgia cambiò forma.
Non era più desiderio.
Era sradicamento.

Il tè non aveva più sapore.
La seta che indossava sembrava stonare col paesaggio.
La scrittura — quella che amava, con i suoi tratti sottili e sacri — non serviva più.
Non c’erano superfici levigate su cui tracciare un segno.

Eppure scrisse.
Sul rovescio del proprio vestito, cucendo i versi con ago e filo, parola dopo parola.

Canto di Xijun
(cucito segretamente tra le cuciture della manica)

"Desidero essere la rondine che vola verso est.
Ma le montagne hanno chiuso il cielo.
Il mio nome è un ramo spezzato.
Non conosco il suono della mia voce in questa lingua.

Mi sveglio al canto di tamburi sconosciuti,
cammino in mezzo a parole che non mi vedono.
Nel sogno, mia madre pettina ancora i miei capelli.
Ma la pettinatura è finita. Io sono già via."

Arrivarono a Wusun nel primo vento freddo d’autunno.
La terra era larga, priva di mura,
e il cielo sembrava appeso alla punta delle tende.

Non c’erano palazzi. Solo stuoie, cavalli, tamburi.
E un re troppo vecchio per il matrimonio,
ma non per la diplomazia.

Il giorno della cerimonia, Xijun non capì le parole pronunciate.
Sentì però che il proprio nome veniva deformato.
Storpiato in una lingua che non ne conservava la musica.

Così capì di essere diventata altro.
Non una persona, ma un simbolo.
Un ponte che nessuno avrebbe mai attraversato da entrambe le sponde.

Le notti erano lunghe.
Il vento soffiava come un’anima inquieta tra le tende.
Lei si svegliava spesso, senza sapere in che tempo si trovasse.

In quelle ore senza confine, imparò a riconoscere i suoni del nuovo mondo:
il nitrire dei cavalli,
il fischio del vento tra le ossa di giumenta,
il pianto lontano di una donna nella tenda accanto.

E un silenzio che non era vuoto,
ma pieno di tutto ciò che non si poteva dire.

Fu lì, nella prima luna piena dopo l’arrivo,
che riscrisse la sua identità in silenzio:

“Sono quella che ascolta.
Quella che ricorda.
Quella che non dimentica da dove viene,
anche se non può più tornare.”

 

III. Il figlio della steppa

Il vecchio re dei Wusun non parlava quasi mai.
Quando morì, non lasciò lettere né discendenti diretti,
solo l’eco di una voce rauca che ogni tanto pronunciava il nome di lei con timore,
come si pronuncia il nome di un luogo sacro.

Nel vuoto lasciato dal sovrano, rimase un ragazzo: Yuli,
nato da una delle mogli tributarie del clan.
Aveva occhi d’ambra e mani screpolate,
come chi aveva già affrontato troppe albe per la sua età.

Xijun lo osservava da lontano,
con l’istinto antico delle donne Han che sanno riconoscere l’orfano nel cuore
prima ancora che nella carne.
Non era suo figlio.
Ma era l’unico volto che non la temeva.

Cominciò ad accoglierlo sotto la tenda,
prima con silenzi condivisi,
poi con racconti.

Gli narrava le storie di Hua Mulan, della Dea Madre Nüwa,
del Drago Azzurro che difende le frontiere dell'Est.
Non importava che lui non comprendesse ogni parola: ascoltava con gli occhi.
E ogni notte, prima di dormire, le lasciava in dono una cosa piccola:
un sasso levigato, un filo di lana annodato, un ramo di liquirizia.
Piccoli gesti per dire:
“Ti vedo.”

Con il tempo, la voce di lei divenne la sua lingua madre.
Non per grammatica, ma per intimità.

Yuli la chiamava “signora del fiume che non ho visto”,
perché Xijun parlava spesso del Wei,
del suo scorrere lento, della nebbia del mattino,
della pioggia sui bambù.

— Quel fiume esiste? — chiese un giorno.

Lei non rispose.
Ma quella notte, incise il proprio nome su una lamina di giada
e gliela lasciò accanto al letto.

Liu Xijun.
E sotto: "Fiume che ricorda."

Quando Yuli compì sedici anni, i capi lo acclamarono erede.
La cerimonia fu breve. Nessuna poesia.
Solo tamburi e latte di cavalla fermentato.

Xijun era seduta al margine,
come un’ombra blu tra le tende.
Non aveva più un titolo.
Era semplicemente la straniera che restava.

Quella sera, Yuli venne da lei, ancora vestito da re.
Si inginocchiò accanto al fuoco e le disse:

— Quando sarò abbastanza forte, ti riporterò a casa.

Lei chiuse gli occhi.
Non per sogno, ma per memoria.

Poi gli tese la mano
e, per la prima volta, gli parlò nella sua lingua:

— Tu sei la mia casa.

Nel silenzio della steppa, non ci furono testimoni.
Solo il vento raccolse quella frase
e la cucì nel cuore di Yuli,
tra le costole e i tamburi.


IV. Il sogno che non torna

Gli anni non fanno rumore nella steppa.
Si limitano a cambiare il colore dell’erba,
a scavare rughe nelle mani,
a rendere il silenzio più pesante.

Liu Xijun smise di contare le lune quando capì che Chang’an non l’avrebbe richiamata.
Erano passati vent’anni.
L’imperatore era morto.
Il sigillo che un tempo aveva giustificato il suo viaggio
era ora in mano ad altri ministri, altri sposi, altri compromessi.

Aveva servito l’impero con il corpo, con la voce, con la pazienza.
Ma non con l’oblio.

Un giorno arrivò una carovana da est.
Non portava messaggi, solo seta, medicine,
e una nuova moglie Han per un altro clan dell’ovest.

Tra i pacchi c’era anche un rotolo imperiale decorato d’oro.
Non portava il suo nome.

Nel campo, nessuno ne parlò.
Ma quella notte, Yuli — ora re, ora uomo —
le lasciò davanti alla tenda una lanterna accesa.
Un piccolo gesto.
Un modo per dire:
“Anche se ti dimenticano, io ti ricordo.”

Lei non chiese di tornare.
Non ne parlò più.

Ma fece un’unica richiesta formale al consiglio tribale:

— Quando morirò, seppellitemi rivolta a est.

I sacerdoti Wusun le chiesero il motivo.
Rispose:

“Perché da quell’orizzonte è nato il mio nome.”

E aggiunse, più piano:

— E perché la mia ombra possa tornare a casa.

Si racconta che negli ultimi anni la si vedesse spesso
sola sulla collina, al tramonto,
con un mantello blu sulle spalle e i capelli sciolti.
Non parlava. Non pregava.
Semplicemente guardava verso il punto
dove il cielo toccava la terra —
verso l’est.

A volte chiudeva gli occhi.
E allora tornava nei corridoi di giada,
al profumo delle foglie di pruno,
alla voce della madre che le pettinava i capelli
e diceva piano:

— Ogni filo che cade, ricorda da dove viene.

Una sera, lasciò aperta la tenda.
Sul tavolino di legno grezzo, solo una ciotola vuota
e un foglio piegato.

“Ci sono attese che non finiscono.
Ma anche se non torno, tu hai già il mio silenzio.”

Morì nel sonno, con le mani giunte sotto la guancia.
Aveva l’aspetto di chi stava ascoltando qualcosa.
Forse il vento.
Forse una canzone che tornava da lontano.

 

V. Epilogo – Treni che non si incrociano

Ci sono treni che non si incrociano.
Percorsi paralleli.
Storie che non tornano.
Eppure, nel silenzio che rimane, qualcosa canta ancora.

La poesia attribuita a Liu Xijun fu ritrovata quasi due secoli dopo la sua morte, tra le sabbie del deserto.
Non era scritta su seta preziosa, né incisa sul bronzo.
Solo pochi versi in un manoscritto dimenticato, all’interno di un deposito polveroso nei pressi di Dunhuang.

Un funzionario locale li archiviò sotto la voce: “poesia femminile non identificata”.
Per anni nessuno ci fece caso.

Poi, nel 1923, un vecchio sinologo giapponese, studioso delle spedizioni Han verso l’Asia centrale, sfogliando i rotoli per caso riconobbe il nome di Wusun. E comprese.

Era la voce di una principessa Han, mandata in sposa al confine del mondo.
Una voce giovane, lontana, eppure ancora viva.

La poesia fu ricopiata e stampata con cura.
Accompagnata solo dal titolo tradizionale Canto del Dolore, venne tradotta così:

Canto del Dolore
(attribuita a Liu Xijun, ca. 105 a.C.)

La mia famiglia mi ha data in sposa verso l’estremo cielo,
affidata lontano, in un paese straniero, al re dei Wusun.
Vorrei essere un cigno giallo per tornare alla mia patria.

Quasi un secolo più tardi, a Kyoto, una ragazza di nome Kana lesse questi versi in una raccolta accademica.
Era inverno. Pioveva.
Li lesse su un treno affollato, tornando dall’università.

Non pianse per Xijun.
Pianse per sé.

Per ogni parola che aveva tenuto dentro troppo a lungo.
Per ogni volta in cui il proprio nome era stato pronunciato male.
Per tutte le partenze in cui non si era voltata.

Guardò fuori dal finestrino.
Il suo treno correva accanto a un altro, in senso opposto.
Per un momento — brevissimo — le carrozze si allinearono.
Due mondi paralleli si specchiarono senza toccarsi.

Poi più nulla. Solo pioggia. Solo vetro.

A volte, la storia non torna indietro.
Ma si ripete.

In chi è abbastanza silenzioso da ascoltarla.
In chi sa riconoscere una voce tra le pieghe del tempo.

E in quei tre versi dimenticati,
una principessa Han continua a cantare.

Non per essere ricordata.
Ma perché, da qualche parte,
qualcuno possa riconoscere
la propria solitudine
nella sua.

 














Note

Questo racconto nasce dall’incontro tra memoria storica e voce poetica.
La figura di Liu Xijun – prima principessa della dinastia Han inviata in sposa ai Wusun per ragioni diplomatiche – è documentata da fonti storiche ufficiali, come il Libro degli Han, e dalla poesia nota come Canto del Dolore, autenticamente attribuita alla principessa stessa.

Nella presente narrazione, la sua storia è stata ricostruita intrecciando:

– dati storici e accademici tratti da testi come Princess Xijun, Experiential Metafunctional Analysis of Liu Xijun, la tesi di dottorato di Xiaoxi Zhao, Women in Ancient China, Our Woman in Central Asia;

– uno stile letterario lirico e contemplativo, dove il non detto, il gesto minimo e l’eco del tempo diventano elementi centrali;

– un’attenzione particolare al tema del silenzio femminile come archivio di memoria, resistenza e identità.

Il titolo stesso richiama l’intenzione estetica dell’opera: La distanza che canta nel vento è la metafora del vuoto tra ciò che si lascia e ciò che si diventa – un vuoto che canta per chi sa ascoltare.

L’inserimento del personaggio di Kana, nel Giappone contemporaneo, serve a riflettere l’universalità del silenzio e dell’esilio, connettendo il passato remoto al presente invisibile.
Nel gesto di una lettrice che riconosce sé stessa nei versi di una donna vissuta duemila anni prima, si realizza la continuità della voce.

Come i treni che non si incrociano, certe vite non tornano.
Ma ci lasciano una traiettoria, un canto cucito nei margini della storia.
Questo racconto è un tentativo di ascoltarlo.
E di portarlo, infine, a casa.

 

 

La distanza che canta nel vento testo di R. E. Harlow
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