I colpi di tamburo rimbalzarono lenti e poi morirono dopo un ultimo inciampo, un sussulto finale di ritmo stanco, orgoglioso, che non ci stava a scomparire senza tentare l’ultima rullata.
La grande orchestra scalza si fermò. Orfana di ritmo, in mezzo a suoni randagi e smarriti, non rimase altro da fare che guardarsi per un attimo in faccia. Poi guardarono la gente, muta anche quella, severa, indecifrabile come indecifrabile è la folla. L’epilogo arrivò muto, decenni di paziente attesa fiduciosa per infiltrare l’aria di silenzio , alla prima crepa della musica.
Qualcuno alzò lo strumento al cielo.
“Noi ci scusiamo!”. Uno sciame pesante di brusii cercò di riempire il nulla.
“Noi ci scusiamo!”. Insistette la prima tromba, sudata, gridando sillabe secche di sete dopo aver dato troppo fiato alla prima.
“E’ dunque questo il luogo del nostro commiato?”
Il brusio morì e ricomparvero le facce. Asciutte, incomprensibili come è incomprensibile la folla.
“Non ci fu promessa alcuna tomba, alcun pezzo di terra nel cimitero”. Massi di silenzio, facce dure, le maniche della sua giacca lisa alzate come a dichiarare una resa rabbiosa.
“E vi dirò…non ci è stato mai promesso alcun pubblico. Signori, signore, noi siamo arrivati qui, attendendovi”.
Il resto dell’orchestra mormorò qualcosa, ognuno nella sua solitudine, in un nugolo di preghiere cadute a terra, sole e ammassate.
“Ma a nostra discolpa, occorre che chi sta assistendo a quanto si sta consumando adesso, ricordi bene la verità che abbiamo seguito, e onorato, in questa lunga processione”. Dito adunco, rigido, attaccato alla mano nervosa scossa da un braccio pieno di spasmi, puntò l’indice a terra , su un punto invisibile sul ventaglio di terreno tra i suoi piedi.
“A noi non fu promesso alcun pubblico. Ma laddove siamo stati richiesti, noi abbiamo camminato ed abbiamo suonato. Quando ci è stato detto di camminare e credere, noi abbiamo camminato, abbiamo creduto e abbiamo suonato.” Occhi verdi e ferini, stretti nella morsa di pieghe di un viso irlandese, leonino. Crine riccio e denti spiegati tra le urla secche scagliate nelle facce ferme della folla, come è sempre ferma la folla.
“E noi, signori, abbiamo anche sperato. Con i nostri strumenti, fin dai primi solfeggi ad oggi, noi non abbiamo scelto questa processione. Noi siamo stati messi in cammino e voi, insieme ad altri come voi , ci avete istigato ad andare, a camminare,a proseguire. Noi non abbiamo tradito. Noi abbiamo marciato, noi abbiamo patito, noi abbiamo pianto tanto, abbiamo sperato ed abbiamo suonato”.
Armonia minore di fiati , dal piano al mezzo piano, dal mezzo piano al forte, dal forte al fortissimo,sentì alle sue spalle tende di suono gonfiate dal libeccio , un sipario sonoro mezzo aperto e dietro l’orchestra che riprese a suonare. Un nuovo inizio, oppure un epitaffio.
La folla prese ad agitarsi. Cappotti marroni e visi lividi, lance di sguardi lo trafiggevano senza domande alle miriadi di risposte che gli ruggivano nella pancia, nelle fauci secche, nelle pieghe del viso, nelle vene intrecciate sugli avambracci.
Una donna si staccò dalla fila sinistra. Lo raggiunse come seguendo la corda di uno dei mille sguardi che lo puntavano. Con una pergamena stretta al petto, si avvicinò e glielo donò come se fosse una bevanda donata a chi ha sete. I lembi azzurri si aprirono scivolando sul resto della carta ruvida.
“Se davvero è anima ciò che è stato soffiato nei vostri ottoni, levigato dai vostri archi, dischiuso sulle vostre pelli, che sia allora ogni passo, ogni sentiero, ogni piazza, ogni festa, ogni paese, ed ogni gente incontrata un monumento alla vostra memoria.”
Scritto 02 testo di Gusto Acciaio