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La cucina si riempì del profumo del cibo, mentre le polpette doravano. Ero molto stanca e non avevo voglia di cucinare. Mi facevano male i piedi e la schiena. Le polpette stavano bruciando, ma non mi importava.
Gli avrebbe dato fastidio? Se ne sarebbe accorto? Forse si sarebbe lamentato dei bordi bruciacchiati, ma mi chiesi cosa lo avrebbe fatto infuriare di più stasera: le polpette troppo cotte o cos'altro? Abbassai il fuoco, cercando di salvare il piatto, anche se sapevo che ormai era troppo tardi.
Mi sedetti per quella che mi sembrò la prima volta in tutta la giornata, e mi presi un momento per pensare. Dopo diciotto anni di matrimonio, mi ritrovavo con un piccolo appartamento, due adolescenti problematici e un lavoro dalle 9 alle 5. E un marito che sembrava non accorgersi molto di me. Stavo cercando di capire quando abbiamo smesso di vederci, quando lui ha smesso di notarmi e quando io ho smesso di cercare di farmi notare. Era curioso come la vita fosse diventata così pallida e insignificante; un po' come me, bloccata in una routine che non conduceva da nessuna parte.
Stasera ero felice che i bambini fossero con i loro nonni. Semplicemente non avevo l'energia per occuparmi di loro, oltre a tutto il resto. Ultimamente, ogni conversazione finiva per trasformarsi in un litigio, e oggi ero troppo stanca per affrontare questa situazione. La loro assenza mi ha dato un po' di spazio per pensare, ma anche col silenzio non sono riuscita a liberarmi dal peso di tutto ciò che avevo in testa.
Lo sentii entrare. Come al solito, udii il tintinnio delle chiavi sul tavolo, seguito dal rumore di scarpe che venivano scalciate via. Poi si lamentò dei suoi colleghi, si tolse il cappotto e andò in bagno a lavarsi le mani. Potevo quasi immaginare cosa avrebbe fatto dopo, gesto dopo gesto. Servii le polpette bruciate con del purè.
"Come è andata la tua giornata al lavoro, Arthur?"
"Tutto bene."
Come una porta che mi viene chiusa silenziosamente in faccia. Si sedette senza guardarmi e iniziò a mangiare subito, e io mi sedetti di fronte a lui: la sua forchetta si spostava con movimenti lenti e decisi, partendo dai bordi del piatto e facendosi strada verso l'interno, come se il pasto dovesse essere conquistato un boccone alla volta. Era un'abitudine che aveva fin dall'infanzia, un ricordo di come sua madre gli avesse insegnato a non scottarsi con il cibo caldo. Ed eccolo lì, dopo tutto questo tempo, a seguire ancora le sue istruzioni senza nemmeno rendersene conto.
Mia suocera mi aveva mai "approvata" veramente? Riusciva sempre a ricordarmi che "ai suoi tempi le cose si facevano meglio". Aveva ancora una certa influenza su suo figlio, anche dopo tutti questi anni. A volte mi chiedevo se mio marito mi avesse sposata solo perchè aveva bisogno di un'altra donna che si prendesse cura di lui.
Mi guardai le mani, mentre attorcigliavo la tovaglia. Non era sempre stato così. Eravamo felici, facevamo lunghe chiacchierate su tutto: sui nostri progetti, delle nostre preoccupazioni, di ciò che volevamo dalla vita. C'era stato un tempo in cui queste parole sembravano casa.
Sospirai leggermente e guardai mio marito. Sembrava più vecchio e stanco, proprio come me. La nostra giovinezza era svanita, sostituita da questo... qualunque cosa fosse.
Era sempre stato molto aperto con me, ero sempre stata la prima a sapere tutto. All'epoca, mi sembrava che ci fosse così tanta speranza per la nostra relazione, come se avessimo potuto superare qualsiasi ostacolo insieme. Ma ora? Eravamo solo due sconosciuti seduti allo stesso tavolo, che condividevano lo stesso spazio e nient'altro. Ora, il silenzio tra noi era più forte di qualsiasi parola.
Era questo che succedeva alle coppie quando la scintilla iniziale si spegne e la routine quotidiana prende il sopravvento? Forse ero io quella confusa. E se stessi rovinando qualcosa di perfettamente normale? E se i matrimoni fossero davvero tutti così, e io fossi troppo cieca per accorgermene? Più ci pensavo, più mi sentivo stanca, come se la mia mente girasse in tondo come un criceto sulla sua ruota.
Forse ero io a rendere tutto più difficile del necessario. Mia madre diceva che ero il mio peggior nemico. "Pensi sempre troppo", diceva. Forse aveva ragione. O forse ero diventata troppo abile nel soffrire, troppo a mio agio nel ruolo della vittima. Forse è per questo che mi ci ero aggrappata, forse è per questo che ero rimasta in silenzio, sera dopo sera, seduta di fronte a lui senza dire nulla, lasciando che la routine riempisse lo spazio dove avrebbero dovuto esserci le parole.
A dire il vero, non avrei saputo nemmeno cos’altro fare. Una volta il mio terapeuta mi chiese di immaginare una vita diversa, ma non riuscivo proprio a immaginarla. Ci provavo, ma era come guardare in un buco nero. Come sarebbe stata la mia vita senza questo?
La settimana scorsa mi ha detto: "Prenditi un momento e chiediti: di cosa hai veramente paura? Perchè scegli di soffrire?" Non avevo una risposta allora, e non ce l'avevo adesso. Tutto quello che sapevo è che mi sentivo un po' spaventata. Stavo soffocando, come se il peso di tutto questo mi stesse schiacciando.
E nonostante tutto ero ancora qui. Incapace di parlare. Paralizzata dall'ansia.
Arthur masticava lentamente, ignaro della tempesta che mi turbinava dentro. Le polpette, quelle che aveva sempre amato, giacevano quasi intatte sul bordo del piatto, in attesa che lui le prendesse. Quante altre volte saremmo rimasti seduti così? Quante altre volte avrei raccolto il mio coraggio, solo per ritrovarmi senza parole, lasciando tutti i problemi inespressi?
Alzò lo sguardo all'improvviso, rompendo l'incantesimo. I suoi occhi incontrarono i miei e, per un secondo, pensai che avesse compreso. Non era così.
"Le polpette sono un po' bruciate."
Scoppiai a ridere. Le parole mi uscirono prima che potessi fermarle.
"Sì, lo siamo tutti."