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Che cosa ho fatto della mia vita? È la domanda che dopo ogni compleanno mi attanaglia.
Ed ecco che parte nella mia mente il resoconto.
Sono partita da un sogno. Ho studiato. Poi ho smesso di sognare.
Dopo gli anni di quarantena ho iniziato a bramare la normalità, a considerarmi vecchia per inseguire una strada incerta, a cercare disperatamente una stabilità nell’instabilità del mondo.
Dolorosamente ho abbandonato quello studio, trascurato l’università, e mi sono soffermata su un lavoro che mi pareva sicuro.
Ho volutamente spento gli allarmi dell’istinto per credere alle promesse. Ho combattuto, mi sono impegnata e poi… la caduta.
Non parlo di una caduta metaforica, ma reale. Mi sono fatta male sul posto di lavoro.
Costretta a stare a casa, il veleno delle finte promesse ha iniziato a dissolversi.
Avevo dimenticato le domeniche in famiglia, che cosa volesse dire avere del tempo libero.
Sempre in linea, sempre reperibile anche nel giorno di riposo, sempre pronta agli straordinari per “aiutare l’azienda in difficoltà”.
Avevo iniziato a vivere per il lavoro stesso, dimenticando la vita reale anche nei sogni.
Ed è in questo momento che ho iniziato a pensare a tutto ciò che avevo perso per inseguire quella stabilità economica che non sarebbe mai stata tale.
E pensare che mi ero trovata in quel posto solo per mantenermi gli studi. Gli stessi studi che avevo accantonato perché assorbita da quel negozio, di cui avevo interiorizzato la fisionomia.
Si dice che, quando non sei destinata ad un posto l’Universo faccia di tutto per fartelo capire e così è stato.
Dopo essere tornata, ho iniziato a stare male in quel posto che avevo considerato “Casa” più della mia.
Il male non era solo mentale, ma anche fisico. Mi si contorcevano le viscere fino alla nausea per l’odore acre, che c’era sempre stato, ma che ora sembrava essere diventato più pungente.
Ogni scorrettezza, ogni disagio ha iniziato a palesarsi in modo sempre più vivido.
Il distacco non è stato però così netto.
È dolorosa la consapevolezza di aver confuso uno zircone con un diamante.
È dolorosa la consapevolezza di aver “perso tempo”.
Per mesi ho cercato di rimettermi gli occhiali dell’illusione, ma oramai l’incantesimo si era spezzato.
Ho deciso allora di approfittare del trasferimento che sarebbe venuto di lì a poco per andare via.
Ed eccomi qui, ora, a venticinque anni appena compiuti, a fare i conti con l’ultimo anno che di cambiamenti ne ha avuti parecchi.
Senza lavoro, una casa che sia mia, con una triennale ancora non terminata, con un sogno che ora reputo infattibile e ancora alla ricerca del mio sentiero dai mattoni dorati.
Non mi sento soddisfatta, in realtà vorrei piangere, ma scrivo.
Scrivo perché cerco un senso.
Scrivo perché mi pento.
Scrivo perché sento di aver fatto tanto ma allo stesso tempo di non aver fatto nulla.
Scrivo perché ho paura di sprofondare.
Scrivo per ricordare.
Scrivo perché sono giovane, ma allo stesso tempo lo sono sempre meno.